InfoAut
Immagine di copertina per il post

Le radici politico-ideologiche del disastro afghano

||||

La sconfitta statunitense è politica e il giudizio che la riguarda non può astenersi dall’interrogare l’identità ideologica stessa e il ruolo storico degli Stati Uniti.

Di Davide Grasso da Micromega

Biden si è rivolto al popolo statunitense – che non ama (ammettere) le sue (continue) sconfitte – solleticando sentimenti sottilmente «suprematisti»: siete sicuri, ha chiesto, che vorreste combattere per persone che (sottinteso: a differenza vostra) non sono in grado di difendere il proprio paese? Potrebbe essere la stessa cosa che si sono chiesti i soldati afghani – d’elite o regolari – che si sono in effetti battuti e hanno perso la vita in questi giorni in molte battaglie sparse e disperate, lasciati soli da alti comandanti, governatori e presidenti locali e stranieri. Prima di ridurre a materiale propagandistico delle persone cui vent’anni fa era stato promesso un futuro luminoso (il “nation building” che ora Biden rinnega), bisognerebbe chiedersi perché si è arrivati, senza particolari sorprese, a questo punto.

Chi è stato in Iraq, ad esempio, può trovare curioso che lo sfaldamento delle catene di comando militari, amministrative e politiche dell’Afghanistan di questi giorni ricordi così da vicino quello raccontato dai testimoni della «improvvisa» e «inarrestabile» avanzata dell’Isis nel 2014. Saranno gli islamisti più coraggiosi, più preparati? Avranno il consenso della popolazione? Verso la fine del mandato Trump ha deciso di accelerare l’attuazione della promessa elettorale di ritiro dagli scenari di guerra. Mentre ancora fumavano le rovine di Serekaniye nel Rojava curdo-siriano, abbandonato per aprire la strada ai jihadisti di Erdogan, il segretario di stato Pompeo si è rivolto all’altro polo dell’asse islamista turco-qatariota – do ut des? – affinché promuovesse «negoziati di pace» in Afghanistan.

La rete regionale della Fratellanza musulmana non chiedeva di meglio: legittimare una decennale resistenza islamica purista e conservatrice, per oltre vent’anni bollata come «terrorista» e su cui l’America aveva fondato i suoi anatemi inaugurali nel secolo, aprendole un ufficio a Doha e accogliendola in patinati congressi internazionali. Inutile dire che i politici e i funzionari afghani (per fare carriera nelle istituzioni afghane, c’è da crederlo, ci vuole scaltrezza) hanno tirato le somme dell’accelerazione filo-islamista dell’amministrazione statunitense più islamofoba della storia. Già nei primi mesi del 2020, con soldi non certo caduti dal cielo, i Talebani hanno proposto ai comandi provinciali dell’esercito afghano rese anticipate mascherate da «cessate il fuoco», comprate a suon di sostanziose mazzette. Ecco il «blitzkrieg» Talebano.

Questa è cronaca militare, cui segue l’immenso dramma umanitario (di fronte al quale «eroi» dell’anti-islamismo come Emmanuel Macron già si agitano per chiudere ogni spiraglio a chi fugge dal nuovo emirato). La sconfitta statunitense però è politica e il giudizio che la riguarda non può astenersi, di fronte a fatti di tale gravità, dall’interrogare l’identità ideologica stessa e il ruolo storico degli Stati Uniti. Washington è entrata nella politica afghana negli anni Ottanta, fornendo armi e denaro a capi tribali unitisi contro il governo comunista del paese. È allora che gli Usa hanno posto il nocciolo delle basi relazionali che hanno usato nel paese fino a oggi. Il governo comunista afghano dell’epoca era guidato dal Partito democratico popolare (Pdp), la cui azione nella società aveva provocato dal 1978 lo scandalo e l’insurrezione dei leader tribali, da tempo immemore autorità giudiziarie, custodi della tradizione e proprietari terrieri. La rivolta dei patriarchi si dirigeva contro la riforma agraria, la cancellazione dei debiti contratti (con loro stessi) dai contadini, la sottrazione dei minori al lavoro per portarli a scuola e l’abolizione delle norme matrimoniali sfavorevoli a donne e minori (spesso sposati forzatamente molto giovani).

