La prima guerra senza opposizione
di Nicola Casale_
“Quando i missionari sono arrivati, gli Africani avevano la terra e i missionari la Bibbia. Ci hanno insegnato a pregare con gli occhi chiusi. Quando li abbiamo aperti, loro avevano la terra e noi avevamo la Bibbia”.
Jomo Kenyatta
Le aviazioni occidentali stanno martellando la Libia da settimane. Per “proteggere i civili” attaccano sistematicamente le forze armate libiche e, come sempre, producono gli ufficialmente deprecati “effetti collaterali” che sono il sale dell’intervento umanitario perché terrorizzano le popolazioni per indurle a piegarsi al più forte. Non per caso assieme alle bombe dall’alto la Libia è stata stretta in una morsa di ferro che le impedisce di commerciare e sta già provocando penuria di carburante, viveri e medicinali.
Tutto questo avviene in un silenzio quasi totale dell’opposizione alla guerra. In Italia i tentativi di promuovere una protesta a scala nazionale sono stati due: Emergency il 2 aprile e Napoli il 16. Entrambi hanno visto la partecipazione di 2-3.000 persone. Nulla a confronto delle mobilitazioni del 2003 e poco anche se raffrontate a quelle contro l’intervento nell’ex-Yugoslavia e persino nel 2001 in Afghanistan.
Quella contro la Libia si può davvero definire, almeno finora, la prima guerra senza opposizione. Perché?
Sul piano della reazione di massa l’adesione attiva alla guerra è scarsa come in tutte le precedenti mentre, se si deve stare ai sondaggi, l’opposizione è quasi allo stesso livello. Eppure le piazze sono vuote, le iniziative rare e poco partecipate. Proviamo a individuare le differenze rispetto al 2003.
La guerra all’Iraq veniva subito dopo quella all’Afghanistan ed era sostenuta dalla leadership Usa con una tale enfasi che lasciava presumere che non sarebbe stata l’ultima. La paura che dall’aggressione all’Iraq potesse generarsi una guerra di dimensioni planetarie fu molto forte. La guerra minacciava di giungere sulla soglia di casa: era il caso di uscirne subito fuori per manifestare la propria contrarietà.
Oggi questa minaccia non viene percepita. Gli Usa sembrano intervenire con riluttanza e le stesse azioni belliche sembrano meno distruttive. I media, poi, le danno senza clamore e con profili bassi. Nonostante, dunque, la distanza geografica dal punto in cui cadono le bombe sia molto minore di quella del 2003, la guerra appare come più “lontana”. A ridurre la paura c’è, inoltre, il fatto che la guerra è, ormai divenuta una cosa consuetudinaria, con la quale si convive ormai ininterrottamente da almeno vent’anni.
Nel 2003 un ruolo molto importante fu giocato dall’onda del movimento nato con Seattle. Una moltitudine crescente, in quasi tutto il mondo, aveva messo in discussione la globalizzazione e il “neoliberismo”, denunciandoli come strumenti delle grandi corporations e dei grandi stati per drenare ricchezze dal Terzo Mondo, dai lavoratori, dall’ambiente, provocandone la distruzione. La guerra fu percepita come la continuazione con altri mezzi di questa politica e, per quel movimento che s’era fatto “opinione pubblica” ben oltre le schiere degli attivisti, fu naturale mobilitarsi contro la guerra.
Oggi quell’onda pare aver esaurito tutta l’irruenza. Il non essere riusciti a bloccare le guerra fu avvertito come una “sconfitta”, ma la sconfitta più pesante fu sul piano della democrazia. I milioni di persone che scesero in piazza erano genuinamente convinti che fosse sufficiente manifestare massicciamente il proprio dissenso, che era della maggioranza dell’opinione pubblica, per imporre ai governi il proprio volere, ma i governi non ne tennero conto alcuno. L’impotenza nel decidere o, almeno, condizionare le scelte dei “padroni del mondo” non ha dato vita a una mobilitazione permanente e determinata (tipo piazza Tahir), né all’organizzazione di una battaglia politica per cambiare lo stato delle cose, ma ad un ritorno a casa.
