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Obama al capolinea e il governo della Fed: linee di faglia negli States

di Raffaele Sciortino*

{jb_note}Uno degli spostamenti elettorali maggiori degli ultimi cinquant’anni e un referendum negativo sull’operato di Obama: è il doppio, secco risultato delle elezioni di midterm negli States. Il dato non è soltanto numerico e geografico – sono tornati ai repubblicani il Sud, il Midwest rurale, il West montano con in più buona parte della cintura della ruggine dei Grandi Laghi – quanto indicativo di un trend (il Senato è stato rinnovato solo di un terzo) e soprattutto degli umori profondi della popolazione statunitense. La composita coalizione elettorale che spinse Obama alla vittoria si è sfrangiata, la middle class lavoratrice bianca, gli anziani, i residenti dei suburbi e in parte le donne e gli indipendenti si sono riversati sul voto repubblicano. Gli under trenta, pur restando un bacino di voti democratico, hanno drasticamente ridotto la loro partecipazione elettorale così come le minoranze.{/jb_note}


“Yes we can, but…”

È la fine del change obamiano dopo soli due anni e per ragioni niente affatto nascoste. Discutibili, a dir poco, i commenti del tipo: non gli hanno dato tempo, è colpa della cattiva comunicazione, non hanno compreso i risultati. Tutti hanno capito, ovviamente da versanti diversi, che cosa il presidente ha fatto e non fatto nel quadro di quella Great Recession che sta sconvolgendo le vite e le certezze della gente con la disoccupazione più alta da decenni, la perdita dell’assistenza sanitaria, i pignoramenti delle case nonostante gli scandalosi comportamenti di banche e immobiliari, le prospettive di impoverimento (tre milioni di poveri in più nel solo primo anno della crisi). Obama è stato molto accondiscendente con i responsabili del disastro finanziario e assai timido nelle risposte alla crisi sociale e occupazionale. Preso nella tenaglia inesorabile tra il salvataggio di Wall Street e delle corporation da un lato e l’aver rinunciato, proprio per questo, all’unica leva a disposizione per far sì che l’establishment cedesse almeno qualcosa dall’altro – Obama è riuscito nel capolavoro politico di far diventare il disastro di Bush la “sua” crisi! In politica ogni interpretazione va agita: se non fai pagare i responsabili, ne divieni parte. Così pure sul piano istituzionale, ha sempre cercato l’accordo bipartisan nel Congresso e nei media e, una volta non trovatolo, ha ripiegato su soluzioni pasticciate scontentando tutti (v. la riforma sanitaria e quella della finanza).

Voto doppio

Il voto in realtà è stato doppio. Quello conservatore è direttamente contro il presidente e Washington. È un voto “contro” il sistema prima che pro partito repubblicano. Questo ha raccolto elettoralmente l’ondata di protesta conservatrice ma non l’ha costruita, ed è poi stato favorito dalla bassa affluenza elettorale (sul 40%) e dalla composizione, più bianca e più anziana, dei votanti. La vera novità è dunque la mobilitazione del Tea Party Movement che ha fatto da traino alla campagna elettorale, su temi economici più che valoriali. La mobilitazione è partita dalla protesta contro il bail out di Wall Street ma le sue radici affondano in trent’anni di controffensiva di destra. Oggi vediamo una rabbiosa reazione spontanea, poi subito finanziata dal grande business e supportata dai media, di ceti proprietari e microproprietari spaventati dalla crisi e aggressivamente convinti che non ci siano soluzioni buone per “tutti” (questo il senso dell’antistatalismo) e che ogni rivendicazione “sociale” vada cassata (ecco la “libertà”).

