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In ricordo di Mauro Gobbini

Sergio Bologna

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Qual è stato il tuo percorso di formazione politica e culturale e quali sono state eventuali figure di riferimento nell’ambito di questo percorso?

Alla domanda risponderò con riferimenti a scelte molto personali e alle esperienze che ho condiviso con altri, per episodi e per fatti più rilevanti, come può essere appunto la ripresa delle lotte operaie a Torino, l’organizzazione del lavoro politico sia a Torino che a Milano e a Roma al di fuori delle organizzazioni tradizionali, partiti e sindacato. Personalmente, io mi sono aperto ai problemi sociali attraverso l’esperienza che ho fatto in Sicilia con Danilo Dolci, questo per me è stato l’inizio. Io ho fatto il liceo ad Arezzo, l’università a Roma e nel periodo finale degli anni del liceo e dei primi anni dell’università sono entrato in contatto, per vari motivi e attraverso Capitini, Calogero e altri, con questa esperienza che era appena cominciata di Dolci che era andato in Sicilia. Sono andato lì già nel ’54-’55 e da allora praticamente fino al ’62-’63 tutti gli anni passavo i miei due o tre mesi in Sicilia. Prima di allora non avevo avuto nessuna esperienza di lavoro né politico né sociale, non avevo fatto nessuna esperienza di tipo organizzativo. Quindi, i miei primi rapporti con la società civile sono stati rapporti quasi istituzionali, nel senso che essendo in Sicilia e facendo un lavoro sul territorio con queste popolazioni che vivevano nelle condizioni che ben sappiamo in quegli anni lì, ovviamente l’impatto è stato con le istituzioni pubbliche, le organizzazioni sindacali, di partito e via dicendo. In particolare quegli anni mi sono serviti per entrare in contatto con una dimensione per me fino allora sconosciuta non solo istituzionale, ma anche economica e sociale del territorio e del paese. Lavorando in Sicilia ho fatto per esempio le prime esperienze di analisi del territorio e delle condizioni di vita di singole popolazioni: mi ricordo che ho partecipato ad un’inchiesta che credo sia stata una delle prime, di poco successiva a quella su Orgosolo, sui pastori della Sardegna e che fu pubblicata da Nuovi Argomenti mi pare, e prima ancora di quella sugli edili a Roma. Dunque, facemmo un’inchiesta proprio sulle condizioni di vita della popolazione di un piccolo paese della Sicilia dove si faceva intervento diretto, che consisteva soprattutto nell’assistenza alle famiglie e ai bambini, si faceva doposcuola, assistenza paramedica ecc., proprio per mettere in moto questi meccanismi di socializzazione delle persone che nella realtà siciliana erano tra i problemi più grossi. Anche nelle comunità più piccole dove la conoscenza diretta tra le persone era sicura, c’era però sempre una specie di rigidità incredibile nei rapporti soggettivi, per cui c’erano livelli di “tolleranza” sia della violenza sia della povertà che erano assolutamente impensabili: per me, ad esempio, che venivo dalla Toscana e anche da Roma l’idea che delle persone e delle famiglie con bambini potessero vivere in quelle condizioni veramente da Terzo Mondo senza una forma di ribellione e di insubordinazione era una cosa straordinaria. In più, guardando questa realtà, era evidente il potere delle strutture pubbliche, a cominciare dalla Chiesa e via via poi fino ai partiti, il sottobosco degli enti locali, ecc. Fu la scoperta di un’Italia che era completamente diversa da quella che io conoscevo. La cosa importante, almeno per quello che riguarda la mia esperienza, è che la riflessione