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Singal: quel che i peshmerga (non) dicono

A un’ora di viaggio da Duhok, nell’Iraq settentrionale, il tassista si ferma e parcheggia la macchina ai limiti del deserto. “Devo pregare – dice – perché andiamo a Singal”. Conquistata dallo stato islamico nel 2014, liberata dal Pkk e dalle unità di liberazione ezide (Ybs) nel 2015 e occupata dai peshmerga del Pdk (partito al potere nel Kurdistan iracheno) nello stesso periodo, la città è linea del fronte con i miliziani di Daesh, punto più intenso del conflitto politico in Kurdistan e scenario allucinante dell’orrore prodotto dalle politiche delle superpotenze. Costeggiando il confine con la Siria, avvicinandoci ai monti da cui la città prende il nome, i segni delle violenze dei miliziani salafiti si presentano ai nostri occhi: villaggi distrutti, case bombardate, insediamenti abbandonati. I check-point dei peshmerga si fanno sempre più frequenti, producendo un’atmosfera di guerra, la cui intensità aumenta procedendo verso sud.

Sono calate le tenebre e saliamo da nord sulla montagna dove i villaggi ezidi (nome di una rara confessione religiosa sincretica, diversa tanto dal cristianesimo quanto dall’islam, e per questo da sempre perseguitata) sono trasformati da quasi due anni in grandi baraccopoli. Pareti di compensato, tetti di lamiera, fuochi, lampade ad olio: così vivono le persone che hanno dovuto fuggire dalle loro case, inseguite da fanatici che intendevano sterminarle o ridurle in schiavitù con la scusante della loro diversa religione; un destino che, a molti loro concittadini, è stato in effetti (ed è tuttora) riservato. Queste sono le famiglie tradite dal generale dei peshmerga Kasim Shesho (anch’egli ezida, ma fedele al Pdk di Massud Barzani) che, per ragioni tutt’altro che chiare, ordinò alle proprie truppe di ritirarsi prima dell’arrivo dell’Is, dopo aver per giorni rassicurato la popolazione e averla (secondo diverse testimonianze) disarmata quasi totalmente.

È freddo, sebbene sia marzo inoltrato: in queste zone semi-desertiche, calde di giorno e fredde di notte, enormi slums seguono la forma dei rilievi, con la gente che si stringe in piccoli ripari debolmente illuminati e bambini che scorrazzano per strade buie assieme ai cani. Due distese di luci si notano a valle: Singal a ovest e Tel Afar a est, città ancora in mano allo stato islamico. In mezzo, la linea del fronte; ancora più a est, Mosul, capitale irachena dell’Is, ormai circondata da forze avversarie. La catena montuosa su cui viaggiamo, ribattezzata “Sinjar” dopo la lunga e inesorabile colonizzazione araba del Kurdistan meridionale, scende per tornanti ripidi che conducono alla città.

È la strada da cui scesero incolonnati i mezzi del partito dei lavoratori del Kurdistan nell’agosto 2014, quando accorsero a difendere la popolazione rimasta intrapolata tra la città e la montagna, dove non pochi furono i morti per la fame e gli stenti.

Ai limiti della città compaiono i colori delle Hpg (unità militari del Pkk) e i guerriglieri in caratteristici abiti curdi. Qualche isolato più avanti gli Asaysh – polizia del Pdk – ci accompagnano nel loro ufficio per l’identificazione di rito. Il Kurdistan iracheno è l’unico “stato” presente qui, e controlla la burocrazia degli accessi. Tutto è sottoposto a rigide procedure militari: la città è disabitata, soltanto le diverse forze armate che se ne spartiscono il controllo possono, ad oggi, attarversarla o farla attraversare: dal Rojava, sono le Ybs ezide alleate del Pkk ad avere un sostanziale controllo delle strade; dal Kurdistan iracheno, i peshmerga. A sentire i media internazionali, soltanto questi ultimi (alleati di Stati Uniti ed Europa) sono presenti qui, dopo aver “liberato” da soli la città. Il ruolo e la presenza di Pkk e Ybs è censurato e misconosciuto: reali combattenti della prima e dell’ultima ora contro lo stato islamico, ma indipendenti da qualsiasi governo e animati da idee rivoluzionarie, secondo la narrazione embedded imposta al mondo (che ogni giornalista sa di dover seguire a puntino) non dovrebbero, in effetti, neanche esistere. [La stessa censura incontra in queste ore il ruolo di Pkk e Ybs nella battaglia di Mosul, Ndr].

Gli Asaysh di Barzani non la pensano diversamente. Indagano sulle ragioni del viaggio, si accigliano alle domande sulla guerriglia, vorrebbero rendersi “ospitali” imponendoci la loro asfissiante presenza. Prendiamo posto, invece, in una delle tante case semidistrutte e abbandonate (ma non da topi e zanzare) che sarà difesa nella notte da Heder, ragazzo ezida di ventitré anni, che pure ha avuto il tempo di sposarsi e fare quattro figli. Di pochissime parole, l’aria perennemente triste e spiritata, vive con la famiglia in uno dei tanti campi profughi costruiti dal Pdk a Duhok e, disoccupato, veste qui la divisa dei peshmerga. “Neanche mi pagano. Siamo tutti volontari. Faccio dieci giorni qui e dieci al campo, alternativamente”. Due grosse esplosioni squarciano il silenzio, facendo tremare i vetri di tutta la città: lo stato islamico ha fatto esplodere due autobomba in un villaggio vicino. Seguono colpi di mortaio. La casa di Heder si trova in uno di quei villaggi, ancora in mano all’Is; non sa chi ci sia dentro, né se sia ancora in piedi.