Ora, nelle alte sfere sicuramente ci si sta cullando nell’idea di poter rieditare, utilizzando i Tea Party come base sociale militante, una rinnovata versione del reaganismo. Ma è un’illusione perchè la fase è completamente diversa sotto tutti i punti di vista: non si vede all’orizzonte un nuovo ciclo di ripresa economica basato sull’appropriazione finanziaria della ricchezza mondiale e sui dividendi della spesa militare, né il nuovo movimento conservatore sembra oggi avere i numeri e l’appeal in una fase non più ascendente della finanziarizzazione per una ricomposizione egemonica, reazionaria ma effettiva, della società basata sul mero richiamo all’individualismo proprietario. Non a caso non è in grado, almeno al momento, di prospettare alcuna soluzione “generale” (ancorché di classe) alla crisi degli States o anche solo una ricetta efficace di tamponamento che non sia il ritornello sui tagli alle tasse (per i ricchi) e alla spesa statale. Non certamente una strategia adatta – posto che ancora ve ne sia qualcuna di efficace – per creare un ampio consenso all’interno in vista degli inevitabili “sacrifici” da fare.

Una conferma di questa difficoltà la dà anche il voto dei cosiddetti indipendenti, gli elettori senza affiliazione partitico-ideologica. È vero che si è rovesciato a favore dei repubblicani (55% contro il 40% ai democratici) ma dopo che nel 2008 era stato a favore di Obama (52% contro 44%) e nel 2006 aveva pesato ancor più nettamente contro Bush (57% contro 39%). È un consenso dunque costitutivamente instabile che cambia repentinamente a seconda della situazione, e connotato per l’attenzione ai temi economici più che a quelli ideologici già cari alla destra cristiana e neocons. Non solo esso allora non è una garanzia per i repubblicani ma è tutto da vedere se è disponibile ad allinearsi automaticamente alle posizioni dei Tea Party sui tagli alla spesa pubblica nella componente sociale, come rileva con preoccupazione lo stesso Wall Street Journal. Nessuna nuova fedeltà elettorale su questo versante, nessuna facile egemonia anti-tasse.

L’altro voto l’ha dato la non partecipazione alla tornata elettorale dei delusi da Obama. Innanzitutto giovani, neri, latinos, donne che si erano attivizzati nella campagna del 2008 o si erano lasciati prendere dalla speranza nel cambiamento. Il risveglio è stato amaro su tutti i fronti: sanità e regolazione finanziaria, rappresentanza sindacale, immigrazione e diritti civili, guerra e misure anticrisi, clima e green economy, ecc. Il movimento composito anti-Bush ne è uscito depotenziato e zittito. Si vedrà la ridislocazione, non scontata, di questi soggetti la cui composizione sociale e multietnica si è affacciata timidamente sulla scena politica senza far valere ancora tutto il proprio peso. Non paiono facilmente recuperabili a destra anche se per intanto la loro assenza da una scena politico-elettorale che li ha profondamente delusi avvantaggia la controparte pagando così lo scotto di quanto di “populistico”, cioè in ultima istanza di inefficace, c’era nel change obamiano. Molto dipenderà da come su questo versante si saprà distinguere tra la sconfitta democratica da un lato e il proprio disorientamento che potrebbe essere solo transitorio dall’altro. L’esigenza del cambiamento, quello effettivo, non potrà eclissarsi a tempo indefinito se è vero che la crisi sta appena approssimando gli sconvolgimenti maggiori, anzi probabilmente si ripresenterà in altra forma come terreno ineludibile dello scontro.


Fratture profonde

Dal voto emerge in maniera netta quella polarizzazione che sta scavando in profondità nel sistema politico e nella società statunitense. Quanto al primo, il Congresso vede schieramenti nettamente più contrapposti: non solo per la presenza nuova, pur se ancora sparuta, di leader dei Tea Party che staranno col fiato sul collo degli old conservatives repubblicani ma anche perché i democratici centristi ultramoderati, i blue dogs del Sud, sono quasi scomparsi fagocitati dall’ondata di destra. Inoltre, i rapporti tra la nuova maggioranza alla Camera e la presidenza saranno tutt’altro che improntati al compromesso da parte repubblicana nonostante il ramoscello d’ulivo che il presidente, dalle prime dichiarazioni post voto, sembra voler porgere. Lo stesso Obama risentirà inevitabilmente di un contraccolpo fortissimo – senza confronti con quanto successo nel ’94 con la sconfitta di midterm del new democrat Bill Clinton – a misura che la sua base elettorale è (o era) potenzialmente molto più ampia di quella del partito democratico avendo giocato lui stesso il ruolo di relativo outsider in una situazione di gravissima crisi economica, politica e morale. Le pressioni da parte del partito per una “svolta al centro” sono già molto forti, fin dentro l’ala più liberal (come l’influente sito della Huffington), nè Obama dà segno di contrapporvisi. Del resto si parla apertamente di candidare al suo posto Hillary Clinton per le prossime presidenziali.

