Impressioni da New York (pt.4)
Quarto contributo del nostro redattore da New York. La visione di alcuni differenti forme-video serve da pretesto per introdurre, da un punto di vista esperienziale, alcuni temi che faranno parte dei prossimi articoli con una forma più analitica, attorno alla questione del meticciato e delle lotte negli USA.
#4 Video
Inizio suggerendo la visione di questo suggestivo video:
New York Biotopes from Lena Steinkühler on Vimeo.
New York è anche immagine, brand, icona. New York è anche merce, urban marketing e pezzo di una produzione culturale globale. Chi non riconoscerebbe il suo skyline, nonostante non ci siano più le due torri? Chi non saprebbe elencare almeno un paio dei suoi oggetti architettonici? Chi non ha in mente il simbolo I <3 NY o non ha mai sentito parlare della “grande mela”? Chi non ha in mente almeno alcune delle centinaia e centinaia di libri, di canzoni, di video, di film ecc... che su ed in essa sono stati prodotti? Arrivare quindi in questa città è in qualche modo entrare in un universo che, almeno in parte, si presume di conoscere. Ovviamente non è così. Tuttavia c'è un qualcosa di simile ad una educazione visiva/cognitiva pregressa alla città che tende a rendere meno impressionanti di quello che potrebbero le immani distese di grattacieli, ad esempio. Ma non è di questo che intendo parlare. Vorrei in maniera assolutamente rapsodica e sconclusionata elencare alcune delle esperienze legate all'immagine video che mi sono capitate sinora, o più che altro parlare delle riflessioni laterali su di esse sviluppate.
Superbowl
Mai visto prima in vita mia. Tuttavia l’edizione di quest’anno era proprio a NY (o per meglio dire nel New Jersey, la sponda opposta a Manhattan dello Hudson river), e ho deciso di cercare un baraccio dove vederlo per la curiosità di scrutare in un pezzo di cultura americana per eccellenza. Il match era tra Danver e Seattle. Il profilo twitter di OccupyWS sosteneva che il 99% stava con Seattle. Vabbè… Tra l’altro su Occupy tornerò a scrivere in seguito. Fatto sta che proprio Seattle ha stravinto con un dominio costante. Al di là della partita, la cosa che mi ha fatto riflettere è stata soprattutto la pubblicità. E’ vero che non guardando mai la tv in Italia non posso fare un paragone effettivamente fondato sulla mia conoscenza di quella italiana, ad ogni modo alcune impressioni: sono tutti spot veramente ben fatti a livello grafico/di regia. I temi prevalenti: le macchine e la birra. Ed emerge con nettezza una grandissima spinta patriottica. Quello che però mi ha davvero colpito di questo avere continuamente le stelle e strisce davanti e richiami all’America ed ai suoi valori, è come ciò denotasse un nazionalismo assolutamente diverso da quello che possiamo pensare dall’Europa. Dallo spot della Coca Cola (molto raffinato: la Coca emerge solo tangenzialmente, dando però l’idea che appunto sia una parte scontata e ineludibile della vita del paese), ad una pubblicità della Chrysler il cui testimonial è Bob Dylan che evoca (sempre avendo come sfondo l’America) un immaginario tendenzialmente “di sinistra”: anni ’60 e ’70 come immagini, musica, libertà, lotte femministe ecc…:
L’idea che mi sono fatto è che il nazionalismo qui sia differente in quanto fondamentalmente “aperto” e “inclusivo”. Laddove in Europa esso richiama identità, tradizioni e storia comune, omogeneità territoriale ed etnica ecc… Quello che comunica questo nazionalismo è esattamente l’opposto. Immagino ciò sia dovuto soprattutto alla (breve) storia degli Usa, alla loro composizione etnica, culturale, religiosa ecc… estremamente eterogenea. Ma sono rimasto comunque colpito da come questo evento sportivo fosse un effettivo produttore di appartenenza nazionale, ma di una nazione in cui la sensazione è che “c’è posto per tutti”. Chiaramente per chi abbia una cultura un minimo critica le bombe a stelle e strisce in giro per il mondo e i confini sanguinanti del territorio americano ricordano che c’è molto altro. Ma è stata comunque una sensazione straniante.
