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La Palestina verso l’esempio egiziano

traduzione di Pina Vitiello

Il lento collasso delle istituzioni della dirigenza collettiva palestinese negli anni recenti ha raggiunto il livello di crisi nel bel mezzo delle rivoluzioni arabe in corso, con le rivelazioni dei Palestine Papers e l’assenza di un qualsiasi credibile processo di pace.

L’Autorità Palestinese (AP) con sede a Ramallah controllata da Mahmoud Abbas e dalla sua fazione Al Fatah ha tentato di dare una risposta a questa crisi convocando le elezioni per il Consiglio Legislativo Palestinese e la Presidenza dell’Autorità Palestinese.

Abbas spera che le elezioni possano restituire legittimazione alla sua leadership. Hamas le ha rifiutate in assenza di un accordo di riconciliazione che ponga fine alla divisione venuta fuori dal rifiuto di Al Fatah (unito a quello di Israele e degli sponsor occidentali dell’Autorità Palestinese, primo fra tutti gli Stati Uniti) di riconoscere il risultato delle ultime elezioni tenutesi nel 2006, che videro la netta vittoria di Hamas.

Ma anche se tali elezioni venissero svolte in Cisgiordania e nella Striscia di Gaza, ciò non darebbe un soluzione a questa crisi politica che l’intero popolo palestinese si trova ad affrontare, un popolo di circa dieci milioni di persone, divise tra coloro che vivono in Cisgiordania e nella Striscia di Gaza occupate, all’interno di Israele, e nella diaspora mondiale.

 

Una casa divisa

Ci sono parecchi motivi per opporsi alle elezioni di una nuova Autorità Palestinese, anche se Hamas e Al Fatah dovessero risolvere le questioni in corso tra loro. L’esperienza del 2006 dimostra che la democrazia, l’amministrazione dello stato e la normale vita politica sono impossibili da realizzarsi sotto la brutale occupazione militare israeliana.

Il quadro politico palestinese non si è diviso in due grosse correnti politiche che offrono dei progetti politici in competizione come accade in altre democrazie di tipo elettorale, bensì in una corrente allineata, supportata e dipendente dall’occupazione e dai suoi sponsor stranieri, ed un’altra corrente che rimane, almeno nominalmente, impegnata nella resistenza. Queste contraddizioni non possono essere risolte attraverso le elezioni.

L’Autorità Palestinese con a capo Abbas oggi funziona come braccio dell’occupazione israeliana, mentre Hamas, con i suoi quadri messi in galera, torturati e repressi in Cisgiordania da Israele e dalle forze di Abbas, è assediata a Gaza dove cerca di governare. Allo stesso tempo, Hamas non ha offerto una visione politica coerente per tirar fuori i palestinesi dall’attuale impasse ed il suo ruolo a Gaza inizia sempre più a rassomigliare a quello della sua controparte Fatah in Cisgiordania.

L’Autorità Palestinese fu creata in seguito ad un accordo stipulato tra Israele e l’Organizzazione per la Liberazione della Palestina (OLP) nella cornice degli Accordi di Oslo. La Dichiarazione di principio siglata tra le parti il 13 settembre 1993 affermava:

“Lo scopo dei negoziati israelo-palestinesi all’interno del processo di pace del Medioriente in corso è, tra l’altro, creare un’Autorità di autogoverno palestinese ad interim, il Consiglio eletto (il “Consiglio”), per il popolo palestinese in Cisgiordania e nella Striscia di Gaza, per un periodo

transitorio non superiore a cinque anni, che porti ad una sistemazione permanente basata sulle risoluzioni n. 242 e 338 del Consiglio di Sicurezza dell’ONU.”

Secondo tale accordo, le elezioni dell’Autorità Palestinese “costituirebbero un significativo passo preparatorio e transitorio verso la realizzazione dei legittimi diritti e delle giuste richieste del popolo palestinese”.

 

Un piccolo mandato

L’Autorità Palestinese era dunque intesa come temporanea e transitoria, ed il suo mandato limitato ad un’esigua frazione del popolo palestinese, quella che vive in Cisgiordania e nella Striscia di Gaza. Gli Accordi di Oslo circoscrivevano in particolare i poteri dell’Autorità Palestinese alle funzioni ad essa delegate da Israele secondo quanto previsto dallo stesso accordo.

E’chiaro quindi che le elezioni per il Consiglio Legislativo Palestinese non risolveranno la questione della rappresentanza per il popolo palestinese nel suo complesso. La maggioranza potrebbe non poter votare. Come nelle precedenti elezioni, Israele probabilmente interverrebbe, soprattutto a Gerusalemme Est, per cercare di impedire di votare persino ad alcuni dei palestinesi che vivono sotto occupazione.

