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Libano sull’orlo del baratro: tra Coronavirus e crisi sociale

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La profonda crisi politica, economica e finanziaria che sta attraversando il Libano – iniziata nell’autunno scorso con manifestazioni contro il carovita e proteste antigovernative trasversali a livello confessionale – sta mettendo progressivamente in luce le numerose discriminazioni sociali radicate nel paese dei cedri smascherando, allo stesso tempo, un sistema politico fondato quasi esclusivamente su principi neoliberali e clientelari che stanno schiacciando da tempo le classi più vulnerabili della società e alcune tra le categorie maggiormente trascurate dalle politiche locali quali, ad esempio, rifugiati e migranti economici.

In particolare, nelle ultime settimane si sono susseguiti, apparentemente senza sosta, i disastrosi effetti prodotti dalla dichiarazione del default finanziario annunciato dal governo di Hassan Diab a febbraio, appena qualche giorno prima di decretare lo stato di mobilitazione sanitaria permanente per gestire l’emergenza legata al diffondersi del Coronavirus.

Il valore della valuta nazionale (la lira libanese), da sempre agganciata al dollaro secondo un tasso di cambio ufficiale fisso, è precipitato in queste settimane raggiungendo dei picchi mai registrati prima e perdendo oltre il 40% del suo valore in pochissimo tempo (l’80% se si calcola, invece, il periodo che va dall’inizio delle proteste di ottobre ad adesso). Si stima che la situazione economico-finanziaria del paese non sia stata così grave neanche durante gli anni della guerra civile (1975-1990). Per la prima volta in otto anni, il governo ha decretato un aumento del prezzo del pane (per l’esattezza, di una pagnotta da 900 grammi) da 1.500 a 2.000 LPB (ricordiamo che il Libano importa gran parte dei beni di prima necessità, farina inclusa, e le transazioni si svolgono esclusivamente in dollari), costringendo la popolazione a pagare ancora una volta per gli effetti di una crisi che ha radici lontane ma tutt’ora strettamente connesse all’attuale classe politica dirigente. Secondo un noto sito di informazione britannico, se la situazione dovesse continuare a precipitare in questo modo, entro la fine dell’anno all’incirca il 75% della popolazione potrebbe finire sotto la soglia di povertà, costringendosi ad un regime di razionamento alimentare per sopravvivere. Inoltre, negli ultimi giorni, l’Électricité du Liban (società elettrica libanese) ha ulteriormente ridotto la fornitura di energia elettrica a causa della mancanza di liquidità per pagare i combustibili per far funzionare i generatori: dalla fine della guerra civile, il paese non riesce ad erogare elettricità 24 ore al giorno 7/7 che viene quindi razionata tra le diverse aree con tagli di corrente che variano – in condizioni normali – dalle tre alle dodici ore.

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A questa situazione fa da sfondo il Caesar Act, pacchetto di sanzioni USA entrato in vigore a metà giugno che mira a colpire Bashar el-Assad e i suoi alleati nella regione (specialmente Russia e Iran) e che rischia di rallentare ulteriormente un lento processo di recupero dell’economia siriana e creare ulteriori destabilizzazioni nel vicino Libano. Non a caso, infatti, in occasione della quarta conferenza di Bruxelles tenutasi qualche giorno fa, il premier Hassan Diab ha fatto appello alla comunità internazionale per proteggere il paese dei cedri da eventuali ripercussioni derivanti da tali sanzioni e aiutarlo nell’affrontare il perdurare di diverse crisi, non ultima quella legata alla presenza di circa un milione di rifugiati siriani la cui condizione legale e sociale non è cambiata in questi anni.

Alle proteste antigovernative che si stanno susseguendo con cadenza quotidiana in numerose zone del paese si sono aggiunte, inoltre, quelle delle migliaia di lavoratrici domestiche che sono state (e vengono tutt’ora) accompagnate di fronte alle proprie ambasciate di riferimento dalle famiglie libanesi per le quali svolgevano i lavori domestici e ivi abbandonate, spesso senza passaporto (è prassi comune, per le agenzie di reclutamento o per le stesse famiglie libanesi, requisire i documenti delle lavoratrici domestiche e reiterare, in questo modo, un rapporto subalterno di dipendenza e controllo). Questo perché, con il deprezzamento della valuta locale e con l’assenza di dollari con i quali pagare i salari alle donne lavoratrici migranti, molte famiglie libanesi che possedevano una domestica nella propria abitazione hanno semplicemente deciso di interrompere tale rapporto lavorativo – che non prevedeva alcuna garanzia o tutela – attraverso un licenziamento immediato. Molti libanesi non si sono fatti scrupoli nel lasciare per strada, da un momento all’altro, quelle donne che fino ad un attimo prima consideravano indispensabili per lo svolgimento di qualsiasi faccenda domestica e di cura e il cui lavoro veniva tendenzialmente invisibilizzato e stigmatizzato nella società tutta ma sfoggiato nel momento in cui si voleva vantare un certo status sociale con il mondo esterno.