su questa condizione sociale, di vita delle piccole comunità agricole, di pescatori ecc., si sposò immediatamente con un discorso che andava in prospettiva verso il ragionare sulle condizioni della popolazione del Terzo Mondo: erano gli anni della conferenza di Bandung, gli anni in cui Myrdal pubblicava le sue ricerche sull’India. Quindi, diciamo che ci si trovò intellettualmente e culturalmente con Dolci e i suoi amici (che poi dirò chi erano) a mettere insieme per una riflessione più approfondita il discorso su quello che vedevamo e constatavamo in Sicilia e quello che poteva essere il corrispettivo a livello mondiale. Infatti, un altro dei momenti per me fondamentali è che in quegli anni con Dolci si cominciò a parlare di necessità di fare un’inchiesta sulle condizioni della popolazione siciliana (inchiesta a Partinico e poi a Palermo): per fare queste inchieste ci si rivolse, per avere anche un’indicazione di metodo, a quelli che allora erano i personaggi più illuminati, da Calogero per quello che riguardava il discorso generale fino agli economisti, Steve, Lombardini, Sylos Labini. Erano tutte persone con cui Danilo Dolci aveva un rapporto quasi costante di consiglio e di suggerimento, e furono anche le persone che lo sostennero a livello nazionale rispetto alla guerra che gli facevano le istituzioni. In Sicilia per quanto riguarda le istituzioni ho già detto della Chiesa, ma anche le amministrazioni vedevano questa attività di Danilo Dolci come una cosa assolutamente deprecabile e da bloccare: io mi ricordo che noi avevamo costantemente visite della polizia, perché allora c’era il problema dei permessi di soggiorno, le carte di identità, i vari documenti, insomma tutta una serie di vincoli e di freni incredibili. La cosa era tanto più pesante perché ovviamente venivano in Sicilia da tutta l’Europa, infatti questa è stata l’altra dimensione dell’esperienza, cioè che l’avere pensato di applicare allo studio e alla ricerca sulle condizioni di vita di questi paesi della Sicilia i metodi che venivano applicati dalla sociologia anglosassone ai paesi del Terzo Mondo comportò l’arrivo giù in Sicilia (nelle zone tra Peto, Partinico e via dicendo) di giovani ricercatori svedesi, inglesi, francesi e ovviamente vennero anche i torinesi, infatti io Mottura, Rieser, Soave li ho conosciuti lì. Questo avvenne esattamente nell’anno e mezzo che precedette il famoso convegno sulla pianificazione che si fece in Sicilia e che fu un evento culturalmente molto rilevante, perché allora praticamente la pianificazione era identificata con la pianificazione socialista e quindi l’idea che si potesse fare un discorso di intervento pubblico e di pianificazione al di fuori degli schemi del socialismo realizzato era assolutamente un dato inaccettabile. Questo convegno fu praticamente svolto sulla falsariga dello schema che aveva fornito Alfred Sauvy, demografo ed economista francese di cui proprio allora erano apparse le sue ricerche sulla crescita della popolazione mondiale e sui problemi dello sviluppo. Insomma, i due referenti a cui si guardava in quel momento per capire quali potessero essere gli strumenti per capire in maniera più generale quello che succedeva in Sicilia erano Myrdal e Sauvy. Ovviamente c’erano economisti italiani come Sylos Labini di cui mi ricordo che a quel tempo era uscito il suo libro sullo sviluppo e la tecnologia. Quindi, questa esperienza aveva sì risvolti di tipo assistenziale, alla maniera dei “medici scalzi”, ma aveva anche questa prospettiva meno riduttiva e aperta a conoscere quello che avveniva socialmente ed economicamente nel mondo.

