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Lo schiaffo tedesco ci sveglierà dal sogno europeo?

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La sentenza della Corte costituzionale tedesca che pone precisi limiti alla Banca Centrale Europea è passata quasi inosservata nel dibattito politico italiano. Eppure un’attenta analisi di questa sentenza ci permette di guardare con maggiore realismo alla vera natura del processo d’integrazione europea

Riceviamo e pubblichiamo questo contributo di Giovanni Castellano.

Nel panorama politico italiano in pochi hanno compreso l’importanza della sentenza della Corte Costituzionale tedesca di martedì scorso e i giornali che hanno affrontato la questione non hanno colto alcuni passaggi sui quali sarà giusto soffermarsi un attimo per dissipare alcuni dubbi sulle prospettive dell’Unione Europea.

L’organo di garanzia costituzionale era tenuto a pronunciarsi sulla legittimità del programma di Quantitative Easing avviato dalla Banca Centrale Europea a partire dal 2015.

In quell’anno, infatti, l’Europa si trovò costretta ad affrontare una grave crisi dovuta alla crescita esponenziale degli interessi (il famoso spread) pagati da alcuni Stati (tra i quali l’Italia) per finanziare il proprio debito. Mario Draghi, alla guida della BCE, impegnò la banca centrale in una vasta operazione di acquisto di titoli pubblici, al fine di appiattire i tassi d’interesse e rendere sopportabile il peso del debito pubblico di alcuni Paesi europei.

Questo tentativo si è dovuto scontrare con alcuni limiti posti dai trattati europei e dallo statuto della BCE.

In particolare la Banca Centrale Europea, a differenza di altre banche centrali, non ha la possibilità di acquistare i titoli del debito pubblico sul mercato primario, ovvero nelle mani del Tesoro, ma può operare esclusivamente sul mercato secondario, acquistando tali titoli da soggetti privati che li avevano comperati a loro volta dal governo. Questo limite, che deriva da una particolare concezione della politica monetaria che guarda con terrore a qualsiasi possibile aiuto ai governi nazionali, ha reso meno efficace il programma di acquisti, finendo per agevolare invece la finanza privata.

Un altro limite evidente dell’operazione riguarda il cosiddetto “capital key”. Dietro questa espressione inglese si nasconde un meccanismo decisivo per comprendere la politica monetaria europea. Di fronte ad una situazione di difficoltà di alcuni Stati pesantemente indebitati chiunque si aspetterebbe che la banca centrale intervenga acquistando proprio i titoli di tali Stati.

Purtroppo non è andata proprio così: sulla base degli assurdi meccanismi comunitari la BCE è costretta ad acquistare i titoli del debito pubblico di tutti gli Stati della zona euro in maniera proporzionale alla quota del capitale della stessa banca detenuto da ogni Stato.

Dal momento che le quote di capitale dipendono dall’importanza della propria economia, la BCE ha acquistato più titoli tedeschi che italiani, più titoli olandesi che greci. In conseguenza di questo assurdo meccanismo il rendimento delle obbligazioni pubbliche tedesche è diventato addirittura negativo; per questo motivo la Germania ha la possibilità di chiedere soldi in prestito senza spendere un euro di interesse, anzi può anche godere di un piccolo rendimento.

In seguito alla pandemia di covid-19 la BCE ha avviato un nuovo programma di acquisto di titoli pubblici, il “Pandemic Emergency Purchase Programme” (PEPP), accantonando momentaneamente il principio della “capital key”.

Proprio in merito a questa questione è importante leggere la sentenza della Corte Costituzionale tedesca, la quale ha espressamente sancito che non è possibile prescindere da questo principio da parte della BCE. Anche se la sentenza non riguarda il nuovo piano d’acquisti è evidente che questa decisione pone un grave problema per la politica monetaria europea e nello stesso tempo frena gli entusiasmi di chi immaginava ulteriori passi in avanti nel processo d’integrazione continentale.

Al di là di questo aspetto tecnico, che non è possibile trascurare per le importanti conseguenze economiche che ne derivano, è importante analizzare alcuni passaggi della sentenza per comprendere i destini del processo d’integrazione europea.

La Corte Costituzionale tedesca ha infatti ribadito che l’azione della BCE non si è conformata al principio della “proporzionalità”; secondo tale principio l’azione delle istituzioni comunitarie devono essere proporzionali agli obiettivi fissati nei Trattati.

Al fine di valutare se il governo ed il parlamento tedesco “abbiano effettivamente violato le loro responsabilità in materia di integrazione europea” non chiedendo la cessazione del QE, la Banca di Francoforte deve fornire tempestivi chiarimenti alla Germania; nel caso in cui tali chiarimenti non saranno esaustivi la Bundesbank dovrà, entro tre mesi, ritirarsi dal finanziamento di tali politiche. Dal momento che la Germania è il principale azionista della BCE tale decisione avrebbe delle conseguenze disastrose.

Nel giudicare l’assenza del principio di “proporzionalità” la Corte costituzionale tedesca è andata oltre quanto stabilito da una precedente sentenza della Corte di Giustizia dell’Unione Europea che si era espressa sullo stesso argomento.

In altre parole la Corte ha ribadito che i padroni assoluti dei Trattati sono gli Stati che li hanno sottoscritti e gli organismi comunitari non possono, con un’interpretazione eccessivamente estensiva, andare oltre il testo degli stessi.