Un altro elemento segna un’ulteriore differenza tra i due momenti: la crisi. Da quando è esplosa, il disorientamento di massa è ulteriormente cresciuto. Se anche non si condividono le politiche che i governi stanno attuando per “uscirne”, non si capisce cos’altro si potrebbe mettere in campo e con chi. Poco utili a risolvere questo problema sono tanto le strutture tradizionali di difesa sul piano economico-sociale, quanto il tipo di mobilitazione ed elaborazione che si erano sviluppate nel dopo-Seattle.
La crisi economica e l’assenza di un’alternativa credibile ha influenza anche su un altro aspetto. Sul piano di massa la percezione, se non la consapevolezza, che i veri motivi dell’aggressione alla Libia non siano umanitari, ma legati al possesso delle risorse petrolifere è piuttosto presente. Tuttavia, a differenza che con l’Iraq, questa volta si tende a pensare, che, per non aggravare la situazione economica, è forse meglio che ci sia qualcuno a garantire che l’afflusso di tali risorse non sia condizionato da un personaggio così imprevedibile come Gheddafi. L’apparato che gestisce l’approvvigionamento di petrolio e gas, e i governi che lo proteggono, non godono di una sconfinata fiducia (anzi!) da parte delle masse che stanno subendo le peggiori conseguenze della crisi, non di meno fiducia ancora minore c’è nei confronti di Gheddafi e un certo timore anche nei confronti di un’estensione dell’instabilità nell’area nord-africana e medio-orientale provocata dal proseguire delle rivolte.
La crisi, insomma, ha acuito in Occidente il processo di polarizzazione sul piano economico-sociale, ma ciò non si è, fino a questo momento, tradotto anche in una polarizzazione politica. Sotto il suo incombere le classi possidenti sono passate a un più deciso attacco delle condizioni di vita e di lavoro delle classi lavoratrici, ma queste ultime avvertono ancora la propria esistenza come dipendente dall’andamento degli affari e del benessere delle prime, sia quando si trovano di fronte a una politica come quella di Sacconi-Marchionne (contro cui non si riesce, infatti, a esprimere una resistenza di massa), sia quando devono scegliere tra i briganti propri e quelli altrui.
Un’ultima, non per importanza, differenza rispetto al 2003 è costituita dalle schiere di attivisti. Allora esse erano numericamente più dense e politicamente più determinate e attive. Oggi le loro fila risultano prosciugate in buona parte proprio dall’andamento deludente del ciclo post-Seattle. In Italia il colpo più duro è stato assestato dalla parabola di Rifondazione, che aveva attratto grande parte di quella spinta coniugandola con un’opposizione politica indirizzata a farsi governo e con l’esperienza che ne è seguita nel governo Prodi, in grado di provocare una profonda delusione e una durevole depressione.
Le schiere di attivisti pur ridotte potrebbero, in teoria, contribuire, però, a suscitare una maggiore reazione anche sul piano di massa. Non sta avvenendo. Perché?
Bisogna tenere presente, anzitutto, che una linea di demarcazione netta tra “masse” e “attivisti” non è tracciabile. I secondi vivono nello stesso ambiente delle prime e, per quanto cerchino di sviluppare un punto di vista autonomo, non possono non risentire dell’umore delle prime. Ciò è, come dire, naturale, fondato, cioè, su comprensibili meccanismi materialistici di formazione della coscienza. Tuttavia, ognuno di essi e dei gruppi cui aderiscono non possono rinunciare allo sforzo di tendere alla formazione di un punto di vista autonomo e, dunque, a una franca discussione sui punti di analisi e di iniziativa.
Sulla Libia, sia pure a gradazioni diverse, c’è un punto che ricorre in praticamente tutto lo spettro di posizioni pacifiste e di sinistra: la qualifica di Gheddafi come “tiranno sanguinario” o epiteti similari.