In Libano le lavoratrici domestiche sono circa 250.000, la maggior parte delle quali provenienti da Etiopia, Filippine, Sri Lanka e Bangladesh, e la loro permanenza nel paese è regolata tramite il sistema della kafala che permette l’ingresso a migranti economici solo in presenza di uno sponsorship di nazionalità libanese che se ne faccia carico sotto tutti gli aspetti. Tale sistema crea delle zone grigie in cui prolificano sfruttamento e violenze incontrollate, dal momento che la sfera privata all’interno del quale si concentra il lavoro domestico e di cura non è considerata – come spesso accade – al pari di quella pubblica, e non viene quindi regolamentata dalle leggi sul lavoro ma tendenzialmente ignorata dalla classe politica e dalle sue riforme.  

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Dall’inizio della crisi economica e sanitaria, alcune associazioni e gruppi solidali si sono organizzati per portare cibo e prodotti igienico-sanitari ai migranti economici che sono rimasti senza lavoro e senza casa, a volte con minori a carico. Qualche settimana fa, centinaia di donne etiopi si sono accampate di fronte al proprio consolato per chiedere una soluzione immediata alla loro condizione: intrappolate nel paese senza possibilità di uscire a causa della chiusura dell’aeroporto e impossibilitate a pagare dei voli di rimpatrio per i prezzi inaccessibili raggiunti, si sono scontrate ancora una volta con la doppia inadempienza del governo libanese e dei funzionari della propria ambasciata. Alcune organizzazioni si sono adoperate per trovare una soluzione temporanea, ma è sempre più chiaro di come non si tratti di casi isolati ma di una prassi consolidata che, se persistente, porterà centinaia di donne a vivere per strada o, nel peggiore dei casi, a essere recluse nelle carceri per l’assenza di documenti legali.

La discesa nel baratro del modello economico libanese si sta portando dietro, dunque, quelle categorie di persone che già prima erano costrette in rapporti di subalternità e le cui vite erano quotidianamente marcate da comportamenti razzisti e violenti. Oltre ai migranti economici, anche molti rifugiati siriani hanno perso il lavoro negli scorsi mesi: centinaia di migliaia di persone, ospiti in campi informali (ma non solo), stanno assistendo ad un inasprimento delle proprie condizioni di vita già un tempo precarie e agli effetti concreti di una crisi che spesso porta ad esacerbare delle situazioni caratterizzate da equilibri fragili di convivenza tra comunità. Inoltre, non di rado continuano a registrarsi deportazioni arbitrarie di rifugiati in Siria da parte della General Security libanese con il benestare dei leader politici, che spesso giustificano le proprie azioni attraverso la retorica della fine del conflitto siriano, tutt’altro che giunto a termine.

Intanto, tra le mura dei palazzi governativi continuano le consultazioni tra il governo e il Fondo Monetario Internazionale, il quale chiede maggiore unità attorno alle riforme necessarie per stabilizzare l’economia. I ritardi dell’intervento dell’organizzazione internazionale, dovuti inizialmente alla ferma posizione contraria del partito sciita Hezbollah, sono adesso ulteriormente ostacolati e congelati da dispute tra il governo e la Banca centrale, alla quale vengono chieste risposte concrete sulle perdite di introiti che il sistema bancario ha subito negli scorsi mesi.

Le soluzioni per arginare la crisi nel breve termine proposte dalla classe politica dirigente suonano ridicole alle orecchie dei più: c’è chi chiede alla diaspora libanese all’estero di rientrare nel paese per le vacanze portando il massimo di dollari consentito da far circolare nel mercato locale, c’è chi invece chiede loro di adottare una famiglia libanese locale per “salvarla” dal baratro del collasso economico. Non ultimo, c’è chi fa appello alla popolazione locale di abbandonare la vita lussuosa condotta fino a questo momento e ritornare ai tempi vissuti dalla generazione dei propri nonni (gli anni della guerra civile, per intendersi). Intanto, nella giornata di venerdì 3 Luglio, due persone si sono suicidate a Beirut e Sidone: un gesto disperato che mostra come sempre più persone non siano in grado di vivere in determinate circostanze e senza alcun ammortizzatore sociale. Come al solito, agli errori e alle presunzioni di un’intera classe politica che ha smembrato e privatizzato un paese intero sembrano dover rimediare, ancora una volta, quei segmenti di popolazione che – dai tanto declamati anni d’oro libanesi – non hanno guadagnato altro se non umiliazioni e sfruttamento.

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