In questa situazione, un nuovo Consiglio Legislativo Palestinese eletto servirebbe soltanto ad aggravare ulteriormente le divisioni tra palestinesi creando allo stesso tempo l’illusione che esista un autogoverno palestinese e che esso possa prosperare sotto l’occupazione israeliana.

Quindici anni dopo la sua creazione, l’Autorità Palestinese ha dimostrato di non aver fatto neanche un passo verso “i legittimi diritti del popolo palestinese”, ma rappresenta piuttosto un ostacolo significativo per il loro ottenimento.

L’Autorità Palestinese non offre alcun vero autogoverno o protezione ai palestinesi sotto occupazione, i quali continuano ad essere vittime, uccisi, mutilati ed assediati da Israele in assoluta impunità, mentre lo stesso Israele continua a confiscare e a colonizzare la loro terra.

L’Autorità Palestinese non è mai stata e non può essere il sostituto di una vera leadership collettiva per il popolo palestinese nella sua totalità, e le elezioni dell’Autorità Palestinese non sostituiscono l’autodeterminazione (substitute for self-determination).

Sciogliere l’Autorità Palestinese

Con il completo fallimento del “processo di pace” – il colpo finale gli è stato dato dai Palestine Papers (documenti palestinesi) – è ora che l’Autorità Palestinese segua il destino che ha avuto Mubarak. Quando il tiranno egiziano ha alla fine lasciato il suo posto l’11 febbraio, ha consegnato il potere alle forze armate.

L’Autorità Palestinese dovrebbe sciogliersi in modo simile annunciando che le responsabilità che ad essa furono delegate da Israele vengano ora nuovamente affidate alla potenza occupante, la quale deve adempiere ai doveri previsti dalla Quarta Convenzione di Ginevra (Fourth Geneva Convention) del 1949.

Questa non sarebbe una resa, piuttosto un ammettere la realtà dei fatti ed un atto di resistenza da parte dei palestinesi i quali collettivamente si rifiuterebbero di continuare ad aiutare l’occupante ad occuparli. Rimuovendo la foglia di fico del cosiddetto “autogoverno” che maschera e protegge la tirannia coloniale e militare israeliana da qualsiasi controllo, la fine dell’Autorità Palestinese svelerebbe l’apartheid israeliano agli occhi del mondo.

Lo stesso messaggio andrebbe anche all’Unione Europea e agli Stati Uniti che hanno continuato a sovvenzionare l’occupazione e la colonizzazione israeliana attraverso lo stratagemma dell’”aiuto” ai palestinesi e l’addestramento delle forze di sicurezza che operano come delegati di Israele. Se l’Unione Europea desidera continuare a finanziare l’occupazione israeliana, dovrebbe avere l’onestà di farlo apertamente e non usare il palestinesi o il processo di pace come copertura.

Sciogliere l’Autorità Palestinese può avere come conseguenza qualche sacrificio e una situazione di incertezza per le decine di migliaia di palestinesi (e per chi è alle loro dipendenze) che si sostengono grazie agli stipendi pagati dall’Unione Europea tramite l’Autorità Palestinese. Ma il popolo palestinese nel suo insieme – cioè i milioni che sono state vittime e messi ai margini dagli Accordi di Oslo – ne avrebbe probabilmente maggiori benefici.

Restituire all’occupante i poteri delegati all’Autorità Palestinese renderebbe i palestinesi liberi di focalizzare l’attenzione sulla ricostituzione di un quadro politico collettivo e sulla messa in atto di strategie per liberarsi davvero dal dominio coloniale israeliano.


Una nuova dirigenza

Come può essere una dirigenza palestinese veramente collettiva? Indubbiamente si tratta di una sfida difficile. Molti palestinesi che sono un po’ più vecchi ricordano con affetto il periodo migliore dell’OLP. L’OLP esiste ancora , certo, ma i suoi organi hanno da tempo perso qualsiasi legittimità o funzione rappresentativa. Sono soltanto degli impiegati che appongono dei timbri nelle mani di Abbas e della sua ristretta cerchia.

Può l’OLP venire ricostruita come corpo davvero rappresentativo, attraverso, diciamo, l’elezione di un nuovo Consiglio Nazionale Palestinese (CNP) – il “parlamento in esilio” palestinese? Anche se il CNP avrebbe dovuto essere eletto dal popolo palestinese, in realtà ciò non è mai avvenuto – in parte a causa della difficoltà di tenere delle vere e proprie elezioni in tutta la diaspora palestinese. I suoi membri sono sempre stati nominati in seguito a negoziati tra le varie fazioni politiche e il CNP includeva dei seggi destinati agli indipendenti ed ai rappresentanti degli studenti, delle donne e di altre organizzazioni affiliate all’OLP.

