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Nakba e Eurovision: dalle università parte il boicotaggio in solidarietà coi palestinesi

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Quest’anno il contest musicale Eurovision, dopo la vittoria della cantante Netta Barzilai dello scorso anno si svolgerà in Israele. Avete capito bene per chi, fortunatamente, si fosse perso le puntate precedenti del festival di musica europeo in salsa pop, Israele partecipa e ospiterà un contest musicale europeo.

Questo primo punto ci permette subito di entrare nella profonda contraddizione dello stato ebraico: Israele ama darsi l’appellativo di unica democrazia in medio oriente ma sotto questo velo di mistificazione si nasconde uno stato coloniale occidentale. La partecipazione a manifestazioni sportive e musicali europee è infatti la migliore cartina tornasole per capire in quale dimensione culturale e politica una nazione si autorappresenti. La partecipazione consolidata da parte di Israele alle varie manifestazioni sportive e culturali europee, dagli europei di calcio e basket sino alla partecipazione a contest musicali mainstream, indica chiaramente le radici di uno stato che sempre più accademici non esitano a definire stato coloniale.

La dichiarazione di Balfour (https://www.infoaut.org/conflitti-globali/medio-oriente-centanni-di-sykes-picot) è il primo segnale inequivocabile che gli stati europei avrebbero salutato positivamente la creazione di uno stato ebraico in medio oriente. Uno dei motivi principali era delocalizzare la questione ebraica, una soluzione di espulsione delle differenze dall’Europa che si avviava verso un periodo di intolleranze e fascismi. Quest’espulsione delle differenze si concretizzò in momenti più espliciti come nel caso della Germania nazista e dell’Italia fascista o meno evidenti, come appunto la dichiarazione di Balfour nell’impero coloniale Inglese e di altri accadimenti nelle nazioni europee. Così in effetti dal lontano 1917, anno della dichiarazione, le ondate di coloni di religione ebraica ma pur sempre bianchi ed europei, si sono spostati dal vecchio continente verso la Palestina. Queste ondate di coloni, chiamate aliyah, sono aumentate sotto la pressione del crescente antisemitismo in Europa e sulla spinta della possibilità di costruire una nuova patria in un territorio narrato come terra vuota. L’idea di terra vuota, terra di nessuno, corrisponde non a caso a quello di terra nullius, il presupposto giuridico per l’appropriazione di un territorio che non è mai stato sottoposto alla sovranità di alcuno Stato, oppure sul quale qualsiasi precedente Stato sovrano abbia espressamente o implicitamente rinunciato alla sovranità. Terra nullius è stato il dispositivo giuridico utilizzato sistematicamente dalle nazioni europee per colonizzare mezzo mondo ed in questo la creazione dello stato di Israele non fa eccezione. Dal 1917 ad oggi sono passati poco più di cento anni e i pochi coloni europei presenti allora hanno costruito la nazione ebraica sulle rovine dei villaggi palestinesi distrutti a partire dal nefasto 15 maggio 1948. Mercoledi scorso, infatti, ricorrevano i 71 anni della Nakba (https://www.infoaut.org/storia-di-classe/15-maggio-1948-la-nakba) tradotto letteralmente dall’arabo: la catastrofe. Quel 15 maggio di 71 anni fa il popolo palestinese si è trasformato in una nazione di rifugiati, in cui almeno 750.000 persone sono state espulse dalle loro case e costrette a vivere nei campi profughi. Più di 15.000 palestinesi sono stati uccisi, più di 530 villaggi palestinesi sono stati distrutti completamente.

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È importante, oggi più che mai, non rimanere attaccati alla memoria di quel giorno, basta infatti alzare la testa per vedere quello che ancora oggi succede al di là del mediterraneo su quella terra che oggi vorrebbero chiamare Israele.

