Narrazioni di guerra, necessità di mobilitazione.
Verso il 21 ottobre, data scelta come prima tappa di un processo che vede impegnate molte realtà nazionali, è importante dare spazio a differenti aspetti che riguardano ciò che viene definita “escalation bellica”. Gli avvenimenti di questi giorni, come ciò che sta accadendo in Palestina, compongono un contesto complesso. Lo sforzo di chi si pone l’obiettivo di trasformare l’esistente deve necessariamente misurarsi con una lettura che sia all’altezza della situazione.
Un primo livello che molto spesso viene toccato quando si parla di guerra, in particolare la guerra in Ucraina, è la questione delle conseguenze materiali che questo evento porta con sé. Conseguenze tangibili innanzitutto per la popolazione coinvolta ma che si allargano a macchia d’olio in un mondo interconnesso come il nostro. Guardando al nostro territorio la crisi sociale ed economica di questi ultimi tempi sta raggiungendo picchi non indifferenti, ed è sentire comune individuare la causa nella guerra alle porte dell’Europa. Lo è per chi deve pagare le bollette, lo è per chi si vede negati i diritti fondamentali nei contesti lavorativi, lo è per chi paga sempre e comunque spese di altri.
Nell’ultima parte del podcast viene riportata la voce di un manifestante nigerino in occasione di un’iniziativa nella città di Torino in solidarietà al Niger. Come viene sottolineato, quando si parla di guerra in Ucraina e del riassetto generale degli
equilibri mondiali, è strettamente necessario andare oltre un posizionamento che parta dal criterio aggressore/aggredito, oggi più che mai occorre uno sguardo complesso sulla fase che si sta attraversando. Per questo occorre allargare l’orizzonte anche al quadro degli stati africani che sta cambiando, superando una lettura del mondo che lo divide superficialmente in due blocchi. I golpe in Africa, la rinata ostilità nei confronti della colonizzazione di stampo francese sono tutti elementi utili al ragionamento.
In questo senso è interessante aggiungere un passaggio di un’analisi di Domenico Quirico, redattore della pagina degli Esteri de La Stampa, in merito ai golpe in Africa di quest’estate e che riportiamo di seguito:
“Invece di consumare i lumi cerebrali in bilanci vien voglia di dire: ma i francesi non potevano far tutto prima, risparmiando tanti milioni e brutte figure? Evitando di lasciar come colpevole eredità, anche a noi, la Wagner putiniana e africana, i golpisti e il jihadismo che amministra e tortura territori interi? E la disperazione della miseria per milioni di africani affidati a ciurmatori e bricconi? Muore dunque meschinamente la «Francafrique». Non meritava di meglio. Finalmente! Ed è una buona notizia per i saheliani che l’hanno tenuta sul gobbo per ulteriori decenni, ma anche per la Francia. Che questo museo storico e umano fatto di arroganze prostituzioni e prepotenze ha infettato la politica francese, spezzato il rapporto con milioni di cittadini delle banlieues come una crepa insuturabile. Una cosa è certa: nel Sahel i francesi sono detestati da gran parte della società civile, la loro presenza collegata a una «lotta al terrorismo» che serve a puntellare le vecchie colpe, è necessaria solo a una borghesia di scrocconi di tutti gli affari tenebrosi, di losche figure specializzate nelle speculazioni con gli aiuti per lo sviluppo, di politicanti che parlano di democrazia solo per svaligiarla.” (dall’articolo Niger, perché il colpo di Stato getta il Sahel nel caos più profondo).
Oggi si dovrebbero aggiungere alcune considerazioni a proposito della Palestina, del processo di disumanizzazione della popolazione della Striscia di Gaza, di un contesto internazionale sull’orlo della crisi generalizzata, di una bomba a orologeria che, seppur Israele sembri stato colto di sorpresa, scoppia in un momento di peggioramento vertiginoso delle condizioni della popolazione gazawuita. Dal taglio dei fondi internazionali ai palestinesi, alla profonda crisi sociale con tassi di disoccupazione mai raggiunti in precedenza e i costanti blocchi all’accesso alle risorse primarie, come luce e acqua, all’escalation dei pogrom da parte dei coloni israeliani, si tratta di un evento senza eguali nella storia della guerra alla Palestina.
