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Palestina. Ancora violenze dei coloni e uccisioni nei campi profughi

Nelle ultime ore in Palestina una Moschea e una chiesa sono state date alle fiamme, un giovane ucciso dalle forze d’occupazione nel campo profughi di Dheisheh. Militarizzazione, violenza dei coloni, discriminazioni: questa è la vera natura dell’occupazione israeliana in Palestina.

Nella giornata di ieri la Moschea di Al-Jabaa, nei pressi di Betlemme, è stata incendiata durante la notte e scritte razziste sono apparse sui muri della stessa. Anche la comunità cristiana palestinese è stata in queste ore attaccata nei suoi luoghi sacri: la notte appena passata ha visto una un attacco ad collegio della comunità cristiana situato nella città vecchia di Gerusalemme. Intorno alle 4.00 l’incendio, appiccato con liquido infiammabile, seguito da scritte sulle mura quali “Gesù è un figlio di puttana”. Nell’area di Silwan, vicino a Gerusalemme, nei pressi della Moschea di Al-Aqsa, una bambina palestinese di soli 10 anni è stata invece investita da un’auto guidata da un israeliano ed investita di proposito. Dunque una violenza senza nessuno scrupolo, che attacca i luoghi sacri dell’Islam con lo stesso disinteresse con cui brucia gli alberi di ulivo palestinesi e con cui distrugge le case della comunità araba a Gerusalemme.

Ma la violenza dei coloni non è l’unica forma di ingiustizia presente nei territori occupati. Anche l’ingiustizia dello stato e la repressione militare, seguono gli stessi obiettivi: “pulizia etnica” a Gerusalemme, massacro della popolazione di Gaza e reprimere il più possibile la resistenza nella West Bank. Un esempio ne è la stessa politica di ingresso nello stato ebraico, il cui accesso è consentito a tutta la popolazione di fede ebraica, ovunque si trovi, e negato al popolo palestinese in Diaspora che in Palestina vuol tornare perché quella è la propria terra, da cui è stato cacciato durante la Nakba del 1948 e i conflitti successivi. In tutti i territori occupati quotidianamente si registrano espulsioni, nuovi insediamenti israeliani vengono edificati in terra palestinese, nuove barriere militari permettono nuovi espropri. I territori occupati sono stati trasformati in un insieme di enclavi separate, chiuse da muri e checkpoint, e senza accesso alle risorse.

A Gerusalemme, così come nei territori del ’48 [territori occupati nel 1948 e comunemente chiamati Israele] continuano le demolizioni delle case, gli allontanamenti forzati, la discriminazione culturale e nell’accesso ai servizi.
Nella West Bank proseguono gli arresti, i coprifuochi e le incursioni, ai quali la spontanea resistenza popolare si oppone e durante i quali spesso di registrano vittime, come nel caso di Jihad al-Jaafar, il diciannovenne ucciso nel campo profughi di Dheisheh, vicino Betlemme, mentre si difendeva con altri il campo da un’incursione dei militari. Ieri, il funerale del giovane si è trasformato in un corteo che è andato a riportare le parole d’ordine della resistenza in un campo come quello di Dheisheh, da sempre in prima linea nella resistenza popolare.
Una violenza ancora maggiore è poi presente nella Striscia di Gaza che, con le sue migliaia di sfollati, tenta di riprendersi dall’attacco che la scorsa estate ha provocato oltre 1.500 vittime. Nel bel mezzo della difficile ricostruzione, infatti, non si fermano gli attacchi contro i pescatori e i contadini di un territorio come la Striscia, ancora chiusa da confini e frontiere sbarrate sia per il traffico delle persone che, in gran parte, dei materiali di ricostruzione.

Questo avviene in uno Stato che cerca di mostrarsi al mondo come “democratico”, immagine questa fatta propria dalla diplomazia internazionale, arrivando pure a vantare il secondo stand in ordine di grandezza all’expo 2015 di Milano. Uno stato invece tutt’altro che democratico, in cui la vera democrazia, quella fatta di giustizia sociale e libertà, si ritrova invece nelle parole e nelle azioni dei molti che si battono per l’autodeterminazione e per il diritto al ritorno in terra palestinese.

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