War on Africanistan
L’intervento dell’esercito francese in Mali, considerato fino a pochi anni fa un modello di democrazia nella regione, va interpretato come segnale di continuità rispetto alle strategie di global governance della Casa Bianca, che dal primo mandato di Obama si articolano con interventi limitati, coperti e ad alta tecnologia. Con l’avvicinarsi del disimpegno dall’Afghanistan il continente africano diviene uno dei contesti primari di azione per le potenze globali in relazione alla permanete instabilità politica ed alla significativa presenza di risorse. Laddove l’ingente afflusso di capitali cinesi ha innestato recentemente una diffusa crescita economica (comunque sempre basata su uno sviluppo esogeno ed in favore delle élite, controllato, legato esclusivamente allo sfruttamento ed esportazione delle materie prime) inedita per molti stati africani, gli Usa giocano le loro carte per il controllo cercando di ri-livellare la scala egemonica a suon di droni, missili e bombe. Nonostante gli anni trascorsi e l’alternanza delle amministrazioni, è ancora la war on terror il paradigma e paravento ideologico entro il quale viene agita la crisi sistemica in termini sempre più inevitabilmente bellici. Usa e Ue speravano di poter gestire in maniera più lineare effetti e contro-effetti generatisi dai movimenti insorgenti nordafricani esplosi nel 2011, ma continue e spesso inaspettate variabili rendono il quadro perennemente instabile ed ingovernabile. L’intervento in Libia di quasi due anni fa, per molti versi il prodromo dell’attuale guerra in Mali, ha prodotto come effetto la spartizione del territorio tra le milizie (che, dopo l’uccisione dell’ambasciatore Usa, continuano a mandare segnali chiari con l’assalto di ieri all’auto dell’ambasciatore italiano) e lo spostamento di consistenti numeri di uomini in armi verso il Mali dove, nel giro di una dozzina di mesi, tutta l’area del Sahara e del Sahel sono entrate in fermento. Le mappe neocoloniali inseriscono queste aree dell’Africa centro-settentrionale nel disegno del Grande Medio Oriente e continuano ad applicarvi gli schemi della guerra al terrorismo in una complessiva incapacità di disegnare una strategia d’insieme e non contingente. L’operazione in Mali sarebbe dovuta avvenire, anche grazie al lavoro svolto da Prodi quale inviato speciale del Segretario delle Nazioni Unite, quale conseguenza della risoluzione 2071 approvata all’unanimità dal consiglio di sicurezza ad Ottobre, che consentiva l’opzione militare. L’incursione delle forze ribelli verso il centro del Mali e la conquista della città chiave Konna hanno imposto una forzatura sui tempi e le modalità ipotizzate. Invece dell’auspicato -da parte francese e più in generale della diplomazia internazionale- intervento africano sotto egida Unione Africana si sta realizzando una missione francese sotto egida Onu. In uno scenario complicato dagli ostaggi francesi sparsi per la regione, è chiaro che la Francia (sotto la copertura politica e logistica degli Usa) sta giocando una partita per mantenere il proprio rango storico nel “dominio riservato” coloniale nonché ultimo luogo privilegiato dell’influenza francese nel mondo. In aggiunta a ciò gli interessi sulle risorse e per l’accesso alle fonti energetiche hanno come sempre esercitato una decisiva influenza. Ma va considerata anche l’esigenza legata al consenso interno del presidente Hollande (che incredibilmente continua ad essere il più citato quale esempio di “politiche di sinistra” in Italia) il quale, in totale continuità con Sarkozy, agita le bandiere di guerra grazie anche ad una compattezza istituzionale forte. La narrazione mainstream di questa ennesima guerra tende ad una completa normalizzazione degli interventi bellici, talmente consuetudinari da meritare ormai poco spazio nelle cronache. Dopo oltre un decennio, nonostante il complessivo fallimento, è ancora tuttavia la retorica “Occidente contro islamismo terrorista” ad essere acriticamente proposta da pressoché tutte le voci. Da un punto di vista dei movimenti diviene sempre più impellente la sperimentazione di pratiche di sabotaggio di questa mai finita “guerra globale permanente asimmetrica” che necessariamente dovranno superare l’ormai inservibile terreno etico per ancorarsi pienamente nel panorama della lotta nella crisi e nel rifiuto del debito. Da questo punto di vista un momento importante di sabotaggio è stato agito dal movimento siciliano No Mous contro le basi americane proprio in questi giorni. Una prima indicazione utile che deve portare a ricostruire una lotta per la pace e l’autodeterminazione che nei prossimi mesi dovrà cercare di generalizzarsi legandosi alle lotte metropolitane contro l’austerità.
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