Ragionare sullo sciopero climatico
E’ inutile negarlo, i movimenti climatici di nuova generazione vivono una duratura empasse dovuta a diversi fattori. Alcuni sono di natura oggettiva: la centralità assunta dalla guerra a livello sistemico ha prodotto un rinculo su qualsiasi opzione di “riformismo climatico” accompagnato da una classica dinamica progressista tra movimenti ed istituzioni.
Oggi là dove la “transizione ecologica” è ancora in parte in agenda in delle forme radicalmente riviste questa occupa un ruolo di sicurezza strategica, più che di trasformazione vera e propria delle fonti di approvvigionamento. L’esempio lampante è quello delle fonti rinnovabili: dentro la logica della valorizzazione capitalista in economia di guerra diventano un ulteriore strumento di estrattivismo e devastazione dei territori. Tanto che persino la destra sta progressivamente abbandonando il paradigma negazionista per quello molto più redditizio e meno ingombrante dell’adattamento climatico. In un quadro geopolitico di forti tensioni dunque le energie rinnovabili diventano uno strumento sussidiario, a fianco dei combustibili fossili, per aumentare la quantità di energia disponibile alla produzione dentro la competizione globale. Nessuna sostituzione dunque, ma una complementarietà che ancora una volta mostra la natura predatoria illimitata del capitalismo.
Intanto ci misuriamo con fenomeni climatici estremi sempre più significativi in scala, distruttività ed estensione. In questo momento viviamo nel nostro paese due “emergenze” contemporaneamente. Quella del caldo record e dei conseguenti incendi che stanno sconvolgendo Sicilia e Calabria al sud, mentre al Nord tempeste, nubifragi e trombe d’aria stanno sferzando la pianura Padana.
Le conseguenze di quanto sta avvenendo sono estremamente concrete, non solo sul piano ecologico più esplicito: in questi giorni vi sono state vite spezzate, centinaia di feriti e danni ingentissimi in diversi settori. Il tema muove preoccupazione anche se per lo più sui media mainstream viene trattato alla stregua di una rubrica estiva. Le vite delle persone sono toccate concretamente dalla crisi climatica: fosse anche perché si sono trovati la macchina bombardata da una grandinata o i loro pochi giorni di ferie si sono trasformati in un inferno in terra. Apparentemente dunque i movimenti climatici dovrebbero godere di ottima salute in questo momento. Evidentemente qualcosa non sta funzionando.
Esistono almeno due elementi che vanno considerati a fondo: da un lato l’efficacia delle forme di protesta messe in campo (e dunque anche la loro credibilità), dall’altro la capacità di coinvolgere chi sta subendo direttamente ed in maniera sostaziale gli effetti della crisi climatica.
Una delle pratiche che il movimento climatico ha ormai adottato da tempo è quella del blocco. Questa modalità di azione è stata utilizzata in molti luoghi e ha avuto la sicura efficacia di richiamare una certa attenzione mediatica, di creare disagi e di costringere la controparte a prendere posizione. Ma ci può bastare? E’ evidente che questa pratica, per come si è data fino ad adesso non produce un reale rapporto di forza in grado di imporsi. Il blocco per essere efficace deve diventare una pratica capillare, un costo enorme per le aziende e i governi. Il blocco deve essere una paralisi, parziale o totale del sistema produttivo e riproduttivo per quello che è oggi. In sostanza serve uno sciopero reale, radicale e socializzato. Lo sciopero è di per sé, non a caso, uno strumento ecologico, perché l’interruzione delle attività produttive e riproduttive ha un effetto immediato sulle emissioni e sull’inquinamento.
Dentro la crisi climatica e con i suoi effetti reali sempre più distruttivi lo sciopero è una pretesa che si può radicare socialmente: nessuno vuole schiattare di caldo in un cantiere o raccogliendo frutta in un campo, nessuno vuole rischiare la vita per consegnare una pizza sotto la grandine o per dirigersi a lavoro durante un’alluvione. La materializzazione della crisi climatica è un costo sociale ed economico enorme che necessita una risposta organizzata. Quale programma operaio e popolare per la salute e l’ecologia possiamo immaginarci? Quali forme di militanza ed attivismo abbiamo bisogno per renderlo concreto?
Oggi si dibatte già di lockdown climatici in forme più o meno assurde, ma il tema che si porta dietro questo dibattito è indicativo: ai dati livelli di produzione, di lavoro e di consumo la traiettoria verso il disastro climatico è tracciata, e la riconversione energetica senza un cambio di paradigma è destinata a peggiorare la situazione, dunque il tema dello sciopero climatico, di una riduzione delle ore di lavoro, di una migliore condizione di lavoro, di un lavoro che non faccia ammalare, soffrire e morire è oggi più urgente che mai.
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