In verità già Saddam Hussein era stato oggetto dello stesso trattamento da parte dell’informazione ufficiale, ma nel 2003 l’opposizione alla guerra fu ugualmente massiccia. Inoltre, mentre allora ci fu un enorme lavoro di contro-informazione perché nessuna delle informazioni ufficiali veniva ritenuta affidabile, essendo il frutto avvelenato della propaganda bellica, questa volta pare che tutte le notizie date dalle Tv e dalla stampa vengano acriticamente accettate, e non si rifletta neanche su alcune clamorose ammissioni di falsità, fatte per esempio dal TG3 (a proposito del numero dei morti, delle “fosse comuni” e di altro ancora) o di trasmissioni come “Guerra e bugie in tv” de “La storia siamo noi” del 18 aprile.
Ancora più stridente è come si utilizzino certe qualifiche per Gheddafi e non per i Khalifa del Barhein, i Saud dell’Arabia Saudita, Saleh dello Yemen, e Netanyahu, o prima di lui, Sharon.
Ognuno di questi gentili signori ha sulla coscienza (ammesso che ne abbia una!) quantità di morti e di violenza ai danni dei propri popoli sicuramente molto maggiore di quanti ne abbia Gheddafi, eppure il loro nome non è mai associato a qualifiche come “tiranno sanguinario”, “dittatore sanguinario”, “satrapo”, e così via. Anche chi crede che Israele sia democratico non può certo negare che nei confronti dei palestinesi eserciti la più brutale delle tirannie, eppure il “tiranno sanguinario” è … Gheddafi.
Ridurre Gheddafi a un tale personaggio (tutto avidità, accidia e brutalità) è un torto non a lui, ma alla storia di un intero paese e del suo sforzo di riscattarsi dall’oppressione coloniale. Ma di tutto ciò, delle difficoltà del processo post-coloniale libico e non solo, dei cambiamenti prodotti e degli ostacoli incontrati pare che non interessi a nessuno o il tutto viene liquidato in poche parole: non importa quel che stato, ma quel che è oggi. E cos’è oggi? Un dittatore sanguinario. Punto.
Rimandando a dopo qualche accenno sulla rivoluzione libica, prendiamo per buona questa fotografia della realtà. Ammettiamo, cioè, che la questione centrale in Libia sia il potere assoluto nelle mani di un individuo e il suo clan e che costoro lo esercitino nelle più brutali forme di autocrazia e cleptocrazia, sedando nel sangue qualunque anelito di libertà del proprio popolo e impedendo con la violenza che si sviluppino anche l’organizzazione e la lotta di classe del proletariato locale. Tutto ciò ci autorizza a dare credito al fatto che Sarkozy, Cameron, Obama, Berlusconi-Napolitano, stiano bombardando per liberare i libici dall’oppressione?
