Hip Hop Smash The Wall: intervista a Lucci, Kento e Gojo
Qui è inoltre possibile ascoltare l’intervista realizzata con Kento lo scorso 30 settembre ai microfoni di Parole Ribelli, su Radio Blackout:
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Come è nata l’idea di Hip Hop Smash The Wall e come sei stato coinvolto in questa iniziativa?
KENTO: Il progetto è stato ideato da Eleonora Pochi, attivista ed assistente sociale, con il supporto di Assopace Palestina. Noi artisti siamo stati coinvolto parecchi mesi fa, prima dei bombardamenti a Gaza ed in un momento in cui tirava un’aria molto tranquilla. Non ti dico che mi immaginavo una gita, ma la situazione del giorno in cui siamo saliti sull’aereo non era quella che ci aspettavamo quando abbiamo programmato il viaggio. Ma le premesse mi erano sembrate interessanti fin da subito: nonostante sia osteggiato dai gruppi religiosi più conservatori, l’hip hop ha un’ottima penetrazione sociale in Palestina, ed in alcuni casi molto recenti è stato addirittura usato nella terapia per il disordine da stress post traumatico.
LUCCI: Con Eleonora ci conosciamo da un po’ per via della sua attività di giornalista, un giorno mi ha chiamato per propormi questa cosa, io ci ho pensato molto, ma alla fine ho accettato.
GOJO: A me invece ne parlò verso settembre 2013, fui subito entusiasta dell’idea e l’aiutai a trovare le altre persone con cui partire.
Avevi mai avuto prima occasione di andare in Palestina o nei territori occupati da Israele?
L: No. Fa parte di quell’infinità di cose che avrei sempre voluto fare, ma non ne avevo mai avuto l’occasione prima. Non mi piace andare a fare il turista in posti e situazioni come quella, quindi per andarci ho aspettato di avere un motivo, un obiettivo.
K: Per quanto mi riguarda era la prima volta, ovviamente la coordinatrice del progetto ed un’altra tra i partecipanti (Giulia “Chimp” Giorgi) avevano avuto delle esperienze sul territorio. Ho cercato di documentarmi leggendo quanto più possibile e guardando documentari/reportage, ma l’esperienza sul campo ed il contatto con quel meraviglioso popolo è insostituibile, ed è qualcosa che mi sento di consigliare a chiunque voglia approfondire la conoscenza dell’area e del conflitto che la riguarda.
G: No mai, ma sono oltretutto uno che purtroppo viaggia poco. Adesso però mi sto organizzando per tornarci.
Come hai percepito questo viaggio in relazione all’ultima operazione di guerra a Gaza? Come ti sembra sia stato percepito dalle persone che avete incontrato?
L: Guarda, sai che questa cosa è strana? L’ho sentita come una cosa molto distante… Non ho avuto l’impressione di essere stato in una zona che ha appena vissuto un conflitto, vuoi per la distanza (siamo stati a Gerusalemme e Ramallah, quindi lontani dalla striscia), ma anche forse per una sorta di discrezione delle persone che abbiamo incontrato. A Gerusalemme ho respirato un clima strano. Una tranquillità molto tesa. Ma è indipendente dall’ultima operazione, è ormai una situazione stagnante.
G: Al progetto avrebbero dovuto partecipare anche dei ragazzi di Gaza, a cui non è stata data la possibilità di uscire dalla Striscia però, e abbiamo fatto a distanza con nostro rammarico. Quando arrivammo con l’aereo era notte, ma nonostante tutto si poteva chiaramente identificare Gaza…era una rientranza nera come il mare, circondata da un paesaggio illuminato dalle luci arancioni dei lampioni delle città israeliane…e in mare vedevi chiaramente delle luci delle navi israeliane ferme a bloccare l’accesso al mare…un’immagine tremenda che ti toglieva veramente qualsiasi voglia di cazzarare con gli amici e ti toglieva qualsiasi parola…la rivedemmo anche alla partenza.
Per me fu un’immagine costante a cui pensai diverse volte mentre ero giù…oltre tutte le notizie, gli attacchi furiosi che vennero fatti fino a poco prima del nostro arrivo, le migliaia di morti innocenti basati su una questione particolarmente dubbia…personalmente avevo perennemente in testa quell’immagine di Gaza dall’alto, che bastava e avanzava a spegnerti a farti sempre presente a quale grado di cattiveria può arrivare l’uomo.
