Presente e passato, gatto nero gatto bianco
Le rivolte in Nord Africa e nei paesi arabi sono state caratterizzate da un dilagante protagonismo dei giovani, messisi in movimento senza alcun apparente legame, come nota Luciana Castellina su il manifesto del 3 marzo, con i moti dell’epoca di liberazione dal colonialismo. Ciò non si spiega con la mancanza di conoscenza di quel periodo, perché a tutti i livelli di istruzione viene, in quei paesi, celebrata la lotta per l’indipendenza, così come viene conservata “in caldo” l’opposizione all’oppressione israeliana. I giovani odierni non agiscono con l’ignoranza di quella fase, ma sulla base di un bilancio, pratico e teorico, del suo fallimento e della presa d’atto che gli obiettivi d’allora sono ridotti a espedienti retorici che consentono (o consentivano) alle elite di conservare il potere, divenuto, nel frattempo, un affare per circoli ristretti, ai danni di società lasciate deperire.
La liberazione dal colonialismo si fondava su tre obiettivi: riscatto nazionale, modernizzazione e radicalismo sociale. Per concretizzare le trasformazioni economico-sociali necessarie non sarebbe stato sufficiente basarsi sulle proprie forze. Maggiori possibilità le avrebbe offerte un processo di unione tra paesi liberati. Pan-arabismo e pan-africanismo cercarono di spingere in tal senso, ma furono sconfitti, oltre che da manomissioni esterne, anche dall’incapacità di divenire movimento davvero di massa. Non rimaneva che l’aiuto estero. Gli oppressori appena cacciati ritornarono carichi di filantropici “aiuti allo sviluppo” a dettare linee e programmi e, soprattutto, a prestare i capitali necessari. In poco tempo la liberazione dal colonialismo fu trasformata in un’oppressione persino maggiore: una formale indipendenza politica faceva velo a una sostanziale sottomissione economico-finanziaria. Interi paesi furono assoggettati alla schiavitù del debito estero e relegati, nella divisione internazionale del lavoro, a meri produttori di materie prime, di forza-lavoro a basso costo, e di pagatori di interessi, vitali per finanziare la “crescita” nei paesi occidentali.
Sorte non migliore toccò ai paesi che, sperando di sottrarsi al ritorno dei vecchi oppressori, si legarono ai “paesi socialisti”. Da parte di questi non venne schiavitù finanziaria (né poteva, essendo capitalisticamente poveri e, dunque, senza “eccedenze” di capitale da “prestare”), ma aiuti materiali in industria e agricoltura, che non erano minimamente in grado di produrre modernizzazione e riscatto sociale e politico delle masse. In compenso ne venne un’ideologia politica (“il socialismo”) a cui corrispondeva una pratica opposta, lavoro salariato, e, dunque, capitalismo (sia pure “di stato”). Tuttavia, anche in questi paesi, esaurita la finzione socialista, è arrivata, per gli stati, la libertà di fare debiti per finanziare lo “sviluppo”.
La liberazione dal colonialismo era stata sostenuta dal fermento delle masse che fu decisivo per il successo, anche come supporto ai militari “progressisti” e alle “rivoluzioni dall’alto”. Il fallimento delle promesse post-coloniali ha portato gli stati a una progressiva blindatura nei confronti delle masse, a trasformare in vuota retorica gli obiettivi originari, a costruire un consenso fondato su un potere autoritario e l’elargizione di sussidi, divenuti, col tempo, strumenti clientelari. Per questa trasformazione l’aiuto occidentale è stato decisivo: si trattava, infatti, di sostenere poteri asserviti ed essenziali per garantire la “stabilità mondiale”, ossia per evitare insorgenze contro l’ordine economico-finanziario-militare del mondo.
Non tutti erano (e sono) asserviti allo stesso modo, e una ricognizione delle specificità è indispensabile. Non sono sullo stesso piano, tanto per dire, Mubarak e Gheddafi, e quel che succede ora nei loro paesi (il che non porta a concludere “difendiamo Gheddafi”, mentre resta fermo che tutti quei popoli vanno difesi da ogni tipo di ingerenza occidentale). Tuttavia, una conclusione (non solo per i giovani in rivolta di quelle parti) si impone: il prodotto di quella vicenda sono società dominate da cricche, che non offrono alcuna possibilità di riscatto sociale, conculcano ogni libertà individuale e sequestrano il potere nelle mani di pochi.
Una cesura con il passato c’è stata. Non c’è da rammaricarsene, piuttosto da gioirne: era ora!
