Zitto e taci. E’ la procedura.
Prima Gianni Vattimo, poi Erri De Luca e Ascanio Celestini, infine Massimo Cacciari e Giovanni De Luna, una bella schiera di intellettuali si sentono chiamati a prendere posizione non solo su una delle lotte più lunghe, tenaci e partecipate degli ultimi vent’anni in Italia, ma sul suo significato generale quanto alle forme della politica, le prerogative di governanti e governati, le priorità economiche o ambientali e il rapporto tra la legalità vigente e queste priorità. Tutti sembrano comunque concordare sull’inutilità, o quantomeno la scarsa razionalità economica di questa grande opera, considerati i costi, gli effetti ambientali e l’ostilità popolare che la circonda. È già qualcosa. La questione, per Vattimo, De Luca e ora Celestini è il diritto ad opporsi, anche trasgredendo leggi e ordinanze, allo sfruttamento di un territorio da parte di un intreccio di forti interessi politici ed economici che pretendono di agire nel nome di un discutibile «interesse generale». Nella sostanziale asimmetria di poteri che caratterizza la nostra società e la capacità di disporre della qualità delle nostre vite, è difficile dar loro torto.
De Luna, intervistato da «La Repubblica», si limita a ribadire il confine invalicabile tra violenza e non violenza, dimenticando, cosa che uno storico non dovrebbe fare, che la violenza praticata dai o nei movimenti è qualcosa che si produce e alimenta in un contesto relazionale in cui il potere costituito fa la sua parte e non la scelta arbitraria e onanistica di un singolo o di un gruppo. Come vorrebero lasciar credere quelli che dipingono la Val di Susa come una sorta di palestra per casseurs. Né dovrebbe dimenticare, lo storico, che diverse forme di sabotaggio fanno parte da sempre del repertorio dei movimenti pacifisti e non-violenti. Certo, c’è un problema di gradazione e di consenso, ma è un problema interno alla natura e allo sviluppo dei movimenti con tutti i suoi paradossi e le sue asprezze.
Ma la questione delle questioni la prende di petto il professor Cacciari che, a partire dall’esperienza della Val di Susa, ci rende edotti su cosa sia o non sia la democrazia. La Torino-Lione fa piuttosto schifo, dichiara alla «Repubblica», ma poiché è stata decisa secondo le procedure formali previste, bisogna farla. La democrazia, perbacco, non è una assemblea permanente! Che, nel fare questa affermazione, il professore avesse in mente la tragica fine della Comune di Parigi? La democrazia, invece, quella seria e duratura, sarebbe una sequenza di procedure che ti permette di opporti fino a quando la decisione è presa. Poi ci devi stare. Sparisce in questo discorso il fattore tempo, il mutare dei cicli economici, delle sensibilità e dei rapporti sociali, il progredire del sapere scientifico. E a nessun italiano si può andare a raccontare che le riforme istituzionali, il rinnovo delle procedure e un qualche ripristino della rappresentanza possano, non dico anticipare, ma neanche seguire da presso questi mutamenti. Restano, però, scolpiti nel marmo dei protocolli i poteri dominanti al tempo della decisione e l’obbligo di tutti a rispettarne la volontà. Ahimé, bisogna rassegnarsi, la democrazia è proprio un’assemblea permanente che si esercita però nelle strade poiché non vi sono «sedi opportune» in cui esercitarla. O, meglio ancora, una sequenza di conflitti che mira a render possibile ciò che nella sequenza delle «procedure» non troverà mai spazio.
di Marco Bascetta per Il Manifesto
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