Secondo Rossanda sì (il manifesto, 9.4.11). Per motivarlo lei si appella alla storia: non furono gli Usaanche i nostri liberatori dal fascismo? Rossanda ha indubbiamente avuto il pregio di dire fuori dai denti una cosa che negli ambienti pacifisti e di sinistra, probabilmente, in molti altri pensano. Che l’abbia detto lei è, purtroppo, particolarmente grave. Avendo avuto il modo di trascorre tutto il tempo da quella “liberazione” a oggi, ha avuto, infatti, anche la possibilità di elaborarne, o ri-elaborarne, il suo vero significato, osservando come abbia messo sulla scena una potenza militare economica e finanziaria che, per conservare ed estendere la propria egemonia, ha costellato gli ultimi sessant’anni di guerre continue (Corea, Vietnam, Iraq, Afganistan, ex-Yugoslavia, Libia), ha bloccato nel sangue (Lumumba, Mossadeq) le rivoluzioni democratiche e anti-coloniali, manomesso a suo piacimento (con modi sofisticatamente sanguinari) l’intero continente dell’America del Sud. Gli Usa non hanno fatto tutto da soli, è vero. Né l’hanno fatto solo per sé stessi, ma per l’intera comunità occidentale degli affari, è vero anche questo. Ma hanno potuto farlo in quanto sono usciti vittoriosi dalla seconda guerra mondiale. Una guerra che fu combattuta non tra “democratici” e “fascisti”, ma tra due blocchi imperialistici che si contendevano il possesso dell’intero mondo. Ricordare questa elementare verità storica, per la politica dominante, equivale a una bestemmia. Quella guerra fu per definizione la guerra della libertà contro il fascismo e il nazismo. Questi due movimenti non rappresentavano il tentativo delle borghesie tedesca e italiana di appropriarsi di colonie, farsi spazio sul piano economico e finanziario erodendone alla potenza inglese in declino e a quella statunitense in ascesa, ma erano l’oscuro “male assoluto” che aveva due soli scopi: ottundere le coscienze, opprimendole e violentandole, e sterminare gli ebrei. È questa la versione più cara a Israele che ne trae il massimo di legittimità di esistere in quanto “stato degli ebrei” sulle spalle e ai danni dei palestinesi. Ma è, appunto, una versione di parte. Di una precisa parte.
Obiezione. Gli Usa non si mossero per liberare tedeschi e italiani dall’oppressione fascio-nazista, però, di fatto, sia pure come derivato secondario, la democrazia arrivò anche da queste parti. Sì, arrivò, ma quel poco di democrazia sostanziale che si consolidò (e che ora dirocca sotto le martellate di destra e centro-sinistra) fu solo grazie alle lotte di classe operaia, braccianti, contadini, giovani, ecc. che il sistema poté assorbire senza eccessivi traumi grazie allo sviluppo economico seguito alle distruzioni belliche e favorito dalla pre-esistenza di un apparato industriale capitalistico.
Di quest’ultimo in Libia non c’è traccia. La rivoluzione verde, che pure avrebbe voluto favorirlo, è fallita proprio su questo punto. Per fattori interni ed esterni. Tra quelli esterni ce ne uno che gli attuali liberatori si preparano a ribadire: un paese produttore di materie prime fondamentali per l’Occidente non deve mai divenire indipendente dalla loro svendita, guadagnando l’autosufficienza alimentare e industriale. Se
dovesse provare a guadagnarsi una simile indipendenza il suo destino sarebbe, come prospettò Rumsfeld per l’Iraq, e come è stato fatto, di essere precipitato nel Medio-Evo.
Gli Usa non vennero a “liberare” l’Europa, i “volenterosi” non vanno a liberare la Libia. In Europa dopo la “liberazione” la democrazia venne lo stesso, perché ci fu uno sviluppo economico notevole. Impedire lo sviluppo economico della Libia è tra i motivi fondamentali dei “volenterosi”. Dopo la liberazione un po’ di democrazia formale arriverà, come in Afghanistan e Iraq, ma al popolo libico sarà più di ora impedito di avere potere reale su qualunque cosa lo riguardi.
A sinistra e tra i pacifisti non tutti la pensano esattamente come Rossanda. In molti comprendono perfettamente le mire imperialistiche di Francia, Inghilterra e Usa, nonché quelle della nostrana comunità degli affari (italica e/o padana), ben rappresentata a destra e tra gli “oppositori” di centro-sinistra. Anche tra questi, però, c’è una grande resistenza a mobilitarsi contro l’aggressione alla Libia. Perché? Si teme di prendere, in questo modo, le difese di Gheddafi, ossia del “tiranno sanguinario”, a fronte del quale i “nostri” saranno pure criminali impuniti, ma, vivaddio, democraticamente eletti!