Gli chiediamo se aveva dei rapporti con le persone che gli hanno fatto questo, con le popolazioni arabe dei villaggi circostanti. Sì, è la stringata risposta. Non hai più visto nessuno di loro, da allora? “No”. Difficile descrivere il suo sguardo perso nel vuoto, sprofondato forse in cose che non vuole o non può spiegare. Il 3 agosto 2014 centinaia di arabi della zona accompagnarono i miliziani dell’Is nella loro incursione, compiendo in prima persona ogni genere di crimine sui propri vicini di casa. Gli ezidi rifugiati nella provincia di Duhok ci hanno detto che i rapporti, prima di quel giorno, erano “normali”. Difficile comprendere cosa significhi. “Era gente cui dicevamo ‘Buongiorno’ ogni mattina” ci hanno spiegato, palesemente abituati all’incredulità degli interlocutori. Per chi, come Heder, è stato arruolato nelle strutture gestite da Barzani, non ci deve esser stata molta scelta su quale divisa indossare; ma ha combattuto anche a contatto con Pkk e Ybs, perché faceva parte delle unità che hanno attaccato dalle montagne. Sono brave persone, gli chiediamo? “Sì, sono brave persone”.

Il mattino seguente, durante la colazione al quartier generale, un alto ufficiale si abbandona a qualche confidenza: “Mi sono diplomato all’accademia militare di Saddam a inizio 2003. Pochi mesi dopo ho iniziato a lavorare per l’intelligence americana. Il generale che mi diede il diploma è in prigione ancora oggi”, ridacchia. Anche lui è ezida; tutti i peshmerga di Singal sono ezidi ormai: è l’unico modo per mantenere in vita questo corpo militare nella zona, dopo il tradimento del 2014. “Non ci possiamo fidare dei curdi” dice Khalis, un commilitone di Heder. Il presidente Barzani ha sostituito i curdi musulmani con volontarii ezidi prelevati dai campi, e li ha mandati a combattere sotto la stessa bandiera che li aveva fatti massacrare due anni fa; oltre che, incredibilmente, sotto lo stesso comandante, Kasim Shesho. Nessun mezzo d’informazione ha mai raccontato, né racconterà, tutto questo. Il perché lo spiega l’alto ufficiale: “Questo è un film. L’America è il regista”.

Non è una teoria della cospirazione. La direzione delle operazioni è prerogativa degli Usa. “Non vi chiedete perchè non attacchiamo Tel Afar? Basterebbero due ore per chiudere questa vicenda”. La politica globale odierna si progetta in termini di governance: ha tempi dilatati. L’Is è un fenomeno pericoloso, ma provvidenziale per porre un freno all’influenza iraniana sull’Iraq, dopo che gli sciiti del sud hanno occupato le istituzioni del nuovo stato. Gli Stati Uniti non lo rimpiazzeranno fino a che non sarà pronto un ceto politico in grado di guidare nuove, fedeli istituzioni sull’area che esso controlla. Questo è il work in progress statunitense alla fine del mandato Obama; e questo giustifica ogni attesa. Il terrore instillato dall’Is, d’altra parte, non può che indurre le popolazioni ad essere più collaborative (leggi: sottomesse). Sono equilibri militari ed energetici mondiali: e che milioni di persone restino intrappolate tra folli sevizie e decapitazioni dispiace, penseranno a Washington, ma il governo del pianeta – il suo dominio – è una scienza complessa.

Ecco allora Heder riempire con Khalis le ore vuote della vita da caserma, scambiare messaggi con la moglie e aspettare un ordine dall’altro capo del mondo per provare a riprendersi casa sua; poi, spera, il suo servizio nei peshmerga gli frutterà un lavoro, se non la morte. Perchè Barzani non ha difeso Singal, gli chiediamo? “Non lo so”: sente il termometro della domanda, ma sembra anche trovarla ridondante. Ci accompagna in mezzo alle rovine, alle case squartate, ai palazzi crollati; ha l’aria di camminare come se fosse in un limbo. Entriamo nei quartieri controllati dal Pkk. Le ragazze dell’Yja-Star (unità femminili del partito) si precipitano fuori dalla loro base, per capire chi è il soldato che ha deciso di avventurarsi fin lì da solo, a piedi, nonostante l’uniforme che indossa. Lui le saluta senza scomporsi, lo sguardo sempre perso nel vuoto. Loro rientrano, ridendo un po’ stupite. Non è che un ragazzo di Singal, avranno pensato, la cui vita è stata stritolata da strategie incomprensibili e lontane, finita in mezzo a scontri a cui avrebbe preferito non partecipare, e protagonista suo malgrado di un “film” che non avrebbe mai voluto vedere.

dal nostro inviato a Singal, Kurdistan iracheno

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