Wolf of Wall Street
Nell’ultima sera di proiezione sono andato al cinema per vedere questo film di cui si è tanto parlato. Artisticamente un’opera indubbiamente molto bella. Prende e ti guida dall’inizio alla fine. Tuttavia la storia mi ha lasciato davvero una certa sordida rabbia uscito dalla sala. Lo sprezzo per la povertà, tra l’altro parecchio diffuso in Usa anche per le derivazioni che sostengono la giustezza della divisione di posizioni sociali in senso religioso, lascia davvero vogliosi di… Mi verrebbe quasi da dire violenza. Ma non è questo il punto. L’immagine che effettivamente spiega meglio il film è quando Di Caprio, dopo una riga di coca, guarda dritto nello schermo e dice: “Questa è la mia droga”. Lo zoom che inquadra la sua proiezione corporea verso il centone col quale aveva pippato, spiega tutto. Money. In un paese in cui la divisione tra ricchi e poveri è effettivamente una categoria parecchio usata, anche parlando per strada, i soldi restano un elemento imprescindibile per comprenderlo (chiaramente in un senso ampio, non immediatamente legato alla moneta che è anzi molto poco usata: si usano tantissimo le tessere per pagare anche pochi dollari). In molti sostengono, senza nessun giudizio etico/morale al riguardo, che effettivamente essi sono la spiegazione di come sia possibile che tutte queste genti differenti possano stare qui affiancate. Il denaro come collante sociale. La possibilità di farlo come prefigurazione che fa stare insieme. D’altronde Simmel (di gran lunga uno dei migliori “intellettuali” ad avere, già alla fine del XIX secolo, colto l’essenza delle trasformazioni contemporanee) dopo aver descritto il fatto nuovo della sua epoca come rappresentato dalla metropoli, aveva scritto un libro intitolato “La filosofia del denaro”.
Reflections Unheard: Black Women in Civil Rights
Un giorno ero nella Public Library di Brooklyn (che è veramente un altro mondo rispetto a quella di Manhattan dove ero stato in precedenza). L’interfono ad un certo punto ha annunciato la proiezione al piano terra di un docu-film col titolo di cui sopra. Qui si trova il sito del progetto e qualche spezzone:
http://reflectionsunheardfilm.com/
http://www.indiegogo.com/projects/reflections-unheard-black-women-in-civil-rights
Incuriosito sono andato a vederlo. Sostanzialmente parla della tendenziale marginalizzazione delle donne nere nei movimenti dei ’60 e ’70, “chiuse” tra il Black Panther Party e le femministe bianche, definite da una delle intervistate come “razziste”. Tra interviste recenti a protagoniste dell’epoca (alcune delle quali militanti del BPP, altre in organizzazioni femministe nere o internazionali) e immagini di allora, è stato un tuffo in un passato del quale in Italia spesso si ha solamente un vago eco. Vedere l’addestramento dei militanti (e delle militanti) del partito nero, baschi neri e bandiere blu; ascoltare le parole ed i ricordi di una storia che per chi ha in mente quegli anni in Italia, in cui l’immigrazione era esclusivamente interna sud-nord, non è nemmeno alla lontanissima paragonabile. E’ stato un altro dei tanti elementi che, pur dentro una storia “di parte”, fa rendere conto delle infinite differenze tra i contesti. Se dunque questo video è un bel documento che mostra con chiarezza uno di quei concetti molto “alla moda” oggi, ossia l’intersezionalità tra classe, genere e razza, tornato ai piani superiori finita la proiezione ho trovato sul sito del Guardian un articolo su questo video francese chiamato Oppressed Majority:
la cui versione sottotitolata in inglese ha avuto tantissime visualizzazioni. Dieci minuti effettivamente molto “divertenti” di un mondo in cui il rapporto tra i sessi è rovesciato in maniera speculare. Mentre, sempre sulle Black Panther, un ottimo documentario reperibile su Youtube è the Black Power Mixtape.
Ma a parte questa divagazione, quello su cui volevo chiudere la riflessione è che il docu-film è stato proiettato perché febbraio è “il mese della cultura nera”. Dunque c’è una proliferazione nella produzione di tradizioni e storia veramente significativa. D’altronde l’effetto che il portato culturale individuale ha all’arrivo in America è spesso quello di una sua ancora maggiore adesione ed estremizzazione. Così come oltre al 31 dicembre/1 gennaio a New York esistono molti altri capodanni (ho assistito ai festeggiamenti di quello cinese a Chinatown, mentre per esempio a settembre si festeggia quello ebraico -numericamente ci sono più ebrei qui che a Tel Aviv), l’invenzione delle tradizioni nazionali qui raggiunge livelli parossistici. Se si sa come tutte le culture nazionali e le loro simbologie siano frutto di una costruzione (mi ha sempre colpito come il Kilt, che tutti considerano uno storico indumento scozzese, sia in realtà l’invenzione di un imprenditore inglese che lo introdusse nel corso del ‘700), qui a New York basta dare uno sguardo a ciò che è presentato come italiano per farsene un’idea. Un solo esempio che mi ha fatto sorridere: al supermercato, tra le tante cose presentate come “tipiche italiane”, incontro sempre il “Pepperoni – traditional Italian delicatessen”. Una sorta di salame chiarissimo… Ne avete mai visto uno?
Ciò su cui viene da interrogarsi è l’idea propriamente newyorkese del melting pot, o sulla capacità attuale di questa società di mettere insieme differenti identità che tali rimangono. Un modello chiaramente differente da quello molto più in voga in Europa dell’integrazionismo, e comunque altro rispetto al multiculturalismo di marca inglese. Un argomento ampio e complesso, in cui la prospettiva del meticciato emerge a tratti ma sempre come posta in palio politica… Ci tornerò sopra nella prossima puntata.
Prima puntata: La città
Seconda puntata: Spazi e politica
Terza puntata: Elezioni
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