L’insurrezione intimorì l’Unione Sovietica che intervenne militarmente nel paese contro lo stesso governo comunista, sostituendolo con uno più moderato; ma contrariamente alle aspettative di Breznev l’intervento non mitigò l’opposizione dei clan, anzi la ringalluzzì: ora i notabili potevano presentare la difesa dei loro privilegi come «resistenza nazionale». Nacque allora la leggenda, venduta da giornalisti statunitensi come italiani, dei mujahidin («combattenti del jihad») come «freedom fighters» (espressione usata per gli insorti ungheresi del 1956). La libertà viene intesa in molti (forse troppi) modi (ne nacquero pellicole propagandistiche come Rambo III) ma non è nulla che non si veda oggi con i «ribelli siriani moderati» di Al-Qaeda a Idlib, il cui leader Al-Zawahiri fondava l’organizzazione con Bin Laden proprio nella guerriglia afghana di quegli anni, sostenuta oltre che dagli Usa da Pakistan, Arabia Saudita e Regno Unito.

Di fronte ai fatti odierni ciò che colpisce è che, nonostante tutto questo, il ritiro sovietico deciso da Gorbacev e attuato nel 1989 (dopo dieci anni di occupazione) non coincise affatto con la fine del conflitto tra afghani patriarchi (e loro seguaci) e afghani socialisti o ostili al tradizionalismo. Le truppe governative, sostenute da formazioni autonome in alcuni territori (ma avversate, oltre che dai nascenti gruppi islamisti, da una guerriglia maoista locale) continuarono a combattere per tre anni. Furono sconfitti nel 1992 e questo, molto più che quello del tutto fuorviante con Saigon, è il paragone interessante sul piano storico. Non per rimpiangere la politica comunista in Afghanistan o suggerirne improbabili nostalgie, ma per riconoscere la differenza specifica della debacle americana.

I bombardamenti della Nato arrivarono nove anni dopo, nel 2001. Mutatis mutandis, lo scontro «mancato» rimpianto da Biden è la mancata ripetizione – davvero come terribile farsa – di quello che aveva preceduto, negli anni Novanta, l’invasione statunitense. Allora le guerre per il potere economico e politico tra i leader tribali vittoriosi avevano trovato una fine ad opera del movimento studentesco (non mentalmente aperto) dei Taliban, costituito nel 1994 proprio a questo scopo: uniformare il paese sotto il dettato islamico che, nelle sue versioni più fedeli all’esempio profetico, ha sempre cercato di relativizzare, sia pure con forme di pesante compromesso (cui i Taliban non furono e non sono alieni), l’importanza dei legami tribali. I leader sconfitti, inopportunamente magnificati (di nuovo in questi giorni) attraverso epopee leggendarie come quella di Ahmad Shah Mahsud (il «Leone del Panshir»), si rifugiarono in un 10% di territorio sui confini settentrionali, costituendo la cosiddetta Alleanza del nord; e cinque anni dopo, dopo la strage di New York concepita da Bin Laden su suolo afghano, Washington vi attinse per il nuovo (si fa per dire) ceto politico di un Afghanistan… liberale.

Il disastro era in incubazione fin dal primo momento. Contrariamente ai comunisti, che agirono considerando gli afghani dei soggetti in contrapposizione tra loro per appartenenza sociale e valori, gli Stati Uniti li considerarono oggetti passivi, sia pur «da liberare»: tutti uguali, leggibili dalla a alla z sotto la lente trita di un pessimismo neocoloniale-hobbesiano, da redimere secondo una logica di tipo paternalistico. Per questa versione impoverita e depotenziata dell’illuminismo nulla può esistere socialmente, fuori dall’occidente, se non le maledette tribù: e la profezia si autoavvera. Una pletora di signori e signorotti da sempre in cerca di lacché, soldi, visibilità e potere non si sono affrontati più, nell’Afghanistan «liberale», mandando a morire i giovani delle loro famiglie in nome di codici d’onore disonorevoli per qualsiasi mente moderna – come avevano fatto i «freedom fighters» negli anni Novanta. La presenza militare internazionale li ha addomesticati alla mentalità straniera del lobbying, prontamente adattata a clientele e cliché locali.

Ora se è difficile promuovere il progresso dall’interno di un paese con un progetto politico decisamente militarizzato – come cercarono di fare i comunisti – figuriamoci senza un progetto politico e basta, basandosi su qualche richiamo ideologico e su un ceto politico antidiluviano, magari trasfigurato da letture «think tank» dove i rapporti umani sono unicamente concepiti secondo faglie etnico-religiose: un’umiliazione per gli afghani e per le scienze sociali. Le donne stesse non sono mai state narrate o guardate come persone con cui bisogna strappare uno spazio di organizzazione autonoma (i movimenti femminili e di sinistra afghani sono sempre stati lasciati ai margini) ma come entità passive per cui «liberare» significa, nuovamente in senso paternalistico, «proteggere». Se la verità si è manifestata tardi è soltanto perché bisognava spillare dollari da quel carnaio. Giornalismo d’inchiesta e cinema statunitensi di questi anni hanno regolarmente descritto l’Afghanistan come un buco nero della corruzione globale, funzionale all’industria internazionale delle armi. I vantaggi temporanei di questi anni per una parte delle donne e dei giovani non vanno disprezzati, ma è un altro luogo dove l’America ha fallito e fatto del male mandando i suoi figli a morire.

