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Dante e il ministro della propaganda

È stata cosa buona e giusta seppellire l’uscita del ministro della Cultura Sangiuliano su Dante («So di dire una cosa molto forte, ma penso che il fondatore del pensiero di destra italiano sia Dante Alighieri». E ancora: «quella visione dell’umano della persona la troviamo in Dante, ma anche la sua costruzione politica credo siano profondamente di destra») sotto una montagna di prese in giro, sfottò, irrisioni e meme di ogni tipo. Come reazione a caldo, non meritava molto altro. Ma, a qualche giorno di distanza e dopo la lettera autoapologetica che il ministro ha inviato al Corriere della sera, è invece il caso di tornarci su in modo serio.

di Tomaso Montanari da Volere la Luna

Sangiuliano definisce “provocazione”, la sua uscita. Ma a ben guardare è tutto tranne che un’uscita estemporanea, o campata per aria. Sangiuliano cita come prima fonte un saggio di Enrico Ghidetti sul Dante di Croce e Gentile, in cui si esamina la costruzione del mito dell’Alighieri come «epicentro ideologico della trattazione del principio di nazionalità». A seguire, una scarna antologia di citazioni relative al ruolo di Dante come padre della nazione. Infine, il sillogismo che sorregge tutto il ragionamento: «chi intende difendere l’identità nazionale, cioè i conservatori, non può non ritrovare in Dante Alighieri un antenato nobile».

Urgono tre considerazioni. La prima è che questo sillogismo è culturalmente falso. La seconda è che questo sillogismo è un’invenzione fascista, ed è dunque una spia che permette di tracciare senza equivoci la genealogia della ideologia del ministro. La terza è che, in bocca al ministro della Cultura della Repubblica italiana, esso è terribilmente improprio, abusivo, grave.

La prima. Ammesso (e per nulla concesso) che sia storicamente possibile individuare in Dante il padre di una idea di nazione italiana, si tratterebbe di una nazione per via di lingua, non certo per via di sangue, o di stirpe. E una nazione per via di lingua è, per definizione, aperta al meticciato tramite l’evoluzione della lingua. Come dimostra, per dirne una, l’enorme quantità di parole arabe, o francesi, impastate da Dante nel suo volgare. E senza dimenticare che l’idea di un Dante reazionario, pure presente (tra mille altre diverse) nella storia della critica, faceva perno proprio in una opposizione al decollo degli stati-nazione, in difesa di un’Italia plurale, e comunale. Tutto il contrario, dunque, della caricatura ipernazionalista odierna. D’altra parte, la difesa dell’identità nazionale, intesa come difesa di una presunta purezza etnica (culturale, religiosa, razziale…), si fonda su una costruzione dell’identità che violenta la storia, riscrivendola, tra parzialità e invenzioni, al servizio di una retorica del tutto contemporanea. Questa difesa è la continuazione peggiorativa – per così dire, la perversione – dell’invenzione di una «nazione come comunità naturale, fatta di legami parentali e di patrimonio territoriale, un retaggio che le appartiene da tempi immemorabili» (Alberto M. Banti) che fu funzionale alla lotta per l’unità nazionale. Una nazione per sangue e stirpe: etnica, insomma. Una nazione che rischia di non fare i conti con la storia (che è sempre incontro e mescolanza), o anzi di usarla ideologicamente. Quella descritta dall’inno di Mameli: intrisa di una retorica quasi razziale, e di una terribile mistica della morte. Un’idea di nazione che giunge al culmine distorsivo con il fascismo: «Oltre cinquanta milioni di italiani che hanno lo stesso linguaggio, lo stesso costume, lo stesso sangue, lo stesso destino, gli stessi interessi: una unità morale, politica ed economica che si realizza integralmente nello Stato fascista: ecco la nazione» (così La dottrina fascista, 1929). Per Mussolini, «l’Italia è una razza, una storia un orgoglio», e per il Manifesto della razza (1938) non ci sono dubbi: «Esiste ormai una pura razza italiana».

