Ripartire all’insegna del cemento?
Condividiamo questo articolo di Tomaso Montanari per volerelaluna.it che sottolinea come nonostante le evidenze emerse dalla pandemia il paradigma della crescita ad ogni costo e della cementificazione è tutt’altro che messo in discussione dagli apparati istituzionali. Non c’è da stupirsi, ma bisogna evidenziare che una via per mettere in discussione questi modelli difficilmente passa per le forche caudine delle istituzioni, quanto piuttosto è necessaria costruirla dal basso, come punto di vista situato nella crisi e come forza di massa.
C come coronavirus: o come cemento? Vuoi vedere che – dopo aver toccato con mano cosa potrebbero essere le nostre città, il nostro Paese, il nostro pianeta se solo allentassimo un poco la morsa del dominio (dis)umano – la nostra prima reazione sarà rovesciare su quella povera natura appena risvegliata una colata di cemento? Sembra questa la strada annunciata in Senato dal presidente del Consiglio evocando «un iter semplificato su un elenco di opere strategiche con poteri derogatori» che fa il paio con la richiesta ultimativa di Renzi di «un piano shock per grandi infrastrutture e cantieri».
Una delle pessime conseguenze della pessima metafora del «siamo in guerra» è che immaginiamo una ripartenza come quella dei Trenta Gloriosi: i tre decenni che andarono dal 1945 al 1973, splendidi per l’economia e letali per l’ambiente.
Possibile non essere capaci di immaginare una ricostruzione che non sia all’insegna del mattone? Perché nessuna forza politica, in queste settimane, ha proposto di ritirare su l’economia nazionale con un mega-piano neokeynesiano di messa in sicurezza del suolo italiano? Sanare il dissesto idrogeologico, sradicare il cemento abusivo, manutenere corsi d’acqua, litorali e boschi. E poi l’enorme capitolo della prevenzione antisismica. Tutti capitoli di spesa per i quali non c’erano mai soldi. Come per la ricerca: oggi tutti si chiedono perché non riusciamo ad avere pronto un vaccino, ma pochissimi ricordano che solo pochi mesi fa si è dimesso il ministro della ricerca, Lorenzo Fioramonti, proprio perché i soldi per la ricerca non c’erano.
E invece niente: cemento, cemento e ancora cemento. In Sardegna, in piena emergenza, la giunta regionale approva (e dieci giorni dopo ritira, travolta dalle critiche) la costruzione di un resort di 8340 metri cubi sul mare, accanto a un nuraghe. «Dovevamo aspettarcelo – ha commentato Sandro Roggio –. Il sentimento della destra sarda (più edilizia = più turisti) era esibito in campagna elettorale. E incoraggiato dallo smarrimento del centrosinistra isolano a guida PD, in gran parte ostile alle norme di tutela paesaggistica del 2006, e fautore di norme (un po’ meno peggio?) che hanno aperto la strada al sempre peggio». Questo è il punto: di fronte alla speculazione edilizia non c’è destra e non c’è sinistra, c’è il partito unico del cemento.
Anche la Toscana un tempo rossa appare oggi color grigio cemento. Il 23 marzo, già in piena pandemia, la Regione pubblica il progetto per un mega-impianto eolico sul crinale dell’Appennino, tra Vicchio e Dicomano, in Mugello: inizia quindi il conto alla rovescia di 60 giorni in cui cittadini e associazioni ambientaliste, tutti reclusi in quarantena, dovrebbero presentare le osservazioni. Di fronte all’indisponibilità del Governo regionale a incontrarli, i comitati dei cittadini hanno scritto: «Possiamo solo sperare che abbiate preso visione dei tanti documenti che dimostrano, dati alla mano, che questo tipo di impianti non risolvono nemmeno in minima parte la difficoltà energetica del paese, e anzi, sottraggono risorse e finanze pubbliche che potrebbero essere investite per migliorare la qualità di vita di un territorio già provato e disagiato come il nostro». Destino vuole che proprio a Dicomano sia la RSA su cui la Procura di Firenze ha aperto un’inchiesta per i quindici anziani morti per coronavirus: quasi ci volesse ricordare che ben altra è la cura di cui abbiamo bisogno. Non nuovo cemento sui crinali, ma nuova umanità nell’accudimento dei più fragili.