Che questo sia avvenuto per la più grande tragedia patita dalla plurale, avanzata e multietnica New York – la cui cittadinanza non ha mai voluto questa guerra, neanche nel primo istante – fa piangere. Angela Merkel teme ora per quella parte di Afghanistan che «avrebbe voluto un paese liberale». Non l’hanno forse avuto? Che la maggioranza delle afghane e degli afghani non vogliano un emirato è certo, ma c’è da chiedersi se l’alternativa non vada cercata molto lontano nel modello ideologico che continuiamo a lasciar prevalere nella nostra epoca. Forse il liberalismo si rivelerà un giorno esser stato una specie di bluff: una pacca su uniformi la cui semplice minaccia tecnologica protegge, a scadenza, accozzaglie di trogloditi pronti a firmare investimenti e concessioni. Si dice «liberale» ma si intende capitalista: un trucco molto più vecchio dei Taliban. Perché lamentarsi, quindi, di chi ha gettato le armi? Di chi ha abbandonato il popolo, di chi ha accettato i soldi? Non si sono forse comportati da «liberali»? – Solo loro?

Ti è piaciuto questo articolo? Infoaut è un network indipendente che si basa sul lavoro volontario e militante di molte persone. Puoi darci una mano diffondendo i nostri articoli, approfondimenti e reportage ad un pubblico il più vasto possibile e supportarci iscrivendoti al nostro canale telegram, o seguendo le nostre pagine social di facebook, instagram e youtube.

pubblicato il in Conflitti Globalidi redazioneTag correlati:

afghanistandavide grasso

Articoli correlati

Immagine di copertina per il post
Conflitti Globali

Cina, le linee guida del plenum sul piano 2026-2030

Si è conclusa la quarta sessione plenaria del XX Comitato centrale del Partito comunista. Fissati gli obiettivi generali del XV piano quinquennale.

Immagine di copertina per il post
Conflitti Globali

Torino: cariche alla manifestazione in solidarietà alla popolazione palestinese e contro il governo Meloni “Blocchiamo Tajani”

Una manifestazione indetta per contestare la loro presenza come esponenti del Governo Meloni, complice di Israele nel genocidio in Palestina.

Immagine di copertina per il post
Conflitti Globali

Tunisia in rivolta: proteste e scioperi contro l’inquinamento dell’impianto chimico

Il 21 ottobre 2025, la città tunisina di Gabès è stata paralizzata da uno sciopero generale e da massicce proteste contro l’inquinamento causato dall’impianto chimico statale gestito dal gruppo Tunisian Chemical Group (CGT)

Immagine di copertina per il post
Conflitti Globali

Brasile: solidarietà internazionalista, João Pedro Stédile spiega la posizione del MST sul Venezuela

João Pedro Stédile, nell’intervista che ha concesso a Rádio Brasil de Fato, spiega la posizione politica del Movimento dei Lavoratori Rurali Senza Terra (MST) di fronte alla situazione in Venezuela.

Immagine di copertina per il post
Conflitti Globali

Sui diritti degli Indiani americani

In corrispondenza con noi Sibilla Drisaldi del Healing and Freedom Movement e Donald Hatch, detto Buddy, rappresentante della tribù Cheyenne e Arapaho del Sud Oklahoma. 

Immagine di copertina per il post
Conflitti Globali

Guerra alla Guerra! Blocchiamo Tutto!

Di seguito il comunicato di GUERRA alla GUERRA rispetto a valutazioni e prospettive del percorso.

Immagine di copertina per il post
Conflitti Globali

Roma: accendiamo i riflettori della festa del cinema sulla Palestina, blocchiamo l’ambasciata israeliana

Venerdì 24 novembre alle ore 18 in piazza Verdi a Roma è stato chiamato un corteo da parte di diverse realtà di cui riprendiamo il comunicato.

Immagine di copertina per il post
Conflitti Globali

Milano: “fermiamo la macchina di guerra”. Presidio lunedì 20 ottobre alla Malpensa

Lunedi 20 ottobre è prevista la partenza da Malpensa del volo CV06311 con cinque carichi di ali di F-35 diretti allo stabilimento Lockheed Martin di Fort Worth, USA, per l’assemblaggio e la successiva spedizione verso Israele.

