«Seguiamo l’esempio delle donne prima di noi, hanno sempre preso parte a manifestazioni e scontri. Portiamo le pietre ai ragazzi, blocchiamo le jeep dei soldati con quelle più grosse, distribuiamo l’acqua, li aiutiamo quando respirano i lacrimogeni». A. B. ha 20 anni e da due settimane scende in strada per confrontare l’esercito israeliano lungo il muro di Betlemme. Smalto alle dita, smartphone, jeans attillati. E pietre in mano.
Ieri mattina erano tantissime, di tutte le età, in marcia dietro il feretro di Moataz Zawahre, 27enne del campo profughi di Dheisheh, ucciso dall’esercito israeliano martedì sera. Vicino al Fronte Popolare, è stato accompagnato al cimitero dei Martiri da migliaia di persone. Tra loro tante donne con la kefiah al collo, velate e svelate, giovanissime. Cantano cori, battono le mani, invocano l’Intifada. A funerale finito, ci dice A., andranno al muro che separa Betlemme da Gerusalemme.
È la “generazione Oslo”, come viene definita in modo spregiativo dai tanti convinti che gli adolescenti palestinesi, nati dopo la firma degli Accordi di Oslo, siano del tutto depoliticizzati, interessati ai vestiti alla moda e alla foto profilo di Facebook. Oggi sono loro che guidano la protesta, lontani anni luce dai partiti politici che restano in silenzio dietro le scrivanie.
«Ci chiamano la “generazione di Oslo”, quando va peggio la “generazione dei corn flakes” – continua A. – Eppure tutti i morti di queste due settimane hanno meno di 25 anni, alle manifestazioni andiamo noi. Non siamo organizzati, scendiamo in strada perché lo sentiamo. La prima volta ero con quattro amiche, poi ne ho conosciute molte altre agli scontri. Ci muoviamo insieme, come un blocco. E, da ragazze di città, facciamo riferimento ai campi profughi dove i nostro coetanei sono stati cresciuti a pane e politica».
Dina Khaled di anni ne ha 22: matita nera agli occhi, lunghi capelli neri, kefiah rossa. «Ci hanno sempre accusato di essere privi di un background politico – spiega al manifesto – Una bugia: ognuno di noi si rifà ad un’ideologia politica, ma alla fine quello che ci guida è la Palestina. Se scendiamo in strada e lanciamo sassi è per la Palestina, non certo per le fazioni politiche che non ci rappresentano più. Non certo per l’Autorità Palestinese, che invece di sostenerci ci ostacola».
Già, la Palestina. La “generazione Oslo” non l’aveva dimenticata. Questo ci dicono gli scontri e gli attacchi di questi giorni, portati avanti da minorenni e ragazzi che non superano i 23–24 anni. La generazione precedente, quella della Seconda Intifada, li guarda incapace per ora di prendervi parte, bloccata dalle sofferenze che quegli anni riaccendono nelle menti: «Noi donne abbiamo sempre preso parte alla lotta di liberazione – ci dice Ayah Adel, 30 anni – Durante la Seconda Intifada ero in strada a manifestare. Non riesco a contrapporre le donne agli uomini nelle proteste di queste settimane, perché l’obiettivo e i mezzi sono gli stessi».
«Ci si chiede cosa abbia risvegliato i nostri giovani. A me questa rivolta non stupisce: si tratta di adolescenti slegati da partiti politici che hanno chiuso loro le porte, ragazzi che non hanno mai visto Gerusalemme, non hanno mai visto il mare, che sentono concretamente la mancanza totale di libertà di movimento e espressione. Il ragazzo che martedì ha compiuto l’attacco nel bus israeliano, Baha Elayyan, lo scorso anno organizzò una catena umana di migliaia di lettori di libri lungo le mura della Città Vecchia di Gerusalemme. Un ragazzo attivo, preparato, la cui violenza è stata figlia dell’occupazione».
Un sentimento di oppressione comune ai più giovani che ha annullato le differenze: che vivano nella bolla “liberale” ma contradditoria di Ramallah o in comunità conservatrici come Jenin o Hebron, reagiscono nello stesso modo.
La chiamano già tutti Intifada. Che lo sia o meno, di certo è di nuovo una rivolta popolare, fatta dalla gente e non da partiti o gruppi armati. Se nella Prima Intifada erano i volantini e i giornali clandestini a mobilitare, oggi sono i social network e i campus delle università.
Non sono pochi quelli che sperano in una sollevazione come quella del 1987. Asma Kilani si sposò durante la Prima Intifada. Di nascosto, il marito era ricercato. Ora è a capo dell’associazione di donne Aowa di Jenin: «Rivivo l’atmosfera di allora: la rivolta è popolare, fatta da ragazzi e ragazze, e sono convinta che a breve ne prenderanno parte ampi settori della società – spiega al manifesto – Allora il ruolo delle donne sarà fondamentale: sono loro a gestire le scuole, i comitati di quartieri, le cliniche quando l’occupazione reprime l’Intifada. Non deve trasformarsi, come la Seconda, in una rivolta armata perché altrimenti la toglieranno dalle mani del popolo. E da quella delle donne».
da ilmanifesto