Ma il solco più profondo e foriero di conseguenze è quello tra Washington, tutta, e la società. È la terza tornata elettorale di fila con rovesci clamorosi nei risultati. Si registra una volatilità negli umori elettorali e nei sentimenti politici senza precedenti. La società è scossa dalla percezione che un intero modello di economia e di vita (finanziarizzate) sentito come american, cioè eccezionale e superiore, è oramai in crisi probabilmente irreversibile mentre le ricette di rilancio economico risultano inefficaci. È ancora il WSJ a chiosare efficacemente: c’è un “rifiuto di fondo di entrambi i partiti politici” ritenuti non all’altezza della gravità della situazione. Un altro modo per dire crisi della rappresentanza politica, disconnessione tra sistema politico e bisogni reali. Per questo non si dà “centro” stabile, neanche in termini elettorali, nel quadro di una crisi che disarticola tutti gli assetti: è stato così per i democratici, sarà così per i repubblicani. A conferma, del resto, che la vittoria obamiana non aveva segnato un nuovo “allineamento” sociale ed elettorale – sostituto in chiave progressista del fu compromesso newdealistico – ma piuttosto un fragile e provvisorio punto di equilibrio acquisito grazie alla crisi e perduto quasi subito a causa della (mancata risposta alla) crisi stessa.


Il vero stallo

All’immediato assisteremo probabilmente ad un mix caratterizzato dal blocco di ogni velleità “riformatrice” del presidente, che sarà anzi costretto a difendere dall’attacco del nuovo Congresso le stesse misure di implementazione delle leggi su sanità e finanza, e dal gioco di mosse reciproche sul piano dei tagli al deficit federale (al 10% del Pil) e degli sgravi fiscali (anche per i ricchi) che la vittoria repubblicana ha rimesso in agenda. Con Obama che cercherà di richiamare gli avversari alle loro “responsabilità” e i repubblicani cui probabilmente basterà far ostruzionismo per logorarlo in vista delle presidenziali del 2012.

Ma lo stallo è ben più profondo di quanto non traspaia da queste prime schermaglie politiche, e in prospettiva pericolosissimo per la tenuta interna e internazionale della potenza statunitense. A casa, il fallimento del change suona un campanello d’allarme per tutto l’establishment, o almeno per quello meno miope. Si sarà pure neutralizzato, con la fine di Obama, un (assai ipotetico, si è visto) vettore di problemi per il business e la finanza, ma è anche svanita la possibilità di una exit strategy dal bushismo fondata su nuove basi politiche e sociali in grado di riparare le fratture interne e ricostituire così la traballante leadership mondiale. Invece, quello che viene fuori dal centro dell’impero è la sostanziale incapacità di dare una risposta in avanti alla crisi globale, non puramente arroccata sulle vecchie ricette finanziarie, sulla conservazione di privilegi insostenibili, sul rifiuto di fare la minima concessione sostanziale. L’élite finanziaria statunitense non ha affrontato fosse anche uno solo dei problemi di fondo del dissesto economico.Come prima, più di prima, è il messaggio. Qui ha davvero “fallito” Obama: non è riuscito a convincere l’apparato di potere come fosse nel suo stesso interesse cedere qualcosa per rilanciare la capacità di mobilitazione nazionale/istica nella competizione globale. Il che segnala quanto sia profonda oramai la crisi della democrazia a stelle e strisce e della sua capacità di integrare le spinte sociali anche conflittuali nella politica di comando imperiale. Ma non si mette bene neanche all’esterno. Se anche si arriva ad una nuova, decisa svolta a destra, è comunque finita per sempre la fase del Washington Consensus che all’ombra della guerra la superpotenza ha potuto imporre in modo relativamente indolore negli anni Novanta: oggi i competitors sarebbero direttamente la Cina e tutti quei soggetti nazionali e regionali a cui le regole del gioco statunitensi stanno sempre più strette…