Immagine di copertina per il post
Conflitti Globali

Dalla strategia di Trump ai pakal

Nelle analisi non è bene separare le diverse dimensioni della dominazione, né di nessun oggetto di studio.

Immagine di copertina per il post
Conflitti Globali

Nel Paese Basco meridionale: risposta antifascista contro i nostalgici di Franco

Durante il raduno, i sostenitori della Falange hanno moltiplicato i saluti fascisti, sfilando con bandiere spagnole e simboli della dittatura militare.

Immagine di copertina per il post
Conflitti Globali

Afghanistan e Pakistan, combattimenti alla frontiera con decine di morti

Lungo il confine settentrionale tra Afghanistan e Pakistan si è registrata un’escalation significativa nelle ultime ore, con scontri armati che hanno coinvolto artiglieria pesante e aviazione.

Immagine di copertina per il post
Conflitti Globali

AFGHANISTAN: ATTACCO SUICIDA IN UNA SCUOLA DI KABUL. OLTRE TRENTA MORTI, LA MAGGIOR PARTE STUDENTESSE

Afghanistan. Il bilancio provvisorio è di circa 30 persone uccise e oltre 40 ferite in un attentato suicida, seguito da una sparatoria, in un un centro educativo a ovest di Kabul avvenuto venerdì mattina, 30 settembre 2022. L’esplosione è avvenuta all’interno del centro educativo “Kaj” nel quartiere di Dasht al-Bar-shi, abitato da sciiti e in […]

Immagine di copertina per il post
Conflitti Globali

Afghanistan, attori internazionali, crisi umanitaria, Isis K

Abbiamo chiesto a Laura del CISDA (Coordinamento Italiano Sostegno Donne Afghane), attivo nella promozione di progetti di solidarietà a favore delle donne afghane sin dal 1999, di raccontarci come stanno andando le cose in Afghanistan a ormai tre mesi e mezzo dall’insediamento del governo dei Talebani. Ci ha restituito il quadro di un paese al […]

Immagine di copertina per il post
Conflitti Globali

L’opera dell’imperialismo e dei suoi scagnozzi (alleati) non è una sorpresa

Il punto di vista di Rawa sulla condizione in Afghanistan. Ottobre 2021. Estratto del dossier pubblicato da Rawa * Per la maggior parte degli opinionisti politici la veloce conquista di Kabul da parte dei talebani è stata una sorpresa perché non si pensava così immediata. Questo è successo perché i militari afghani non hanno fatto nulla […]

Immagine di copertina per il post
Conflitti Globali

La lotta delle donne afghane per la libertà e la democrazia non sarà mai un fallimento

Dichiarazione di RAWA sul 20° anniversario dell’occupazione dell’Afghanistan da parte di USA/NATO Dopo vent’anni di guerra, il massacro di decine e migliaia di innocenti e la consegna dell’Afghanistan ai loro tirapiedi talebani (assicurando loro 85 miliardi di dollari in armi ed equipaggiamento militare), gli Stati Uniti e la NATO hanno parlato di “fallimento strategico” in […]

Immagine di copertina per il post
Approfondimenti

Note di carattere militare sulla disfatta occidentale in Afghanistan

di Sandro Moiso per Carmilla Il lettore non deve aspettarsi di trovare uno studio generale di «scienza militare» o l’esposizione sistematica di una teoria dell’arte militare. No, il problema di Engels era […] di aiutare il lettore ad orientarsi sul corso delle operazioni e anche di sollevare, di quando in quando, quello che si usa […]

Immagine di copertina per il post
Conflitti Globali

Contro il fondamentalismo, la violenza patriarcale e l’oppressione: libertà di movimento per tutte e tutti. Statement sulla situazione in Afghanistan

di E.A.S.T. (Essential Autonomous Struggles Transnational) → English Tanto la guerra in Afghanistan quanto la supposta fine della guerra si giocano sulla vita delle donne. Prima, abbiamo assistito all’ipocrita grido di protesta a favore dei diritti delle donne, a cui è seguita una spietata guerra durata vent’anni che ha colpito in misura maggiore proprio le […]

Immagine di copertina per il post
Conflitti Globali

“Lettera aperta a Merlo e compagnia” di Bifo

Di Franco Berardi Bifo da comune-info.net   Il coro di raffinati intellettuali ha ripreso a cantare: esportare la democrazia è un nostro diritto, anzi un nostro dovere! Cantano nel coro illustri intellettuali come Francesco Merlo, Ernesto Galli della Loggia, Fiamma Nierenstein e naturalmente Giuliano Ferrara. Colpito da tanta passione democratica sono andato a informarmi, e […]