Ci sono alcuni fili conduttori da sollevare, primo fra tutti la narrazione che viene fatta delle guerre in corso oggi. L’informazione è uno strumento di guerra e di propaganda in un caos di notizie di cui non è possibile rintracciare la fonte o di cui è evidente la falsità ma la veridicità non è il criterio con cui si fa informazione. Oggi informazione è “cosa serve fare vedere”. Non a caso, come sottolinea Quirico al dibattito organizzato in università a Torino, guardando alla guerra in Ucraina ci si deve rendere conto che è finita la conta dei morti. Ritorna dunque la questione della disumanizzazione e della tendenza che spinge a costruire tifoserie più che pretendere di stoppare la guerra e il conseguente massacro.
In secondo luogo, sempre ripercorrendo l’intervento del giornalista, assistiamo oggi alla fine del pacifismo così come è esistito negli ultimi decenni. Ciò di cui c’è bisogno oggi è un “pacifismo rivoluzionario” capace di colpire laddove si aprono le contraddizioni. E’ chiaro che nessuno possa vincere la guerra in Ucraina quindi bisogna chiedersi quali siano gli spazi di possibilità per una fuoriuscita dal conflitto. Da un lato la reticenza alla leva (unica possibilità reale per la fine della guerra, oggi come nella prima guerra mondiale, è la diserzione) e, soprattutto, la mancanza di uomini, dall’altro la tensione a una gestione del conflitto ancora controllabile, fa sì che non esista vincitore possibile. In Europa la sottomissione delle dirigenze al volere degli Stati Uniti implica una schizofrenia di opinioni in merito all’invio o meno di armi in Ucraina, sostanziata dalle recenti elezioni in Slovacchia o dal raffreddamento della Polonia, che fanno eco alla strategia conservatrice dell’ala più estremista dei trumpisti impegnati a puntellare la presidenza in carica verso le elezioni dell’anno prossimo. Strategia che punta all’ideologia dell’America First e che potrebbe tornare utile anche al governo nostrano, come dimostra l’indecisione di Crosetto nelle sue dichiarazioni di qualche giorno fa.
Infine, un elemento che cambia il paradigma stesso è lo stravolgimento dei codici con cui, sino agli anni 90 e 2000, è stato possibile comprendere il mondo esterno. Parlare della guerra in Ucraina senza cedere alla retorica del pietismo cattolico implica venire d’ufficio inseriti nella sfera dei filoputiniani, ad esempio.
Lo spaesamento di questi anni, in cui la pandemia da covid ha inaugurato la perdita di riferimenti e ha incancrenito la tendenza al posizionamento monolitico (l’essere pro o contro il green pass, essere pro o contro ucraini) come modalità di interazione con i fenomeni che sconvolgono il mondo a cui assistiamo con velocità repentina, non può essere lasciata al caso. E’ urgente ricostruire delle coordinate comuni in cui sia ben chiaro chi sono i nemici della parte che si vuole rappresentare e con la quale ci si vuole sintonizzare, in quanto coloro senza i quali non sarebbe possibile riprodurre la catena del valore nell’epoca capitalista. Nella perdita di fascino dell’immaginario americanizzato che ha plasmato il mondo, in maniera trasversale ai proletari di tutto il globo, nella perdita di credito del dominio mondiale statunitense di fronte a competitor spietati (nei termini di sfruttamento del lavoro vivo interno, come la Cina, l’India, il Brasile), nella crisi interna che vorrebbe essere risolta riflettendola sull’esterno (causando guerre come in Ucraina o smobilitando in fretta e furia dall’Afghanistan), l’occasione è cruciale. Il rischio è quello di essere già in ritardo in una competizione ad armi impari con tutte quelle esperienze radicalmente violente che si pongono l’obiettivo di sostituire un comando globale che, dal Sahel al Medio Oriente sino alle periferie europee, lavorano da anni, molto meglio e con capacità di radicamento molto più profonda negli strati proletari, di chiunque altro si ponga l’obiettivo di ribaltare i rapporti di forza.
