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La lotta palestinese ed il riconoscimento dello stato

Il punto di vista dei profughi.

Le riflessioni che seguono sono frutto di colloqui effettuati con membri del Fronte Popolare per la Liberazione della Palestina in esilio. Ciò che emerge dalla vita di tutti i giorni dei profughi palestinesi in diaspora è la voglia di tornare nelle proprie case.. Una lotta che non si arresta.

Giordania – Ciò che colpisce di più durante il primo impatto con i rifugiati palestinesi – sono 5 milioni, sparsi in tutto il mondo, soprattutto nell’area mediorientale – è come il ricordo e la lotta per il ritorno siano ad oggi presenti e vivi, nonostante siano passati ormai 64 anni dal nefasto 1948, quando furono scacciati dalle proprie case dalla violenza dell’esercito israeliano.
I profughi: uomini, donne, bambini che, nonostante non abbiano mai hanno visto la propria casa, la propria terra, non accettano di essere considerati cittadini del paese che li ospita. Ogni bambino, nato e cresciuto fuori dalla Palestina, i cui genitori sono nati e cresciuti al di fuori dai confini palestinesi, alla semplice domanda: “di dove sei?” non risponderà mai : “di Beirut”, o “di Amman”, o di uno dei tanti campi profughi sparsi per il mondo. Risponderà sempre di essere di Haifa, di Gerusalemme, di un villaggio, di una città palestinese che non ha mai visto ma che sente suoi, per il semplice fatto che i propri avi lì abitavano, e da lì sono stati ingiustamente scacciati. Quella è la loro terra, lì vogliono tornare, e non smetteranno di lottare per questo.
E’ proprio a loro, siano militanti di movimenti politici rivoluzionari come quelli che abbiamo incontrato, siano semplici rifugiati dei campi profughi, che la recente dichiarazione di riconoscimento dello stato palestinese – con il background politico che porta con sé – sembra non rendere giustizia.

La Palestina è stata accettata all’interno della comunità internazionale, Abu Mazen e la leadership palestinese hanno parlato a tutto il mondo della nascita di uno stato palestinese.
Ma in una realtà come quella palestinese, fatta di costante occupazione, di soprusi giornalieri, la soluzione non può essere quella di affidarsi alla comunità internazionale, né quella, proposta in sede internazionale, di uno stato basato sul vecchio principio “due popoli, due stati”.
Non può essere quella di affidarsi alle istituzioni internazionali perché se si fosse dato seguito alle molteplici risoluzioni internazionali fino ad ora votate, ci sarebbe stato uno Stato indipendente, i profughi sarebbero ritornati a casa loro e le autorità israeliane avrebbero smesso di costruire insediamenti nei territori occupati. Ma niente di ciò è avvenuto, nessuna delle risoluzioni passate è stata attuata. Gli insediamenti illegali e la violenza dei coloni continuano sempre di più.

Non può essere neppure la cosiddetta risoluzione “2 popoli 2 stati”. Questa si pone in netto contrasto con i principi basilari della lotta palestinese: in primis quello del diritto al ritorno delle migliaia di profughi palestinesi nelle loro case. La soluzione, riconoscendo implicitamente le conquiste israeliane e la legittimità dei suoi confini, impedisce ai palestinesi di tornarvi, seppur in un futuro lontano. Si sottace poi del futuro di Gerusalemme, che i palestinesi vogliono come capitale: si sottace cioè il diritto all’autodeterminazione popolare.

Accanto al mancato rispetto dei valori propri della lotta di liberazione vi sono poi non pochi impedimenti materiali alla nascita di qualsivoglia stato nei confini definiti a seguito del conflitto del 1967. Le innumerevoli colonie israeliane che sorgono nei territori palestinesi, le postazioni militari che aumentano giorno dopo giorno, il muro dell’Apartheid che configura una sempre maggior acquisizione territoriale da parte israeliana: tutti questi elementi raffigurano un’impossibilità non solo politica, ma anche materiale, di nascita di uno stato anche solo in una parte della Palestina storica.

Finiti i festeggiamenti iniziali per il riconoscimento della Palestina alle Nazioni Unite (che, ricordiamo, è stata accettata solo come osservatore), la realtà si mostra per quello che è: continui espropri, costruzione di nuove postazioni militari, repressione e arresti (decine quelli effettuati nelle ultime 48 ore), nuove aggressioni sulla Striscia di Gaza, persone che ancora oggi muoiono per le ferite della recente aggressione militare.
Ancora una volta si ripropone la soluzione portata avanti dalla sinistra rivoluzionaria: la lotta per l’autodeterminazione, per il diritto al ritorno e per Gerusalemme capitale.

Proprio in queste giornate è stata Leila Khaled a ricordarcelo: nella celebrazione dell’anniversario della fondazione del Fronte Popolare a Gaza, ha affermato “Viviamo per continuare la rivoluzione, per continuare la resistenza, mai cederemo. Questo diritto è intriso nel sangue del popolo palestinese, lotteremo fino al raggiungimento delle nostre rivendicazioni e del nostro ritorno!”.
Tra la sinistra rivoluzionaria in esilio, vi è chi vede nella mossa del riconoscimento un tradimento dell’autodeterminazione, dei valori rivoluzionari, un tentativo di normalizzazione, un nuovo passaggio parte dei fallimentari “processi di pace”, che solo hanno portato ad una realtà fatta di sussistenza economica e politica. Ma vi è anche chi vede nel riconoscimento della Palestina alle Nazioni Unite un passaggio che può essere positivo, se inserito in un percorso di lotta che miri alla realizzazione dei principi basilari della lotta di liberazione palestinese, in primis del diritto al ritorno.

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