Il governo della Fed e la currency war

In effetti, nello stallo della politica a Washington, si sta autonomizzando sempre più il “governo” della Federal Reserve. Nelle cui mani Obama ha lasciato quasi completamente le redini delle politica economica in questi due anni. La ricetta: ripianare i debiti della grande finanza con nuovi debiti forniti dal bilancio statale (bailout) nella speranza che l’economia ripartendo potesse riassorbirli con l’aumento dei prezzi. Strano keynesismo… finanziario (appena sfiorato dalla farraginosa legge di regolazione delle banche). Ciò ha alimentato la nuova bolla speculativa che questa primavera si è riversata contro i debiti sovrani (crisi greca), senza che la domanda negli Stati Uniti potesse comunque ripartire causa il peso ancora eccessivo dell’indebitamento, la sovracapacità inutilizzata degli impianti, la scarsa profittabilità sugli investimenti reali. Ma una mancata crescita oltre a creare disoccupazione rimette all’ordine del giorno la solvibilità di finanza e imprese indebitate.

È qui che interviene nuovamente la Fed che ha varato lo stesso giorno delle elezioni una nuova, massiccia immissione di liquidità nei mercati finanziari (quantitative easing2). Questa politica monetaria ultraespansiva serve in pratica a stornare il rischio finanziario sugli altri sia riducendo il valore del debito statunitense in mano ai creditori stranieri (in particolare asiatici) sia tramite la svalutazione competitiva del dollaro non concordata, anzi fortemente avversata dagli altri membri del G20 (come emergerà dal vertice di Seul dei prossimi giorni). L’effetto è una nuova bolla speculativa che già si dirige verso le economie emergenti, dove i tassi di crescita sono ancora positivi, mettendone a rischio stabilità e competitività, e si tradurrà in un nuovo attacco ai debiti sovrani.

Dietro la “guerra delle monete” e lo scontro con la Cina sul cambio c’è questa colossale partita resa possibile dal comando globale del dollaro. Finchè dura. Perché, come ha scritto giustamente Michael Hudson , il quantitative easing statunitense inizia a essere percepito dagli altri paesi (compresa la Ue e Berlino) come un eufemismo per un aggressivo attacco finanziario al resto del mondo costretto in questo modo a decurtare i benefici della propria crescita a favore del complesso Washington-Wall Street che poi lancia l’accusa di “manipolazione valutaria”. Ma costretto anche a iniziare a prendere contromisure in termini di strategie, e non solo più singole mosse, alternative.

Non è un caso allora che la Cina è stata ben presente nella campagna elettorale di midterm, tra i repubblicani come tra i democratici, come principale accusata per la perdita dei posti di lavoro e per competizione sleale. E non a caso Obama, dopo la batosta del voto e in procinto di partire per l’Asia dove visiterà gli alleati prima del vertice di Seul, ha affermato che l’obiettivo del viaggio è di aprire alle merci americane nuovi mercati per creare posti di lavoro. Che pensi a recuperare consensi generali e a rimobilitare la propria base con una campagna anti-Cina mescolando insieme temi economico-sociali, sfide geopolitiche e gli immancabili diritti umani?

Comunque sia, nè una destra ringalluzzita nè un born-again Obama sapranno garantire un nuovo sogno americano agli strati sociali che vorrebbero/dovrebbero mobilitare. E intanto, lamenta il New York Times nel tipico linguaggio pragmatico yankee, “nella comunità economica globale gli Stati Uniti stanno perdendo la loro legittimità di leader che forniscono soluzioni”.

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