Dunque, io mi sono formato così, cioè il mio primo impatto con il sociale – come si dice oggi – è stato un impatto in cui ci poteva essere il rischio del sociologismo e del pauperismo che, invece, il confronto con questi personaggi ha evitato. Vivendo a Roma e cercando di fare con Dolci, Calogero, Capitini ed altri un lavoro di promozione e sostegno dell’iniziativa di Dolci, sono entrato in contatto all’università con i compagni che poi hanno formato il gruppo romano dei Quaderni Rossi, soprattutto con Asor Rosa. Infatti, siccome io facevo Lettere, il primo incontro con Alberto avvenne proprio in occasione di una di queste presentazioni in facoltà dell’attività di Dolci per promuovere la conoscenza di questo lavoro e per trovare sostenitori, finanziatori e giovani volontari. Così sono entrato in contatto con questi compagni. Io non ero iscritto a nessun partito e lavorando con loro poi ho cominciato a frequentare tutti quelli del gruppo, Tronti, De Caro, Coldagelli, la Salvetti, la Di Leo e tutti gli altri. Loro in parte, almeno per quello che ne so io, si erano conosciuti all’università, il gruppo era cresciuto proprio nella relazione giovanile dello studio e dell’università, e poi molti di loro erano anche quadri di partito, o comunque erano intellettuali di partito, come Tronti, Coldagelli, poi più tardi Aris Accornero. In questa situazione ho conosciuto personalmente Panzieri: io di lui avevo già una conoscenza indiretta perché Danilo lo aveva incontrato più volte quando era stato in Sicilia come responsabile del Partito Socialista di allora. Poi, ovviamente avevo letto le cose che scriveva sulle riviste del PSI e della sinistra. L’esperienza dei Quaderni Rossi io l’ho vissuta in parte più come osservatore che come attore, perché intanto le discussioni che seguivo a casa della Rita Di Leo quando Panzieri veniva a Roma mi interessavano moltissimo dal punto di vista culturale, ma, data la mia esperienza siciliana ancora così viva, pratica e concreta, non riuscivo a vederne molto il lato politico pratico. Poi per me, ma credo per la gran parte di noi che vivevamo a Roma, la presenza e il peso in questa città della classe operaia era difficile valutarlo. Tanto è vero che poi i Quaderni Rossi sono nati pensando a Torino, non pensando alla Fatme o agli edili di Roma: che poi queste fossero realtà operaie, sociali, di classe è un altro discorso, però di fatto, volendo quella esperienza dei Quaderni Rossi indicare una via di uscita dalla rigidità del Movimento Operaio organizzato tradizionale e la ripresa delle lotte, il punto di riferimento per tutti quanti noi era il punto più alto dell’organizzazione capitalistica. Questo discorso allora era pacifico, era lì che bisognava agire, Lenin in Inghilterra diciamo.

