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Prigionieri in cambio di colonie. La fine di un negoziato mai iniziato

Ventisei prigionieri in cambio di 1.200 abitazioni. Un colpo al cerchio (palestinese) e uno alla botte (israeliana), quelli dati ieri dalle autorità di Tel Aviv che in poche ore hanno probabilmente messo la parola fine a un negoziato di pace mai realmente partito. Una era la precondizione posta dall’Autorità Palestinese per accettare una ripresa dal dialogo: il congelamento immediato dell’espansione coloniale nei Territori Occupati.

Una precondizione mai accettata dal governo israeliano e su cui il segretario di Stato americano John Kerry – sponsor di negoziati di cui l’amministrazione Obama ha un mediatico bisogno – aveva chiesto al presidente Abbas di sorvolare. Ma l’annuncio di ieri, a tre giorni dall’incontro dei team di negoziatori a Gerusalemme dopo il primo meeting conoscitivo a Washington, ha l’effetto di una bomba sui già deboli sforzi di pace.

Quasi milleduecento nuove unità abitative in colonie di Gerusalemme Est e Cisgiordania: ad annunciare il via libera definitivo al nuovo progetto è stato domenica Uri Ariel, ministro dell’Abitazione e membro del partito Casa Ebraica di Naftali Bennett, strenuo sostenitore del movimento dei coloni israeliani. Delle 1.187 nuove unità abitative, 793 saranno costruite a Gerusalemme Est, le restanti 394 in Cisgiordania, nelle imponenti colonie di Ma’ale Adumim, Efrat e Ariel, vere e proprie città in grado da sole di disintegrare la continuità territoriale di un eventuale futuro Stato di Palestina.

Subito dopo l’annuncio, il ministro Ariel ha fatto visita alla colonia di Talpiot, costruita nel quartiere palestinese di Jebel Mukaber a Gerusalemme Est, ricordando così all’Autorità Palestinese che la Città Santa per Israele non sarà mai negoziabile: «A nessun Paese al mondo viene ordinato da un altro Stato dove può costruire e dove no – ha detto Ariel – Noi continueremo a fare case e costruire in tutto il Paese».

«Un sabotaggio», ha definito le nuove 1.187 case per coloni il negoziatore palestinese Mohammed Shtayyeh: «È chiaro che il governo israeliano sta deliberatamente tentando di sabotare gli Stati Uniti e gli sforzi internazionali per la ripresa dei negoziati. Israele continua a usare i negoziati di pace come cortina di fumo per la costruzione di nuove colonie. È palese che non c’è alcun interesse al dialogo».

A protestare ieri non è stata solo la leadership palestinese ma anche l’Unione Europea, da qualche mese impegnata in una serie di azioni concrete contro l’espansione coloniale israeliana: «Le colonie israeliane in Cisgiordania sono illegali secondo il diritto internazionale e minacciano di rendere impossibile la soluzione a due Stati», ha commentato Michael Mann, portavoce dell’Alto Rappresentante agli Affari Esteri, Catherine Ashton. A fare eco a Bruxelles è intervenuta anche la Gran Bretagna, chiedendo l’immediato ritiro della decisione.

La notizia della nuova ondata colonizzatrice è giunta insieme alla lista dei nomi di 26 dei 104 prigionieri palestinesi pre-Oslo che il governo israeliano aveva promesso poche settimane fa di rilasciare come atto di buona volontà. La decisione, fortemente voluta dal premier Netanyahu, era stata mal digerita dalla coalizione di governo che alla fine aveva però dato il via libera al rilascio degli oltre cento detenuti politici palestinesi, dietro le sbarre di un carcere israeliano da prima degli Accordi di Oslo del 1993.

Ieri Israele ha pubblicato i nomi dei primi 26 che saranno liberati tra pochi giorni (14 nella Striscia di Gaza e 12 in Cisgiordania), la prima di quattro fasi nell’arco di nove mesi. Si tratta per lo più di membri di Fatah, il partito del presidente Abbas. La questione dei prigionieri politici è un altro dei temi caldi che l’Autorità Palestinese avrebbe voluto portare al tavolo, ma senza ottenere alcun impegno né da parte statunitense né tantomeno israeliana.

Immediata è stata la protesta della destra israeliana all’annuncio della lista dei primi 26 nomi. Una rabbia tanto potente da far pensare che le 1.200 nuove case per coloni siano l’ennesimo regalo ai movimenti ultranazionalisti israeliani, base elettorale dell’attuale maggioranza che affonda le sue radici proprio nelle colonie illegali nei Territori Occupati.

Netanyahu sa bene che è meglio il consenso oggi che un negoziato vuoto domani. E come ogni leader israeliano, passato e presente, sa che ogni metro occupato in territorio palestinese è un punto in più da giocarsi al futuro tavolo del negoziato.

Quando – non certo oggi – israeliani e palestinesi avvieranno un dialogo serio,le colonie saranno un dato di fatto tanto concreto e visibile difficile da non tenere in considerazione. Il governo israeliano ne è consapevole: ogni collina, ogni valle, ogni strada occupata oggi è un’assicurazione per il domani.

Emma Mancini

per Il Manifesto

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