Gli esempi si potrebbero moltiplicare, perché non solo il virus non ferma le betoniere, ma rischia appunto di farle girare più veloci. Di fronte al crollo del ponte di Aulla, Matteo Renzi non invoca la manutenzione, o la ricerca delle responsabilità, ma il suo chiodo fisso, lo Sblocca Italia: «Se non ci mettiamo SUBITO a lavorare sui cantieri con il piano shock ‒ presentato ormai da molti mesi ‒ ogni anno andrà peggio. E se non lo facciamo in questa fase di crisi vuol dire che ci vogliamo del male. Apriamo questi benedetti cantieri, subito». Le bozze che girano di quel piano sono davvero da shock: ambientale. Vi si legge, per esempio: «In ogni caso tutti i commissari di cui al presente decreto possono anche esercitare, qualora ne ricorrano le condizioni di urgenza e necessità, i seguenti poteri: in caso di motivato dissenso espresso da un’amministrazione preposta alla tutela ambientale paesaggistico-territoriale, del patrimonio storico-artistico o alla tutela della salute e della pubblica incolumità, la decisione […] è rimessa alla decisione del Commissario che si pronuncia entro 15 giorni, previa intesa con la Regione o le Regioni interessate». È il sogno proibito condiviso dai due Mattei (Renzi e Salvini), e da loro più volte esplicitamente ammesso: ridurre al silenzio le soprintendenze, cioè l’esausta magistratura del nostro territorio. Potrebbe mai passare una legge del genere in questo Parlamento? L’intervista concessa, qualche settimana fa, al Fatto Quotidiano dal viceministro alle Infrastrutture Giancarlo Cancelleri non lascia molti dubbi. All’obiezione: «Voi del M5S siete sempre stati contrari alle grandi opere, e ora volete facilitarle», lo sventurato risponde: «Di fronte a un contesto politico e a un quadro economico totalmente diverso da qualche anno fa, è necessario cambiare l’agenda politica. La priorità adesso è creare lavoro, usando soldi pronti ma fermi». Come dire che ora non possiamo permetterci il lusso di mantenere gli impegni, di rispettare gli ideali, grazie ai quali si è arrivati al potere.
Viene da pensare che ci sia una maledetta linea d’ombra, nella vita pubblica italiana. Quella linea è l’elezione a una carica pubblica: quando la varca, il cittadino subisce una mutazione radicale nel linguaggio, nell’etica, nella scala delle priorità. Perfino nella logica. Non è più un cittadino, ormai: diventa il pezzo di un Potere immutabilmente uguale a se stesso, chiunque lo incarni. E a quel punto, niente: non c’è più modo nemmeno di intendersi con chi è rimasto di là, tra i cittadini comuni. E così, dopo tanti chiari segnali (si pensi alla ferita sanguinante dello Stadio della Roma, e all’incredibile testacoda sul TAV) anche i Cinque Stelle al potere hanno varcato la linea d’ombra. E si sono trovati così in compagnia di destra e sinistra. Un simbolo di questa continuità perfetta è stata la figura di Maurizio Lupi: assessore allo Sviluppo del territorio, edilizia privata e arredo urbano del Comune di Milano nella giunta di Gabriele Albertini e poi ministro delle Infrastrutture dei governi Letta e Renzi. La linea Lupi è quella della Legge Obiettivo di Berlusconi del 2001 che resuscita, peggiorata, nello Sblocca Italia di Renzi (e Lupi, appunto) nel 2014. Il motto delle due leggi era lo stesso: «padroni in casa propria». Parole che volevano solleticare i cittadini, ma che di fatto descrivevano perfettamente le figure di amministratori che si sentono padroni del territorio solo per svenderlo a interessi particolari. Insomma, pare proprio che nemmeno la pandemia abbia la forza di cancellare quella linea d’ombra.
Dobbiamo continuare a seppellirci vivi nel degrado «che qualcuno, neanche a dirlo, / vorrebbe ulteriormente perpetrare con la solita / accoppiata di cemento e asfalto: / con quel grigio da modernariato, / unico colore che il potere / riesce a immaginare». Sono versi di Franco Marcoaldi: drammaticamente più lucidi di ogni analisi politica.
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