K: Quando siamo arrivati, le macerie di Gaza erano ancora fumanti, ed è chiaro che era il principale argomento di conversazione tra le persone. La prima cosa che ho visto appena siamo arrivati a Ramallah era questo mucchio di scatole contenenti beni di prima necessità (scarpe, vestiti, acqua potabile) pronti a partire per la Striscia, e contrassegnate dal logo di una cooperativa di donne palestinesi. I bambini avevano decorato il tutto con disegni e cartelloni colorati, messaggi di amicizia e di incoraggiamento ai loro coetanei. Non mancano le criticità nel rapporto tra Gaza e Cisgiordania, con quest’ultima che è decisamente più laica e – agli occhi di alcuni – più occidentalizzata. I rapporti tra le forze politiche non confessionali e Hamas non sono sempre ottimi, ed alcuni “vecchi” combattenti della prima intifada mi hanno detto senza mezzi termini che loro si sono fatti gli anni di galera per una Palestina libera e socialista, non certo per costruire una teocrazia.
L’accoglienza da parte delle persone è stata ottima, non c’è stata alcuna incomprensione né problemi di ambientamento. Si tratta di un popolo mediterraneo, molto simile a noi anche dal punto di vista caratteriale e del comportamento. Poi tieni presente che il nostro era un viaggio semi ufficiale in quanto patrocinato dal comune di Ramallah, quindi tutti sapevano che eravamo “dalla parte giusta”.
In che modo avete lavorato insieme ai rapper e ai writer palestinesi?
L: Questa è stata la parte più bella della cosa. Immagina una cosa come 15/18 persone in una casa, ognuno con suo quaderno o pc, le sue cuffie e il beat…si è creata immediatamente un’atmosfera fantastica. Tutti siamo stati superproduttivi. Ogni volta ci si traduceva a vicenda la strofa, spiegando bene il significato dei testi. Un feeling immediato.
A livello logistico è stato un po’ complicato, per fortuna Chalet e Anan si sono occupati di tenere le redini, preparavano il piano di lavoro della giornata e dettavano i tempi e i turni per le registrazioni. Devo dire che ho trovato una professionalità altissima.
K: Per quanto riguarda il rap, ci siamo semplicemente chiusi in studio e abbiamo passato 4 giorni a scrivere e registrare insieme. Un po’ di lavoro organizzativo per scegliere i beat e le tematiche dei pezzi, ed il disco era fatto. Ci tenevamo a fare un lavoro completo, che comprendesse sia l’aspetto politico che dei momenti più leggeri. Al momento il tutto è in fase di mix e non vedo l’ora di sentirlo.
Per quanto riguarda il writing, c’era un bel muro a disposizione, su cui i simboli della lotta palestinese si sono affiancati a quella italiana: i nomi dei posti occupati, delle battaglie per la difesa dei territori…e ovviamente anche i nostri nomi.
I b-boys hanno fatto, secondo me, il lavoro più impressionante. È stata realizzata una coreografia che comprendeva virtualmente anche i ragazzi di Gaza a cui non è stato concesso di lasciare la striscia: quindi sono stati presenti con le loro immagini proiettate, ballando a tempo con chi era fisicamente sul posto.
G: Semplicemente stando assieme a fare quello che solitamente facciamo, ballare, dipingere e cantare. Progettando assieme le murate, le canzoni, il disco e gli street show.
Quali differenze hai trovato tra la scena hip hop palestinese rispetto a quella italiana ed europea?
L: Eh. Parliamo di due mondi a parte. In Palestina mi sembra che la cosa sia a livello embrionale. Nonostante Ramallah sia una città “openminded”, parliamo comunque di un paese con una forte spinta conservatrice. L’hip hop è visto come parte della cultura americana e quindi male. La cosa molto bella è che proprio per questa difficoltà è ancora una controcultura a differenza di quello che è diventato da noi. Conserva ancora quella spinta di ribellione, voglia di cambiamento e contenuti sociali che aveva il rap delle origini in America.
K: È una scena più giovane rispetto a quella di molti paesi europei, ma per certi versi più autentica. Mi sembra che anche gli mc più fissati con lo stile e la tecnica non si dimentichino del ruolo sociale che possono avere in quel contesto, e quindi più o meno tutti sono in grado di scrivere un testo serio ed interessante sull’occupazione. Lo so che sembra scontato, ma dubito che tutti i rapper italiani sarebbero in grado di scrivere una strofa di argomento politico/sociale che vada oltre lo slogan. Dal punto di vista del writing, soffrono un po’ per la difficoltà di procurarsi gli spray e i tappi, ma abbiamo riscontrato un’abilità di apprendimento impressionante, per cui i ragazzi più giovani si impadroniscono di una tecnica non appena la vedono eseguire. Grandioso invece il senso del ritmo dei b-boys, che uniscono in modo interessante la tradizione musicale locale con il breakbeat.