Questo è un concetto tanto ovvio quanto poco considerato nel dibattito politico italiano. Molti vedono nell’Unione Europea un contenitore vuoto che è possibile riempire a proprio piacimento. In tanti pensano di poter trasformare l’Unione Europea in senso progressista, come se fosse possibile prescindere dal contenuto dei trattati istitutivi, imperniati su una concezione ferocemente neo-liberista che vede nella libera circolazione dei capitali e nella costruzione del mercato unico le architravi del disegno europeo.

I trattati europei sono ben più rigidi della nostra Costituzione: non è possibile modificarli con una maggioranza qualificata, né tantomeno è possibile fare appello al voto popolare. Se gli Stati membri sono i padroni dei trattati non è possibile prescindere dal consenso unanime dei ventisette governi nazionali; immaginare di riuscire a coinvolgere tutti i governi europei in un progetto basato sui principi della solidarietà e della giustizia sociale è poco più di un’utopia.

L’immagine di Europa che ci restituisce questa sentenza costringe molti sognatori a guardare in faccia la realtà; in tanti, infatti, non hanno mai smesso di credere che l’Unione Europea possa assomigliare in qualche modo ad uno Stato federale.

Uno Stato federale dovrebbe però concedere le risorse agli Stati tramite trasferimenti, così come lo Stato italiano fa con le Regioni o gli USA con i singoli Stati, mentre tutte le politiche messe in campo dall’Unione Europea in questa tremenda crisi si basano in ogni caso su finanziamenti, ovvero su prestiti di capitale da restituire con gli interessi. L’unico vantaggio di tali aiuti consiste nella possibilità di finanziarsi con un tasso d’interesse più conveniente; davvero poco per chi pensa alla possibilità di veder nascere prima o poi gli Stati Uniti d’Europa.

Creare un mercato unico delle merci, dei capitali e dei lavoratori non ha portato affatto ad una convergenza tra le economie. L’abbattimento delle frontiere e l’adozione della moneta unica ha finito, invece, per agevolare le economie più forti, a partire dalla Germania. Questo Paese è riuscito a imporsi come esportatore nei confronti del resto del continente grazie ad una continua deflazione salariale; di fronte a un aumento crescente della produttività i salari tedeschi non sono cresciuti nella stessa misura negli ultimi anni. Non è un caso se mentre i principali analisti italiani si concentrano sul debito pubblico, gli economisti più attenti hanno invece individuato la principale causa dei problemi europei negli squilibri della bilancia commerciale tra Paesi esportatori e Paesi importatori.

L’integrazione economica non ha permesso una solidarietà tra i popoli; ha spinto invece i governi ad una competizione volta ad attrarre i capitali, promettendo il contenimento dei salari, la riduzione delle imposte sulle imprese, la precarizzazione del mercato del lavoro e tutto quanto possa creare un clima favorevole agli investimenti.

Se fino a poco tempo fa il processo d’integrazione europea sembrava un processo inarrestabile ora l’entusiasmo dei più ottimisti si scontra dinnanzi alla realtà dei fatti; costrette ad affrontare una crisi economica senza precedenti le istituzioni europee stanno mostrando tutti i propri limiti. La Banca Centrale Europea, con i suoi programmi d’acquisto, sembrava l’unico organismo capace di tenere in piedi una costruzione allo sfascio, ma con l’addio di Mario Draghi l’istituzione ha perso parte della propria spinta propulsiva.

L’equilibrio europeo è davvero precario e potrebbe saltare da un momento all’altro. Un’eventuale rottura dei trattati non sarebbe un evento indolore e bisogna chiarire che, come sostiene giustamente un economista preparato come Emiliano Brancaccio, ci sono diversi modi per uscire da un’unione economica e monetaria.

Il Regno Unito, ad esempio, ha optato per un’uscita “da destra”, senza mettere in discussione le politiche neo-liberiste; è possibile però pensare a un’uscita “da sinistra”, restituendo centralità al mondo del lavoro, puntando su un forte intervento pubblico nell’economia e considerando forme di controllo dei movimenti dei capitali per tenere a freno la speculazione.

Nell’analizzare la sentenza della Corte costituzionale tedesca non bisogna dimenticare che questa pronuncia nasce in seguito ad un ricorso avanzato da personaggi vicini agli ambienti della destra euro-scettica, ma questa considerazione non cancella un importante dato di fatto che viene spesso sottovalutato dai politici italiani: l’operato degli organismi comunitari non può svolgersi in contrasto con i principi costituzionali dei singoli Paesi.

Se la classe dirigente italiana tende a minimizzare le proprie responsabilità politiche, nascondendosi dietro la necessità di adeguarsi alle politiche comunitarie bisognerebbe, invece, interrogarsi in maniera prioritaria sull’effettiva coincidenza tra tali politiche e i principi fondamentali affermati nella nostra carta costituzionale, la quale antepone, ad esempio, le esigenze della società alla libertà d’impresa.

Lo scenario è davvero complesso e il provincialismo nel quale è immerso il dibattito pubblico italiano ha impedito una seria riflessione su una pronuncia così importante; una sentenza che ha chiarito dei principi molto semplici, aiutandoci a guardare con maggiore realismo alla vera natura della costruzione europea.

 

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