Come si vede, siamo decisamente arrivati alla seconda considerazione: quella sul Dante fascista. Qui c’è solo l’imbarazzo della scelta: nell’equivalenza totalitaria nazione-fascismo, Dante diventa il padre di entrambi. Fin dal 1921 Mussolini promette: «noi fascisti faremo in modo che tutti gli italiani abbiano l’orgoglio di appartenere alla razza che ha dato Dante Alighieri». Manterrà la parola, almeno quella, strumentalizzando il poeta con infinite citazioni, glorificazioni, monumentalizzazioni, tutte funzionali all’autoesaltazione. Si sprecano i libri intitolati alla coppia Dante e Mussolini, e la Società Dante Alighieri stampa manifesti con il ritratto del poeta, e con la frase del Duce: «La Dante riassume ogni idealità nazionale». Scrive Fulvio Conti (in Il Sommo italiano. Dante e l’identità della nazione, Roma, Carocci Editore, 2021): «Il fascismo ebbe gioco facile nell’ascrivere il poeta fiorentino fra i massimi simboli identitari della nazione e del regime stesso. Fin dal 1921 con la marcia su Ravenna degli squadristi guidati da Italo Balbo e Dino Grandi, in occasione delle celebrazioni del settecentesimo anniversario della morte, il movimento mussoliniano dimostrò inequivocabilmente di voler mettere le proprie mani su Dante e su tutto ciò che egli incarnava. E non è privo di significato che nell’aprile 1945, quando la Repubblica di Salò era prossima al crollo, Alessandro Pavolini, uno dei gerarchi rimasti più fedeli al duce, abbia addirittura coltivato l’idea folle di dissotterrare le ossa di Dante per portarle nel “Ridotto alpino repubblicano” della Valtellina e farne il nume tutelare dell’estremo sacrificio delle camicie nere». Di recente, il modesto catalogo di una mostra a … Predappio (Dante. Il più italiano dei poeti, il più poeta degli italiani, a cura di Franco Moschi e Piero Casavecchia, con contributi di Giordano Bruno Guerri, Vittorio Sgarbi, Marcello Veneziani…), con in copertina i profili di Dante e di Mussolini, ha riproposto il mito fascista, con toni scopertamente apologetici: «Per completare questa opera di sacralizzazione mancava solo la costruzione del “Danteum” un grande tempio dedicato al Sommo Poeta a Roma nel cuore della zona imperiale da realizzare in occasione dell’E42, l’Esposizione Universale del 1942. Questo ambizioso progetto avrebbe simbolicamente consacrato il fascismo a religione politica e sancito definitivamente il ruolo di Dante come nume tutelare della Nuova Italia. La Seconda guerra mondiale non consentì la realizzazione di questi progetti, ma ormai l’Alighieri era diventato un simbolo sacro del regime e la sua figura ne pagò le conseguenze in un lungo Dopoguerra che solo da pochi anni, grazie ad analisi e a riletture dell’opera e del mito di Dante prive di paraocchi ideologici, sembra essere finito». Mette appena conto notare che, naturalmente, la fortuna di Dante non si è affatto appannata in questo «lungo Dopoguerra», vale a dire nell’Italia liberata della Repubblica: ad essersi appannata, almeno finora, è invece la sua strumentalizzazione fascista. Ma è evidente che è questa la linea culturale, inconfondibilmente e fieramente fascista, che è riemersa nelle parole, solo apparentemente frutto di una improvvisazione, del ministro della Cultura del primo governo di matrice fascista nella storia della Repubblica.

E qua veniamo alla terza, e ultima considerazione. Quando nacque il governo Draghi (febbraio 2021), ebbi modo di notare che «una novità c’è: il nome del Mibact cambia, passando da “Ministero per i Beni e le attività culturali e il turismo” a “Ministero della Cultura”. Non è un cambiamento irrilevante. Nel momento in cui si tornava a scorporare il Turismo (ottima cosa, questa: anche se dovuta alla fame di dicasteri di un governo pletorico), ci si è ben guardati dal lasciare lo spazio al patrimonio culturale, così bisognoso di cura e attenzione. E si è preferita una dicitura suggestiva, quanto pericolosa: che lasciasse in ombra la tutela e promuovesse la retorica della cultura. In Italia, infatti, l’abbiamo avuto un Ministero della Cultura (Popolare): lo volle Mussolini nel 1937, e fu cancellato, grazie alla Liberazione, nel 1944. Era il simbolo del controllo del fascismo sulla cultura, sull’espressione, sul pensiero. E fu contro quella stagione orribile che la nostra Costituzione proclama che “Le arti e le scienze sono libere” (art. 33). Quando, nel 1974, Spadolini volle il Ministero alla cui poltrona è oggi incollato Dario Franceschini, lo chiamò (echeggiando riflessioni di Norberto Bobbio) «per i beni culturali» e non «dei beni culturali»: proprio contro quel genitivo che esprimeva un’idea di possesso e direzione della cultura. Ma oggi siamo nell’epoca della Netflix della Cultura e dell’Arena del Colosseo: l’epoca del Ministero DELLA Cultura DI Franceschini. Chiamiamolo pure Ministero della Propaganda». Mi sono permesso questa lunga citazione di me stesso, solo per dimostrare quanto fosse facile prevedere che quel nefasto cambiamento di nome avrebbe aperto la strada alla nascita di un Ministero non al servizio della cultura, ma che mettesse invece la cultura al servizio di un disegno politico, o ideologico. Il PD ha assolto, una volta in più, la sua tragica funzione di apripista della peggior destra, e quel rischio si è avverato fin troppo presto: il ministro Sangiuliano intende ora il suo ruolo come quello di un catechista ideologico al servizio di una dottrina ben precisa. Non c’è giuramento sulla Costituzione (antifascista) che tenga: il ministro – e, per quanto, gli riuscirà di orientarlo, il Ministero – non lavora per una cultura che favorisca il pieno sviluppo della persona umana, ma per l’egemonia culturale di una destra la cui matrice è fin troppo ostentata. Bene prendere atto per tempo.

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