G: Io ho trovato molte meno persone che vogliono giocare a fare i criminali, ad esempio, e molte più persone con voglia di costruire qualcosa, insieme, e di stare uniti e bene. C’è molto poco esclusivismo, molto coinvolgimento, tutte cose che vorrei vedere anche a casa mia e che invece purtroppo non attecchiscono molto come idee…
Quale importanza credi che abbia la musica rap all’interno della lotta del popolo palestinese?
L: All’interno della lotta del popolo nella sua interezza forse poca o niente. Ma sui singoli individui che scelgono di abbracciare questa cultura credo abbia un importanza enorme. Questi ragazzi tramite l’hip hop sviluppano un tipo di approccio alla vita più libertario, più laico. E’ un tipo di apertura mentale che potrebbe portare su larga scala a grandi cambiamenti. La mia personale opinione è che la lotta del popolo palestinese perde un po’ di forza ogni volta che per l’inasprirsi della situazione guadagnano punti le fazioni più religiosamente radicali. I ragazzi che abbiamo conosciuto sono molto lontani da queste posizioni, e lo sono anche grazie all’hip hop. Sono le nuove generazioni che cambieranno le cose, e pensare che ci siano ragazzi come loro e che le loro idee grazie all’hip hop possano diffondersi mi fa solo ben sperare.
G: Il rap e i graffiti sono realtà coinvolgenti, riescono ad esprimere ma al contempo ad esorcizzare diversi mali sociali, divengono un mezzo con cui raccontare la lotta, il perchè della lotta, e al contempo alleggerirti dei pesi che ti porti dentro e per i quali lotti. Sono realtà non solo narrative ma altresì terapeutiche.
K: Sicuramente il rap è il genere che meglio di tutti interpreta il cambiamento sociale di oggi, e penso che sia la colonna sonora perfetta per questa lotta. Il fatto che il rap palestinese non piaccia né agli occupanti israeliani né agli integralisti religiosi è già il migliore indizio che si tratti di un fenomeno da supportare.
Pensate di riproporre il lavoro fatto in Palestina anche qui in Italia?
L: Ci stiamo lavorando, ma è un progetto costosissimo. Nessuno di noi comunque si lascia scoraggiare facilmente. Grazie ad Eleonora abbiamo formato una squadra molto forte.
K: È già attiva la pagina Facebook ed il fundraising per finanziare i prossimi passi del progetto. L’obiettivo immediato è l’uscita dell’album, poi ci sarà il documentario, ed infine il cerchio si chiuderà con le esibizioni degli artisti palestinesi in Italia.
G: L’idea sarebbe quella di portare qui ad esibirsi gli amici con cui lavorammo in Palestina, si. Ci stiamo già lavorando su questa questione…anche se prima stiamo cercando di rientrare innanzitutto dei costi del progetto già svolto li.
Vuoi aggiungere qualcosa sull’esperienza di Hip Hop Smash The Wall?
K: Si tratta di un progetto inclusivo ed aperto a chiunque voglia supportarlo. Tra le iniziative collaterali che stiamo per lanciare, ci sarà anche una raccolta di abbigliamento hip hop (ovviamente in buone condizioni) da far arrivare ai giovanissimi b-boys dei campi profughi, insieme ad attrezzature per la break dance, dischi ed altro materiale. Potete contattare la responsabile del progetto scrivendo a spreadhiphop@libero.it. Se volete parlare con me, mi trovate su Facebook, Twitter o mandando una mail a info@musicarivoluzione.com.
G: Non ho molto da aggiungere perchè ho sempre molti problemi ad esprimermi e a condensare le idee. Posso dire che è stata un’esperienza fantastica fatta con persone genuine, la mia principale paura era quella che il progetto potesse venir emulato prima della nostra partenza da persone più interessate a risultare loro che a relazionarsi con gli artisti locali: ne sono un esempio, a mio avviso, molte iniziative volte a dipingere il muro dell’apartheid alzato da Israele, vengono dipinte grandi opere con forti significati sociali contro la guerra, l’occupazione, la violenza e la cattiveria…ma vengono sempre fatti dalla parte palestinese del muro, dove la gente già ben conosce quelle realtà, in quanto le subisce, e oltretutto dipingendolo abbelliscono una realtà tremenda che non dovrebbe essere abbellita perchè altrimenti ti passa la voglia di voler abbattere quel muro per salvare il bel disegno che vi è sopra, come ha specificato Hamza Abu Ayyash – graffiti writer e artista di Ramallah che organizzò con noi il progetto – in questa intervista:
L: E’ stata un’esperienza meravigliosa. un progetto che merita di avere un seguito e crescere. Ringrazio Eleonora e Assopace. Ringrazio i miei compagni di viaggio per essere stati i migliori compagni di viaggio che potessi avere.
E invito tutti a sostenere il progetto qui
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