Il punto vero di domanda riguarda un altro aspetto: perché le rivolte si concentrano contro il potere interno e sembrano quasi ignorare quelli esterni e ben più potenti, o, addirittura, attendersene aiuto?
La mobilitazione delle masse fa i conti con il potere che ha dinanzi ed è l’artefice diretto delle proprie insopportabili condizioni. Nessun altro obiettivo di portata più generale può essere posto se, innanzitutto, non si fa pulizia al proprio interno, e se non si instaura un potere condiviso, fondato su un consenso politico formato in un ambiente di libera informazione e discussione. Libertà e democrazia riecheggiavano già nella lotta al colonialismo, ma per realizzarsi devono, evidentemente, ricorrere a percorsi e strumenti diversi da quelli rivelatisi fallimentari. Una certa dose di sperimentazione è, dunque, inevitabile.
A questo si unisce un altro importante fattore. Contro il colonialismo lottavano società con un alto grado di omogeneità, in cui l’individuo tendeva spontaneamente a diluirsi nella massa. La situazione odierna è molto cambiata: la spinta al riconoscimento del ruolo dell’individuo è cresciuta molto, non solo nelle società occidentali. Ciò è, senz’altro, frutto della propaganda martellante del capitalismo per sradicare la tendenza dei lavoratori a “fare classe”, organizzandosi in sindacati e partiti. Ma, allo stesso tempo, è frutto del fallimento dei partiti che s’erano posti a capo del riscatto proletario e/o di quello dal colonialismo, finiti col divenire strutture dominate da vertici autonomizzatisi dai loro originari programmi e dalla stessa massa. E, ultimo, ma persino più importante, è il frutto di un’organizzazione della produzione e della riproduzione della vita che ruota intorno davvero sempre di più sulle capacità individuali, e, di individui che, grazie a una maggiore diffusione delle conoscenze, pensano di possedere tutti i requisiti per poter riuscire “da soli”.
In Occidente questa dinamica è stata la base, non solo ideologica ma materiale, per l’“individualismo proprietario”. Essa è, però, diffusa in tutto il mondo e influenza tutti i conflitti sociali in essere e a venire. In una parte della sinistra (parliamo della sinistra ancora coerente ai suoi presupposti anti-capitalisti) si fa fatica a comprendere questa novità e si rimane stupìti nell’osservare come la ripresa del protagonismo delle masse non segua i canoni consolidati nel precedente ciclo sul piano dei programmi, dell’organizzazione e delle forme di lotta.
Chi se ne è reso conto è Obama che, raccogliendo il desiderio che scorga dai giovani in movimento di poter finalmente avere un’opportunità di affermazione mettendo in atto capacità e conoscenze acquisite con lo studio e con i social network, tenta di sfruttare l’immagine dell’America come regno delle opportunità per tutti e della libertà individuale, dopo aver cercato di ripulirla dalle croste di aggressività e di arroganza che le si erano depositate addosso negli ultimi sessant’anni e, in particolare, con Bush padre, Clinton e Bush figlio.
Cosa possono gli Usa mettere di concreto sul tavolo? All’ultima Davos il progetto è stato annunciato con chiarezza: per salvare la finanza bisogna accrescerne il mercato, portando al raddoppio i capitali prestati. Essendo i mercati della finanza sommersi dalla crisi dei debiti sovrani, non resta che cercare di inondare quelli “privati” più promettenti, nei paesi emergenti e delle “nuove democrazie”. Qui, finora gli stati hanno fatto da filtro ai capitali occidentali, evitando di far loro raggiungere i singoli e le famiglie. Ma se le società si “aprono” (“Società aperta” si chiama la Fondazione della mammoletta Soros) le banche americane potranno moltiplicare all’infinito clientela, prestiti e interessi. Il grande progetto obamiano, cui il nobelato micro-credito ha spianato il terreno, tenta di bloccare il declino da superpotenza, ridurre il peso europeo e soprattutto contenere l’espansione cinese, che, con modalità diverse da quelle predatorie dell’Occidente, si sta facendo spazio in Africa, Asia e Sud America. Se poi si “aprissero” anche Iran, Russia e la Cina stessa…
L’opportunità che Obama offre ai giovani è quella di prendere a prestito, trasformando in capitale la propria vita futura. In questo modo nessuno dei problemi dei paesi coinvolti sarà risolto. Non ci saranno risorse per infrastrutture, né per apparati industriali, tanto meno per modernizzare l’agricoltura. Si potrà, tuttalpiù, creare uno strato di piccole attività che incrementeranno la circolazione monetaria e saranno tributarie della finanza d’oltreoceano (dalla borghesia compradora alla nuova piccola borghesia compradora). Un ulteriore cappio sarà stretto al collo di paesi già fortemente indebitati, mentre un sospiro di sollievo, dopo tre anni di panico da crisi, si tirerebbe in Usa e in Europa.