Questa esperienza dei Quaderni Rossi, dal punto di vista proprio del laboratorio scientifico, l’ho vissuta più come testimone delle discussioni, tanto è vero che io non vi ho mai scritto niente, avevo fatto solo quando ero a Milano delle note per le Cronache dei Quaderni Rossi. Infatti, io allora da Roma ero andato a Milano perché nella mia vicenda privata a Roma per un po’ di anni avevo insegnato storia e filosofia, poi dopo, per ragioni anche di sopravvivenza, ho fatto un concorso e sono andato a lavorare alla Rai di Roma da dove ho chiesto il trasferimento a Torino, proprio per la prospettiva del lavoro con i compagni torinesi. Invece mi mandarono a Milano e infatti la mia esperienza di tipo politico, operaista e autonomo, è stata divisa tra Milano e Napoli. Dal ‘63-’64 fino al ’70 a Milano e dalla fine del ’70 a tutto il ’74 a Napoli. Quindi la mia esperienza politica più personale e profonda è cominciata a Milano attraverso la conoscenza e l’amicizia con i vari compagni che operavano sia a Torino che a Milano; qui c’erano Pierluigi Gasparotto, Giairo Daghini, Neri, poi c’era il gruppo di Como. A Milano io ho fatto proprio l’esperienza di lavoro politico di base, di fabbrica, nel senso che con Pierluigi, con gli altri, con lo stesso Romano che per un periodo ha fatto la spola tra Torino e Milano, abbiamo messo in piedi l’intervento in alcune situazioni che allora erano essenzialmente l’Alfa Romeo di Portello (Arese ancora non c’era), l’Innocenti che era già in crisi, la Pirelli di viale Sarca, la Siemens, la Bianchi di Desio, la Snia Viscosa, eccetera: lì appunto il lavoro è stato proprio quello di base. A Milano noi facevamo un lavoro di presenza continuativa e giornaliera davanti a queste fabbriche, successivamente poi anche alla Farmitalia, dove c’erano dei quadri tecnici che poi sono entrati dentro Classe Operaia, come Alberto Forni. Noi intervenivamo lì, la nostra linea politica nasceva da una riflessione critica sulle proposte sindacali e sulla linea politica del partito, e soprattutto dalle discussioni dirette con operai e impiegati che contattavamo ogni giorno. Quindi ci siamo trovati a discutere le ipotesi politiche e le analisi di Tronti, di Romano e degli altri contemporaneamente al fatto che volevamo mettere in piedi o mantenere un intervento in queste situazioni operaie. Mi ricordo che c’era un problema che cercavamo tutti quanti di risolvere, anche se poi è una cosa che non ha mai una soluzione definitiva: noi dovevamo riuscire a mediare il discorso della presa del potere, di Lenin in Inghilterra, con un discorso di intervento quotidiano con una classe operaia che si capiva che si muoveva, che non era sempre la stessa, che un giorno condivideva o perlomeno ci sembrava che capisse il discorso che noi proponevamo attraverso i volantini, e invece questa presenza del partito e del sindacato che comunque in quelle situazioni di fabbrica rappresentava una resistenza molto forte.  Noi avevamo proprio il problema di trovare una mediazione e una via per legare questa idea dello sviluppo della forza della classe operaia e l’intervento quotidiano. Si tenga sempre presente che noi, almeno per quello che mi ricordo, non abbiamo mai pensato che il salto potesse essere la fondazione di un nuovo partito. Per noi l’organizzazione della lotta di classe, dell’insubordinazione doveva avere caratteri pratici nel momento in cui effettivamente avveniva la lotta, ma nessuno mai ha pensato che avremmo dovuto creare una struttura con segretario, responsabile ecc. Poi nella pratica c’era il compagno che coordinava l’intervento alla Pirelli, un altro che coordinava quello all’Alfa Romeo, nella pratica queste cose qui si danno, ma questo non è stato mai un riferimento per un’idea di organizzazione di partito. Quindi, avendo questa esperienza a Milano, stando dentro a questo tipo di lavoro, ovviamente la cosa a cui ho più direttamente partecipato è stata proprio la costruzione del nucleo di Classe Operaia. Effettivamente c’è stata anche una crescita dell’esperienza politica e di intervento, perché a Torino si sono aggiunte realtà lavorative di altre città e situazioni di sfruttamento. Durante il periodo dei Quaderni Rossi, perlomeno dei primi, pare quasi che il discorso sia tutto rivolto esclusivamente su Torino, la Fiat e l’Olivetti; solo successivamente, appunto con Classe Operaia, il discorso si allarga e allora c’è Milano, c’è Roma, Genova e poi c’è soprattutto il polo veneto. Infatti, l’arrivo del gruppo veneto all’interno di Classe Operaia, anche se già aveva avuto le prime avvisaglie con i Quaderni Rossi, ha significato per essa un ulteriore sviluppo in maniera completamente diversa dal precedente, tanto è vero che quando Classe Operaia è morta, sono nate le esperienze specifiche dell’area veneta, è nato Potere Operaio. Fino a Classe Operaia l’egemonia della Fiat, come punto di analisi e di riferimento era indiscussa, quella era la realtà a cui dovevamo guardare, su quella dovevamo misurare l’efficacia dell’intervento. Con l’arrivo dei veneti e del polo di Porto Marghera questo “monopolio” si infrange, il discorso si allarga, tanto è vero che poi comincia a venire fuori il discorso sul territorio, sul piano del capitale che si inventa altre forme di sfruttamento a livello planetario, altri modi di controllare la dinamica salariale, eccetera. Queste cose qui secondo me nascono proprio dalla rottura di questo schema rigido iniziale che era centrato sulla Fiat. E non è un caso che Romano, per esempio, dal punto di vista dell’analisi della situazione di classe generale, rimane un punto di riferimento, ma è un po’ appartato rispetto ai vari Magnaghi, Cacciari, Toni Negri.