A scavare, insomma, in queste titubanze si rischia di rinvenire una sorta di “pregiudizio democratico”. Lo stesso che porta a rifiutare l’esempio delle piazze Tahir arabe, in nome, appunto, del fatto che qui per disfarci di personaggi insopportabili abbiamo già gli strumenti appropriati, il voto e i riti elettorali, la libertà d’organizzazione politica e sindacale. Depositari di un sistema superiore, dobbiamo farci carico dell’atavico “fardello dell’uomo bianco” nell’insegnare a questi popoli arretrati le genuine forme della dialettica democratica. Prima era la Bibbia (di Dio o del “progresso” in stile europeo), ora è la democrazia. Poco importa se, chiusi gli occhi per apprendere la lezione, nel riaprirli arabi e africani si troveranno senza terra, senza petrolio e schiavizzati.
Prima di proseguire, un passettino indietro. Qualche accenno sulla Libia.
Gheddafi ha abbandonato da tempo ogni velleità rivoluzionaria, non solo per suo capriccio, ma per le difficoltà insormontabili che ha trovato innanzi.
La “rivoluzione verde” era nata, dall’“alto”, contro re Idris, fantoccio inglese che passava le sue giornate a via Veneto a Roma, e contro il colonialismo italiano e inglese, ma aveva trovato un partecipato consenso di massa quando nazionalizzò il petrolio e ne impiegò la rendita per il welfare state. Il progetto era di fare della Libia un moderno paese capitalista, con industrie, agricoltura moderna e relative classi, borghesi e proletari. L’obiettivo è fallito, per una combinazione di motivi.
Anzitutto la distribuzione della rendita non invoglia granché al lavoro (i lavori manuali sono, infatti, di gran lunga riservati agli immigrati). Secondariamente è ben difficile costruire industrie e agricoltura moderna quando le potenze occidentali inondano i mercati con i loro prodotti industriali a basso costo e i prodotti agricoli sovvenzionati. A queste condizioni investire capitali in loco non ha gran senso e, infatti, Gheddafi ha dirottato in Occidente parte significativa dei capitali statali, non certo a comandare, ma per incassare qualche dividendo. Nel contempo, dismessa l’aurea di rivoluzionario, ha cercato di conquistare un posto nella “comunità internazionale”. Questa, per accettarlo, gli ha imposto di trasformare la Libia in ante-murale della jihad islamica e dell’“invasione dei migranti”, incarichi che Gheddafi ha diligentemente eseguito. In questa involuzione del processo rivoluzionario Gheddafi ha messo in atto una repressione del dissenso e della libertà d’espressione (tuttavia, ben lontani dai genocidi che gli imputano).
Il popolo libico, e gli immigrati in Libia (tutti, quelli che lavorano e quelli che sono imprigionati nei lager prodiani-berlusconiani), avrebbero, insomma, tutto il diritto di cacciarlo via per mettere in atto gli obiettivi traditi della rivoluzione e politiche di maggiore indipendenza dallo sfruttamento imperialistico. È questo l’obiettivo che muove gli “insorti” e le armate occidentali che ne stanno realizzando i desideri?
Gli insorti di Bengasi hanno già dichiarato la volontà di rispettare gli accordi anti-immigrati e scatenato pogrom contro di loro, bollandoli come “mercenari di Gheddafi”. Anche gli sponsor occidentali, mentre
litigano sulla spartizione del bottino, hanno intendimenti del tutto chiari. Il primo obiettivo è prendersi il petrolio libico (la Francia, sospinta dalla crisi del nucleare post-Fukushima, anela anche al gas, sottraendone all’Eni). Come mai?, si dirà, il petrolio i libici ce lo vendono già. Il problema è, però, come viene ben spiegato nel recente quaderno speciale di LiMes “La guerra di Libia”, è il prezzo al quale è venduto e le condizioni troppo limitative che vengono poste alla libertà delle compagnie occidentali. Gheddafi pone, insomma, condizioni troppo dure per le compagnie. Per alimentare i suoi conti esteri o per finanziare il welfare libico? Conoscendo l’amore di Obama, Berlusconi, Sarkozy, Cameron per il welfare state la risposta dovrebbe essere piuttosto facile. Manlio Dinucci su il manifesto del 22.4.11 (in una delle rare finestre informative rimaste ormai in questo giornale, per il resto votato al sostegno ai “liberatori”) rivela un altro umanitario intendimento: sequestrare i capitali della Banca nazionale e dei fondi sovrani libici. In ambienti giudiziari questa si chiamerebbe “rapina a mano armata”. Utile per cercare di tamponare la crisi finanziaria di Usa, Gran Bretagna e tutto l’Occidente, come è utile impedire che si realizzi l’iniziativa di Gheddafi di sostituire il dollaro nelle transazioni commerciali e, addirittura, di puntare a una moneta africana (il dinaro d’oro) per cercare di sottrarre l’intero continente al signoraggio della moneta a stelle e strisce.