Sappiamo che il colonialismo non è un evento che si conclude ma un processo che struttura rapporti di potere e dominio economico-sociale, è tempo di rendersi conto che anche il genocidio, iniziato 71 anni fa non è un singolo evento ma una struttura. Un processo che attraverso vari mezzi cerca di rimuovere una parte della popolazione che abita un territorio. Oggi i coloni sionisti, che oggi si fanno chiamare Israeliani, radono al suolo interi villaggi(https://www.infoaut.org/conflitti-globali/demolire-le-case-vuol-dire-demolire-la-pace), tentano di deportare la popolazione palestinese che, nonostante lo squilibrio delle forze in campo, oppone una strenua resistenza e non si dà per vinta. Israele è costruito sul sangue dei palestinesi uccisi dal ’48 ad oggi e che continuano ad essere uccisi dalle bombe e dai cecchini israeliani. Solo dall’inizio della grande marcia del ritorno(https://www.infoaut.org/conflitti-globali/quarto-venerdi-della-collera-della-grande-marcia-del-ritorno-palestinese-un-morto-e-diversi-feriti) un ciclo di manifestazioni iniziato a Gaza il 30 marzo 2018 per rivendicare il diritto a tornare nella propria terra, i cecchini israeliani hanno ucciso 271 palestinesi e ne hanno feriti 16.656. Tra questi sono stati colpiti donne, bambini, giornalisti, personale medico e persone affette da disabilità, quando non vengono uccisi vengono volontariamente resi invalidi: una strategia macabra per tentare, invano, di fiaccare la resistenza del popolo palestinese. Se non bastasse gli ultimi mesi gli aerei da guerra Israeliani hanno più volte bombardato Gaza seminando morte e distruzione. In tutto questo prosegue un altro tipo di genocidio lento e silenzioso fatto di: assimilazione culturale; di assassinii ed arresti politici; costruzione di colonie di insediamento e regime di apartheid.

In questo quadro si svolge l’Eurovision a Tel-aviv, che ci teniamo a ricordare sorge sulle rovine di al-Mas’udiyya, uno dei primi villaggi da cui la popolazione palestinese fu deportata, nel lontano dicembre 1947. Di questo villaggio oggi rimane solo una piccola moschea in mezzo ai lussuosi grattaceli per ricchi occidentali. Quest’anno dunque la funzione dell’Eurovision sarà il fiore all’occhiello della strategia di Branding Israel: mostrare il volto migliore dello stato di Israele per coprire i crimini di guerra perpetrati sui corpi e sulle vite dei palestinesi, oggi come ieri.

In mezzo a questo ci sono le studentesse e gli studenti degli atenei italiani costretti a vivere negli spazi complici del genocidio palestinese. Le università italiane infatti portano avanti una miriade di collaborazioni con le università israeliane, programmi che vanno dall’accordo con il Technion di Haifa sino agli Erasmus+ passando per CASTLE-CLEAN SKY 2: il più grande programma di ricerca aeronautica finanziato dall’UE. Queste stesse università israeliane si occupano in vario modo di costruire tecnologia militare per il controllo e lo sterminio dei civili palestinesi. Ma si occupano anche di oppressione in maniera più sottile appropriandosi della cultura palestinese rivendicandola per sé.

Mercoledì è arrivato un grido convinto dalle studentesse e dagli studenti di Torino e Bologna nessuna collaborazione con Israele è possibile sotto regime di apartheid e con un genocidio in corso. Tante studentesse e studenti lo hanno urlato convintamente a Bologna (https://www.facebook.com/events/856500761380395/) in via Zamboni davanti al rettorato e a Torino al Campus Einaudi (https://www.facebook.com/events/690879287996727/). A Torino un corteo di studenti ha deciso di sanzionare il campus che ancora lascia spazio alla propaganda sionista. Le vetrate del campus sono state riempite con i nomi degli oltre 530 villaggi palestinesi distrutti dalla Nakba sono stati calati alcuni striscioni che recitavano “Dal 15 maggio 1948 ad oggi la Nakba è un genocidio che continua”. Nel capoluogo piemontese tante studentesse e studenti hanno portato la loro voce anche fuori dagli spazi universitari con un corteo che ha attraversato il quartiere di Vanchiglia passando sotto la mole per poi arrivare a palazzo nuovo dove hanno rilanciato verso il 17 maggio giorno in cui si occuperà l’università per organizzare un Contro-Eurovion festival (https://www.facebook.com/events/2351527205104136/) che riempirà gli spazi dell’università della cultura, della lotta, della musica palestinese per una socialità contro l’apartheid sionista.

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