Questo avviene proprio verso la fine degli anni ’60 e inizio anni ’70, quando a Milano nelle realtà di fabbrica in cui noi stessi si interveniva erano cominciate ad affiorare le situazioni di organizzazione alternativa ai sindacati e al partito, i famosi collettivi. In quel periodo io sono stato trasferito a Napoli, per ragioni politiche, perché avevamo fondato il primo comitato di base dentro la Rai, l’industria della formazione come già allora la chiamavamo. A Napoli sono stato quattro anni, dal ’70 al ’74, e lì ho vissuto la parabola di Potere Operaio, il mensile, il settimanale, il quindicinale, e Napoli era la città più industrializzata di tutto il Meridione. Mi ricordo per esempio che lavoravo alla Rai che è a Fuorigrotta, quindi praticamente a due passi da Bagnoli, e noi per circa un anno e mezzo, un giorno sì e uno no (io poi ero nel consiglio di azienda) ricevevamo le delegazioni degli operai. E lì, in quella fascia del golfo di Pozzuoli c’erano fior di fabbriche siderurgiche, chimiche e metalmeccaniche come l’Italsider, la Sofer, l’Olivetti, e sull’altro lato, verso San Giovanni al Teduccio, c’erano le altre fabbriche petrolchimiche e soprattutto, dai primi anni ’70, c’era l’Alfa Sud. Quei quattro anni li ho vissuti come uno sfrangiamento del lavoro e della riflessione politica che avevamo fatto con molto rigore sia con i Quaderni Rossi che con Classe Operaia. Si andò infatti verso un tipo di riflessione politica che guardava più all’egemonia del gruppo che non alla volontà di capire esattamente come stavano le cose. Infatti, mi ricordo che c’erano penose discussioni con Lotta Continua, con frazioni e con singoli militanti, e poi le divisioni all’interno dello stesso Potere Operaio, per cui c’era Potere Operaio di Marghera, quello di Roma, di Bologna, di Napoli e poi dentro ad esso c’erano quelli che erano d’accordo con Roma e quelli che erano contrari: insomma, se uno dovesse non dico dare dei giudizi ma comunque esprimere delle valutazioni su quello che stava succedendo, bisognerebbe dire che si stava distruggendo tutto quello che avevamo costruito come gruppo politico di intervento in fabbrica e sul territorio. Quello che è avvenuto dopo aveva le premesse in quegli anni lì. E’ vero, io sono convinto che dentro Potere Operaio, anche nelle aree più estreme, non c’è stata mai l’idea della lotta armata come pratica di avanguardia, come poi è stato accusato: mentre è vero che c’era un impoverimento dell’analisi di quello che avveniva, il che era distante anni luce dal rigore con cui alcuni compagni avevano riflettuto su quello che succedeva nella classe operaia negli anni torinesi dei QR e in quelli milanesi di Classe Operaia. Ovviamente questa deriva organizzativa dei gruppi ha pesato sulla serietà della riflessione e sulla pratica dell’intervento in fabbrica e sul territorio. Siamo approdati ad un concetto di classe operaia approssimativa generica che non ci ha aiutato a capire la rivoluzione del lavoro e del capitale che avveniva proprio in quegli anni. Poi, certo, le istituzioni (partito e sindacato) erano finite come sono finite, però diciamo che forse questa caduta verticale è dovuta più a un processo che si è svolto oggettivamente al di fuori delle nostre iniziative, che non per via di queste; io penso che noi non siamo riusciti a rendere efficace il movimento antagonista rispetto a queste cose, perlomeno non gli abbiamo dato continuità. Ci sono stati sicuramente dei momenti in cui abbiamo capito lo sviluppo dell’antagonismo dentro il sindacato, fuori dal partito e anche dentro di esso, ma questo antagonismo a un certo punto è andato avanti da solo, noi lo abbiamo solo cavalcato.