Quello degli “insorti” e dei loro sponsor è, insomma, un obiettivo diametralmente opposto al primo: non portare avanti la rivoluzione tradita, ma distruggere minuziosamente anche ciò che la rivoluzione ha realizzato. Soprattutto distruggere uno stato che, pure avendo perso ogni carattere rivoluzionario, costituisce una spina nel fianco alla stabilità politico-finanziaria mondiale, ossia al normale flusso di profitti verso le cittadelle finanziarie occidentali.
Ulteriore obiettivo dei “liberatori” è di assestare un altro colpo (dopo il Sudan) all’estensione della rete di affari e commerci della Cina (nell’attesa di poterne assestare uno anche alla Russia “liberando” la Siria).
Ultimo scopo, mettere una cappa politico-militare sul processo di rivolte iniziato nell’area. Da un lato esigono di essere riconosciuti come gli unici difensori della democrazia, della libertà e dei diritti umani in modo da prendere nelle proprie mani la direzione del processo di cambiamento iniziato, e condizionarne gli esiti soprattutto se dovessero rischiare di minacciare la divisione internazionale del lavoro e la ripartizione internazionale del valore. Dall’altro lato ribadiscono la loro incontrastabile superiorità militare e gli Usa si preparano anche a posizionare la sede di Africom nella Libia “liberata”, o nella Cirenaica/Kosovo “liberata”.
Per comprendere gli obiettivi di “insorti” e “liberatori” non c’è bisogno di fare particolari ricerche. Sono tutti chiaramente enunciati. Basterebbe, per esempio, seguire la polemica anti-francese della Lega o, per altro verso, la sottomissione agli Usa di Napolitano/centro-sinistra per ottenere protezione (contro le mire francesi) nel conservare almeno in parte i lucrosi presidi economici stabiliti in Libia (Berlusconi, infatti, ha deciso di sganciare bombe dopo le cortesi sollecitazioni del Nobel per la pace).
Per concludere. Che Gheddafi sia o meno il “tiranno sanguinario” descritto dai media, non influisce sulla natura e lo scopo dell’iniziativa dei “liberatori” e dei loro quisling locali. La sua cacciata ad opera di questi ultimi peggiorerà l’oppressione ai danni del popolo libico e produrrà al massimo una democrazia di pura facciata, in cui (come in Iraq e Afghanistan) persino i partiti che potranno presentare liste saranno scelti da chi detiene il potere reale.
Il moto di rivolta iniziato nell’area si troverà dinanzi un nuovo fenomenale ostacolo, ma le masse lavoratrici, di giovani e donne che si sono messe in movimento difficilmente rinunceranno a proseguire il percorso di conquista della libertà e di riscatto economico-sociale che hanno iniziato.
Senza pretese di indicare a loro la direzione da imprimere alle loro lotte, c’è, però, senz’altro una cosa che in Occidente sarebbe utile fare: impedire che le potenze coloniali, i “nostri” governi, ritornino a dominare nella regione. Opporci con tutte le forze, con la denuncia e la mobilitazione, all’aggressione alla Libia, mettendo la lotta contro la guerra insieme alla lotta per fermare l’aumento dello sfruttamento del lavoro, dell’attacco ai beni comuni, della distruzione dell’ambiente e della vita.
Nicola Casale
30.4.2011
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