Uno dei punti chiave di disaccordo tra Fatah e Hamas è stata la riforma dell’OLP nella quale Hamas sarebbe dovuta entrare e ricevere un numero di seggi in proporzione nei vari organi di governo dell’organizzazione. Ma anche se ciò fosse avvenuto, non sarebbe stato come avere la possibilità che i palestinesi scegliessero direttamente i propri rappresentanti.

Comunque, se gli stati arabi che ospitano grosse popolazioni di profughi palestinesi attraverseranno delle trasformazioni democratiche, nuove possibilità si apriranno anche alla politica palestinese.

In anni recenti, il diritto di “votare fuori dal proprio paese” è stato assicurato a grandi quantità di profughi ed esiliati iracheni e afgani per elezioni sponsorizzate dalle potenze che occupavano questi paesi. In teoria sarebbe possibile tenere elezioni per tutti i palestinesi, magari sotto gli auspici dell’ONU – includendo la grossa fetta costituita dalla diaspora nelle Americhe e in Europa.

Il problema è che simili elezioni dovrebbero poter contare sulla buona volontà e collaborazione di una “comunità internazionale” (gli USA e i loro alleati), che si sono sempre implacabilmente opposti a qualsiasi possibilità di permettere ai palestinesi di scegliere i propri dirigenti.

Varrebbe la pena di spendere energie e soldi per gestire una burocrazia palestinese transnazionale? Questi nuovi organismi sarebbero vulnerabili alle forme di corruzione e cooptazione che hanno trasformato l’OLP delle origini da movimento di liberazione nazionale alla sua triste versione attuale in cui è stata dirottata da una cricca collaborazionista.

Non ho delle risposte definitive a queste domande, ma mi sembrano quelle che i palestinesi dovrebbero dibattere oggi.

 

Idee dal boicottaggio

Alla luce delle rivoluzioni arabe che sono senza leader, un’altra possibilità interessante è che a questo punto i palestinesi non dovrebbero preoccuparsi di creare degli organismi rappresentativi.

Dovrebbero invece concentrarsi su una potente e decentrata resistenza, in particolare sul boicottaggio, disinvestimento e sanzioni (BDS) a livello internazionale, e sulla lotta popolare nella Palestina storica.

Il movimento del BDS ha una dirigenza collettiva sotto forma di un Comitato Nazionale del Boicottaggio (CNB). Tuttavia, non si tratta di dirigenti che danno ordini o istruzioni alle organizzazioni palestinesi o di solidarietà in tutto il mondo. Piuttosto, stabiliscono un ordine del giorno che rispecchia un ampio consenso da parte palestinese, e organizzano campagne affinché altri lavorino seguendo questa agenda, soprattutto attraverso campagne di persuasione morale.

L’agenda di lavoro comprende i bisogni e i diritti di tutti i palestinesi: porre fine all’occupazione e alla colonizzazione di tutti i territori arabi occupati nel 1967; porre fine a tutte le forme di discriminazione contro i palestinesi cittadini d’Israele; rispettare, promuovere ed applicare i diritti dei rifugiati palestinesi.

La campagna dei BDS è potente ed in crescita perché è decentralizzata e coloro che nel mondo operano per il boicottaggio di Israele – seguendo il precedente della lotta contro l’apartheid in Sudafrica – lo fanno in modo indipendente. Non esiste un organismo centrale che Israele ed i suoi alleati possano sabotare ed attaccare.

Questo potrebbe essere il modello da seguire: continuiamo a costruire la nostra forza tramite le campagne, la resistenza civile e l’attivismo. Due mesi fa, pochi avrebbero potuto immaginare che regimi vecchi di decenni come quello di Ben Ali in Tunisia e di Mubarak in Egitto sarebbero crollati – ed invece sono crollati sotto il peso di proteste massicce e basate su un’ampia partecipazione popolare. In realtà, questi movimenti contengono la promessa più grande di porre fine al regime di apartheid israeliano e di produrre una leadership palestinese autentica, rappresentativa e democratica, di tutt’altro genere di quelle istituzioni inefficienti e burocratiche create dagli Accordi di Oslo. La fine del processo di pace rappresenta solo un inizio.

*Ali Abunimah è il co-fondatore di Electronic Intifada, consigliere politico nella Palestinian Policy Network ed autore del libro : Lo Stato Unico: un’audace proposta per porre fine all’impasse tra Israele e Palestina.

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