 

Quando hai cominciato l’intervista hai detto che ti sei riferito soprattutto alle esperienze fatte collettivamente: all’interno di Classe Operaia quali erano i processi per cui la capacità di elaborare questa sintesi di comprensione ma soprattutto politica si dava in termini collettivi?

Avveniva per una ragione secondo me pratica. Io parlo di Milano perché era la realtà dove vivevo: lì c’erano dei compagni che intervenivano nelle realtà di fabbrica della città, poi c’erano quelli che intervenivano a Como e nel comasco, dove c’erano la Ignis e altre fabbriche. Questi compagni si riunivano settimanalmente, a volte ci si riuniva anche due o tre volte a settimana, si discuteva, ci si riferivano le impressioni, le osservazioni, i colloqui che avevamo avuto con quadri sindacali che magari erano più aperti, con operai, si diceva qual era la situazione, si discuteva la traccia di accordo sindacale che veniva presentata: si faceva un lavoro molto pratico, cioè se c’era la lotta alla Pirelli perché volevano modificare l’accordo sul lavoro notturno o i turni, allora noi discutevamo quelle cose lì. Prima di tutto si assumevano le informazioni dirette, quindi attraverso colloqui con gli operai, si discutevano queste cose, si cercava di capire qual era la logica che stava dietro a queste iniziative del padrone, cioè perché i turni, perché il lavoro in quelle macchine veniva organizzato in quel modo piuttosto che in un altro. Voglio dire che non c’era il compagno che diceva “allora, l’ordine del giorno è questo…”: no, ci si trovava, si discuteva e poi si decideva e si coordinavano anche gli interventi. Purtroppo non ho più i volantini, ma mi ricordo che una volta che li avevo messi da parte e che mi era capitato di riguardarli un po’, ho visto che c’erano gli interventi in contemporanea in alcune fabbriche milanesi che riportavano non le parole d’ordine generali, tipo “no al sindacato” o “no al contratto”, ma riportavano delle analisi e delle osservazioni precise rispetto proprio alla dimensione del lavoro e rispetto all’iniziativa operaia che si doveva prendere in quella situazione specifica. Quindi, diciamo che la dimensione collettiva del lavoro nasceva dal fatto che si partiva da una considerazione se si vuole banale e povera che era di escludere ogni inutile polemica con sindacati e partiti e di sviluppare, invece, una linea politica autonoma, ritenendo che all’interno delle situazioni operaie e proletarie ci fossero sufficienti elementi, energie e prospettive per darsi obiettivi concreti senza dover partire dal solito “contro il partito”, “contro il sindacato”, che era la posizione di Lotta Continua, di Avanguardia Operaia, eccetera.

 

Analizziamo criticamente questi percorsi. Da una parte c’è Classe Operaia: quali sono stati i limiti e le ricchezze dell’esperienza nel suo complesso e delle posizioni che in essa si sono confrontate e anche contrapposte? Dall’altra parte ci sono i percorsi successivi: Tronti dice che c’è una cesura netta tra quello che lui definisce l’operaismo politico, ossia quello dei Quaderni Rossi e di Classe Operaia, e quello che c’è stato dopo, in particolare Potere Operaio che è quello che ha maggiormente rivendicato una linea di continuità con l’impostazione operaista. Tu hai già individuato alcuni elementi di continuità e altri invece di discontinuità: secondo te tra le due fasi c’è una cesura netta oppure no?