Questa strada non è, però, tutta in discesa. Le si parano innanzi diversi ostacoli. Il principale può nascere proprio dall’evoluzione delle rivolte in atto e dal loro propagarsi.
Gli strati sociali che possono essere più sedotti dall’“apertura” di Soros-Obama sono quelli che hanno in teoriaqualcosa da “investire” (attività economiche già avviate ma anche titoli di studio, conoscenze), ma l’affermazione delle loro scelte dipende dalla piega che prenderà l’evoluzione delle insurrezioni e di come, nel loro ambito, si comincerà a mettere mano al problema del rapporto individuo/società sia nel rapporto movimenti/potere sia nella riorganizzazione della società. Se cioè prevarrà il berlusconiano-obamiano individuo proprietario che si preoccupa solo di se stesso e al massimo della sua famiglia più o meno allargata, o al contrario si affermerà una tendenza a combinare il ruolo di ciascuno nell’ambito di una cooperazione sociale che al primo posto colloca il bene comune, all’interno del quale l’individuo trova il suo benessere che non si misura in quantità di soldi e corpi altrui posseduti o messi al proprio servizio.
Nel primo caso il sistema capitalista troverà il modo di rinviare per un po’ la sua crisi, nel secondo l’impianto mondiale della divisione del lavoro, del profitto e dello sfruttamento subirà una potente scossa. E per questa via, traversa rispetto ai percorsi “classici”, non tarderebbe a farsi sentire a un livello più alto il nodo cruciale della dimensione globale delle lotte, un nuovo internazionalismo.
Quello iniziato è il “secondo tempo” della rivoluzione anti-coloniale, ma può divenire il tempo della messa in discussione dell’intero sistema capitalista.
Per andare avanti nel conflitto dovranno, probabilmente, essere recuperati alcuni “vecchi” arnesi (sindacati, partiti, programmi, teoria), ma con modalità che dovranno essere all’altezza dei tempi. Una prima fondamentale esperienza c’è stata: la mobilitazione permanente, l’occupazione delle piazze, lo sciopero sono state le precipue forme di lotta che ha costretto i “tiranni” Ben Ali e Mubarak a cedere il potere. La mobilitazione è stata facilitata, nel suo sorgere, dai moderni mezzi di comunicazione di massa, ma ha avuto successo perché sostenuta da un’irremovibile determinazione che non si è fatta irretire in manovre elettorali, compromissorie e dilatorie. Per reggere uno scontro di tale portata era necessaria un’organizzazione solidissima, ed è stata trovata: la piazza si è trasformata in una comunità coesa, in cui tutti gli individui erano ascoltati e presi sul serio, ma in cui le decisioni venivano prese unanimemente, perché unanime era l’obiettivo. Questa forma di democrazia si è potuta realizzare solo rifiutando le forme statuali, ossia quelle della delega a rappresentanze elette che finiscono con il formare dei corpi di specialisti della politica separati dal resto della società. Democrazia, dunque, come terreno di autorganizzazione e autocostituzione delle masse come soggetto antagonista in un rapporto di “dispersione” del potere costituito. Tutt’altro dalle celebrazioni liberal a uso e consumo occidentale, come si vede, senza che ovviamente siano già risolti tutti i nodi sul tappeto.
Nei prossimi eventi qualche passo “indietro” sarà d’obbligo e questa comunità dovrà ridividersi in partiti, vecchi e nuovi, probabilmente cercando anche di attingere alle precedenti esperienze storiche, separando quanto di positivo c’era nello slancio della mobilitazione di allora da quanto nei fatti è stato messo in atto (l’unica riflessione su questo legame tra generazioni attuali e quelle precedenti è forse nel film di Kusturica Gatto nero gatto bianco, con i giovani che si ricollegano direttamente alla generazione dei nonni, bypassando la fallita generazione di mezzo).
Il lavoro per ri-costituire una comunità di lotta in grado di liberarsi non solo dei tiranni diretti, ma anche del sistema che la opprime e la sfrutta sarà duro, ma non impossibile. Un piccolo contributo potremo cominciare a darlo anche da qui difendendo il moto di riscatto delle masse arabe e nord-africane dai rinnovati desideri di rapina e oppressione dell’Occidente e delle sue istituzioni politiche, come l’Onu, finanziarie e militari. Un grosso contributo lo stanno intanto dando loro a noi se è vero che i nodi cruciali della ripresa del protagonismo di massa in Occidente non sono al fondo così dissimili.
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