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Dolcino e Margherita si ribellano ancora

di Nicoletta Dosio

I Dolciniani rappresentano i continuatori dei Fratelli Apostolici, una comunità attiva tra la seconda metà del 1200 8 il 1300, anno in cui il loro fondatore, Gherardo Segalello, fu arso sul rogo a Parma, condannato dalla Chiesa dei ricchi quale eretico assertore di uguaglianza e libertà.

Da quel rogo esce la figura e la militanza di Dolcino che, originario della Val Sesia, unitosi agli Apostolici già nel 1290, ne diventa la guida dopo la morte di Segalello, ripara in Trentino e rifonda, tra operai, contadini e montanari ribelli alle angherie dei ricchi, una nuova comunità, chiamata dei Dolciniani. A Trento si unisce a lui, fuggendo da una condizione benestante, Margherita, donna dolce e forte, che le cronache del tempo dipingono di rara intelligenza e bellezza.

Dolcino e i suoi compagni furono duramente perseguitati dal potere politico e religioso, perché, nello scenario dei movimenti ereticali, incarnavano in modo cosciente e pubblico i principi di un egualitarismo comunistico, con una pratica rivoluzionaria tale da contestare, nelle idee e nei fatti, ogni legittimità alle strutture ecclesiastiche e feudali.

A Trento, nel 1304, sono arsi sul rogo tre Dolciniani. La comunità dei Dolciniani, costituita da uomini, donne e bambini, è costretta a rimettersi in cammino per sfuggire alla morte. Sotto la guida di Dolcino e di Margherita, si riprende la via dei monti e si ritorna in Piemonte, a Gattinara, un’area di ripopolamento che accoglie contadini e artigiani senza vagliarne troppo le storie. A Gattinara Dolcino e i Dolciniani portano la propria abilità di tessitori e vignaioli, e probabilmente i vitigni delle uve trentine, per le cui varietà la zona è ancor oggi rinomata.

Ben presto le istanze di liberazione e di giustizia sociale legano l’esperienza dolciniana alle rivolte contadine della Val Sesia contro i vescovi-conti ed i feudatari. Ancora una volta perseguitati, si rifugiano nell’Alta Val Sesia, risalendola fino a Campertogno e stanziandosi su di un impervio altipiano chiamato la Parete Calva.

Nel 1305, contro i Dolciniani e le comunità montanare dell’Alta Valsesia viene proclamata l’ultima Crociata. Per sfuggire alla repressione, la collettività dolciniana è costretta a lasciare la parete Calva per spostarsi nell’alto Biellese, sopra Trivero. La tradizione popolare vuole che a partire per prima sia stata Margherita alla guida di anziani, donne e bambini, mentre gli uomini ingaggiavano un’estrema resistenza.

Con una lunga, faticosissima marcia attraverso luoghi impervi e selvaggi, Dolcino e i suoi si attestano sul monte ora denominato San Bernardo, ma che la voce popolare chiama ancora Rubello, il monte dei ribelli. S’intensifica la guerriglia, tanto che i crociati sono respinti e la prima Crociata fallisce.

A questo punto, il monte Rubello viene preso d’assedio dalle truppe di una seconda Crociata, che occupa militarmente la zona e, per impedire aiuti ai ribelli, evacua tutti i paesi della Valsesia e dell’Alto Biellese. L’inverno avanza; la collettività Dolciniana, pur ormai priva di viveri e di strumenti di difesa, nonostante la fame e il freddo continua a resistere. L’estrema resistenza è travolta nei primi mesi del 1307. Tra il giovedì ed il venerdì santo comincia il massacro: i crociati passano per le armi l’intera collettività senza distinzione di età né di sesso. I roghi degli eretici, dalla cima del monte Rubello, sono visibili per tutta la pianura.

Dolcino, Longino suo luogotenente e Margherita sono presi vivi, lungamente torturati nelle segrete del castello del Piazzo, a Biella, al cospetto del vescovo Ranieri. Solo nei primi giorni di giugno, vengono portati al rogo.

La cronaca di quei giorni ci viene riportata dall’Historia dell’Anonimo sincrono, testimonianza di parte papale, non certo indulgente verso i condannati:

“.Dopo tre mesi, Il Papa ordinò che i prigionieri, dal momento che avevano così tralignato, ricevessero il compenso loro dovuto. Allora il vescovo, convocati in gran numero prelati, religiosi, chierici e laici esperti di diritto, dopo aver deliberato secondo la prassi e con avvedutezza, consegnò al braccio secolare Dolcino, Longino e Margherita di Trento e questa fu bruciata per prima, su una colonna alta, posta sulla riva del Cervo e lì appositamente collocata perché fosse ben visibile a tutti.

Fu arsa alla presenza e sotto gli occhi di Dolcino. Successivamente questo e Longino furono collocati il cima a carri, con i piedi e le mani legati, affinché fossero visti da tutti e furono posti innanzi a loro bacili contenenti del fuoco per rendere incandescenti le tenaglie e bruciare loro le carni; una volta che i carnefici ebbero loro dilaniato con ferri incandescenti la carne e l’ebbero gettata a pezzi nel fuoco, furono fatti passare per diverse vie, cosicché la punizione fosse più pesante e più lunga (…)Tali pene furono comminate a Dolcino e a Longino in località diverse, vale a dire al primo in Vercelli, facendolo girare per le vie, i vicoli e le piazze della città tra i patimenti e le torture descritte; Longino a Biella. Tuttavia nessuno di loro, neppure Margherita “la bella”, volle mai convertirsi, né pregato o per denaro o per qualsivoglia altro modo, al Signore Gesù Cristo e alla vera fede cattolica. Ma così miserabili e pertinaci nella loro ostinazione e durezza di cuore morirono”.

Così la resistenza di Dolcino e della sua comune è soffocata dalla violenza del potere, ma non l’istanza di uguaglianza e di libertà che giunge, attraverso i tempi, intatta, fino a noi.

Allo stesso modo, vive per sempre, nell’immaginario popolare, il mito di Margherita, radiosamente giovane, dolce, ribelle.

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