In merito a questi spunti riportiamo in seguito uno stralcio dell’intervento di Domenico Quirico che pone alcuni punti centrali.
Dobbiamo chiederci, questa è una guerra rivoluzionaria o reazionaria? Questa, senza dover scomodare Trotsky, è una guerra reazionaria, da entrambe le parti. È reazionaria la guerra di Putin che vuole riaffermare un’idea di potenza globale di qualcosa che lui ha ricostruito in modo sommario e raffazzonato, perché poi quando questa potenza si è dispiegata sul terreno è apparsa assai meno potente di quanto lo stesso Putin immaginasse, non tanto la sua potenza distruttiva quanto la sua potenza operativa, è risultata meno forte. È reazionaria la guerra dall’altra parte, che ha giocato su una racconto della guerra del bene contro il male, fin dall’inizio, questa guerra è stata individuata da un punto di vista politico strategico come la guerra di un blocco economico, politico, militare, che è quello dell’occidente, le 40 democrazie dell’occidente neanche fosse la guerra del Peloponneso.. che a ben guardare la guerra tra Sparta e Atene ci sarebbe parecchio da discutere, chi erano gli uni, chi erano i democratici e chi no e comunque l’hanno vinta i presunti reazionari e non la democrazia.
Questa è una guerra di assoluti in cui non c’era spazio per le sfumature, per dire “però forse la tregua vediamo”, almeno vedere se l’altra parte ha delle idee che in qualche misura potrebbero portare a evitare che alcune decine di migliaia di esseri umani finissero morti trucidati, ma no perché tra il bene e il male non c’è scampo, noi siamo il bene loro sono il male, e allora il demonio come si combatte? con l’esorcismo. E l’esorcismo sono le bombe, opporre al male un bene più grande. Questo determina che il concetto della guerra ha qualche cosa di metafisico, in cui l’essere umano non conta più. Se c’è una cosa che molto mi turba, io ho attraversato più o meno tutte le guerre dagli anni 80 del secolo scorso ad oggi con alcune eccezioni come in Rojava perché non mi ci hanno mandato, a un certo punto non si contano più i morti. Si contano le munizioni, i cannoni, i carri armati, i missili, quanti soldi abbiamo ancora in sacoccia per finanziare un po’ uno un po’ l’altro, ma i morti non si contano più. E infatti, di questa guerra di cui apparentemente sappiamo tutto, non sappiamo quanti sono i morti, dico tra i militari non tra i civili, i civili li contano uno a uno perché bisogna attribuire i crimini ecc. Si dice 150 mila da una parte poi 100 mila dall’altra, qualcuno dice anche molto di più facendo delle ricerche basate per esempio dalla parte russa sulle successioni, conta quante successioni ci sono, allora a quel punto lì abbiamo superato una linea molto pericolosa. Quando non si contano più i morti e gli esseri umani sono qualcosa di trascurabile noi entriamo nel meccanismo della prima guerra mondiale. Dal 1914 al 1918 la guerra ricorda molto la guerra tra Ucraina e Russia, artiglieria, trincea ecc, il mondo non ha più contato i morti. Gli assedi umani, le offensive, le avanzate diLudendorf o altre, erano dei numeri che servivano a coprire un certo spazio di terreno. Prima ondata 100 mila morti, seconda ondata 20 mila, poi 10 mila e poi contavano quanti proeittili d’artiglieria avevano in serbo per bombardare e saturare il terreno di esplosivo per evitare che non restasse più niente di vivo. Siamo nella stessa situazione in Ucraina, ora si parla di tutto meno che delle vittime. Questo è preoccupante perché, quando la guerra si impadronisce del controllo della guerra stessa, non è piu Biden Putin Zelensky che stabiliscono come la guerra va avanti ma è la guerra stessa che ci mena dove vuole andare, è un meccanismo che si autoproduce all’infinito, sfino a quando non finiranno gli esseri umani. E queto per esempio è il problema degli ucraini, non hanno problema di munizioni ,di carri armati, quelli glieli diamo noi “fino a quando sarà necessario” citando una sciagurata frase dell’ex presidente del consiglio considerato uno dei simboli del mondo occidentale, non so bene perché dato che è un bancario, categoria estremamente lodevole ma che fa altro. Fino a quando sarà necessario. Gli ucraini a un certo punto non avranno piu uomini perche i carri armati, il cannone hanno bisogno di addetti per azionarli e ancora non ci sono robot, a quel punto lì la guerra reazionaria di Zelensky, che è un oligarca molto più simile a Putin che alle democrazie dell’occidente, bisogna anche dirselo, se abbiamo seguito la guerra dal 14 in avanti nel Donbass ecc, l’Ucraina assomiglia molto di più, assomigliava, perche questo cataclima l’avrà cambiata.. non a caso i residenti erano 44 milioni ora ci sono 23 milioni di persone rimaste in Ucraina, non che sono morti ma che non sono più lì. Questo vorrà dir qualcosa. Il giorno in cui i soldati si ribelleranno a coloro che li hanno mandati al macello e marceranno su Kiev e su Mosca per imporre la pace, questo è l’unico scenario.
Il discorso sul pacifismo bisogna affrontarlo perchè tra i molti defunti “in sigla” di questa guerra (onu, ue, i neutrali) bisogna mettere anche il pacifismo occidentale che ha avuto un ruolo nella storia del novecento che oggi invece è totalmente marginale. Non è pacifismo la bandiera arcobaleno e la colomba di Picasso alla manifestazione contro il taglio dei salari, il pacifismo è imporre la pace. La crisi del pacifismo questa guerra l’ha svelata in modo brutale, la guerra semplifica le cose, smonta le chiacchiere, è un pacifismo di tipo autoreferenziale… io faccio la mia piccola marcia il sabato in città, con il cane, i bambini, la bandierina e son contento perchè ho detto no alla guerra per la pace giusta, quel pacifismo lì è defunto nel secolo scorso. Oggi ci vuole un pacifismo rivoluzionario. Che faccia guerra alla guerra, utilizzandone gli strumenti, non dico di andare a sparare in piazza per carità di dio, ma che usi degli strumenti aggressivi nei confronti della controparte. Allora fate i nomi e i cognomi con tanto di codice fiscale degli amministratori delegati delle società che vengono definite preziosità italiane che fanno i miliardi fornendo non soltanto gli strumenti tecnici, guardate che la guerra gonfia anche tutti quelli che forniscono cibo, scarponi, cappelli, occhiali, tutto quello che nella guerra c’è, carburante.. pubblicate i nomi di quelli, stanateli! Invece che andare applaudire ai talk show in cui sentenziano sull’economia della guerra di qua della guerra di là, sulla globalizzazione, noi siamo più ricchi, i più forti. Quello è il vero pacifismo . A Torino c’è un gruppo di straordinari, tenacissimi, che si riuniscono in piazza Carigano dal primo sabato di guerra, ma il numero è tra i 50 e i 90 e non sono mai cresciuti. Di quel pacifismo lì, i bellicisti che si nutrono, raccontano e si riempiono le saccocce della guerra, se ne ridono di quel pacifismo lì. Se ne ridono.
Racchiudere in una data di mobilitazione tutto questo e molto altro è una sfida che occorre cogliere in quanto l’urgenza dei tempi che corrono determina la necessità di agire. Non è possibile raccogliere e esaurire tutto questo in un momento di ricaduta, di espressione e rappresentazione di molte istanze che dal Sud al Nord Italia implicano una lotta quotidiana alla militarizzazione in ogni ambito dell’esistente. Iniziare un processo che possa portare all’esplosione, nei modi più disparati, di forti NO alla guerra, alle guerre, per imporre una pace che non sia autoreferenziale ma che incida sulla scala di priorità oggi.
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