Tra Classe Operaia e Potere Operaio la cesura non è stata  subito netta, lo è diventata. Se non mi ricordo male, Potere Operaio nazionale è nato come iniziativa dei veneti, che sono venuti a Milano, hanno portato addirittura dei quadri, come Emilio Vesce, con l’idea che bisognava rimettere in piedi un intervento operaio, nelle fabbriche, e quindi è nato Potere Operaio con questa prospettiva di discorso nazionale e non solo veneto. Prima che nascesse questa esperienza, c’è stata una specie di sfilacciamento, cioè la fine dell’esperienza di Classe Operaia è stata netta nel senso che a un certo punto  non è uscito più nessun altro numero e quindi quell’esperienza è finita;  però, i rapporti tra i vari Tronti, Negri, Cacciari ed altri  sono continuati, tanto è vero che hanno dato vita a riviste di vario tipo. Voglio dire che ci sono state nel mezzo tante cose che hanno in qualche modo seppellito o perlomeno hanno reso distante l’esperienza più rigorosa dei primi Quaderni Rossi e di Classe Operaia. Quando abbiamo cominciato ad avere a Milano gli interventi dei vari collettivi, dei gruppi extraparlamentari che avevano fatto dell’opposizione al partito e al sindacato il vero e unico obiettivo, a quel punto lì c’è stato secondo me un cambiamento proprio genetico della linea politica. Forse mi sbaglio, non lo so, io non ho mai fatto vita di partito, ho fatto attività sindacale quando già ero dentro Classe Operaia e Potere Operaio, quindi come iscritto, solo a Napoli poi sono stato attivista sindacale, ma allora essere quadro sindacale a Napoli era come essere extraparlamentare a Milano, la realtà era questa. Dunque, non avendo io vissuto l’appartenenza all’organizzazione, non ho mai capito perché nel lavoro politico che si voleva fare ci fosse sempre qualcuno che metteva avanti il discorso contro. Negli anni ’50 sia la CGIL e il Partito Comunista erano degli ostacoli veri rispetto al cambiamento; però, siccome noi ci muovevamo fuori dall’ottica di costruire un’altra organizzazione e invece nell’ottica di capire meglio la realtà, quello che avveniva, e di riuscire a costruire e comunicare questa comprensione a livello di base, quindi con un rapporto e uno scambio continui, questa guerra contro le organizzazioni non aveva molto senso. Invece, a un certo punto le cose cambiano con la nascita di Potere Operaio e poi con l’arrivo dei romani e soprattutto dei bolognesi: ma su questo uno dovrebbe fare un certo discorso a parte, perché a Bologna è vero che c’era il PCI che era una specie di cappa, però è anche vero che a Bologna c’erano i socialisti, a cominciare da Piro, che prima era anticomunista e poi, ma molto molto dopo, era antidemocristiano. Allora, con queste anime spurie rispetto all’obiettivo che si diceva di voler perseguire, che era quello appunto di rompere il fronte padronale capitalistico, di liberare la classe operaia da queste sovrastrutture organizzative e via dicendo, a quel punto lì è successo un quarantotto: le cose sono finite come si sa, ognuno poi  se ne è andato per conto suo, sono nati  gruppi, gruppetti,  più o meno segreti, ci sono stati episodi vergognosi anche all’interno dei nostri gruppi, dico vergognosi a ragion veduta, nel senso che ci sono state delle forme di cattiveria, di violenza nei confronti di compagni che fino a ieri facevano parte dello stesso gruppo, rivalità meschine, io le ho viste. Questo ha indebolito tutto, per cui è finita proprio quella che era la ricchezza delle analisi, del tentativo di capire, del discutere insieme, ed è diventata la povertà del decidere quello che si doveva fare e chi doveva decidere. Certo, l’esperienza del Veneto è diversa, come è diversa quella di Torino: in tutte le situazioni dove c’era una realtà sociale, di fabbrica e operaia forte, l’impoverimento del lavoro politico è stato in qualche modo frenato, nel senso che la realtà della Fiat è talmente grossa che, malgrado tute le miserie dei vari interpreti, questi non hanno scalfito minimamente l’importanza e il peso di quella realtà politica.

 

Nel suo complesso quali sono stati i limiti e le ricchezze di Classe Operaia e delle varie posizioni che in essa erano presenti?

Siccome in quel tempo stavo da poco a Milano, facevo un po’ da postino, venivo spesso a Roma, mi vedevo con Tronti, e dunque ho avuto modo di vedere come i romani valutavano il nostro intervento nelle fabbriche e l’esperienza di Classe Operaia. Il limite di Classe Operaia è stato che a un certo punto l’analisi della situazione di classe, così come era stata fatta da Tronti,  non ha trovato più sbocchi: in fondo l’analisi di Tronti, il discorso che lui ha fatto sul primato della classe operaia e via dicendo, era nata attraverso la riflessione indotta credo soprattutto dalle analisi di Romano Alquati, indotta propria dal referente Fiat. Cioè, con Classe Operaia si è esaurita la forza attrattiva di questo punto di partenza della dimensione teorico-pratica. Infatti, si potrebbe anche vedere quali erano i luoghi di intervento durante i primi due anni, quando è vissuto questo legame tra i compagni di Roma, Torino, Milano ecc. nei Quaderni Rossi, e poi, invece, quando nasce Classe Operaia, dove sono i luoghi di intervento: c’è una crescita proprio esponenziale, là erano l’Olivetti e soprattutto la Fiat, qua sono altre realtà. Porto Marghera significa non soltanto la grande fabbrica, i grandi porti, significa  il territorio. Le riflessioni sulla fabbrica e il territorio Romano le aveva fatte al tempo della ricerca sull’Olivetti, però quella in un certo senso era vissuta come un’analisi che aveva messo un punto fermo e basta. Con Classe Operaia le soggettività esplodono, nel senso che si moltiplicano e si diversificano i quadri che intervengono e che comunicano tra di loro, perché non dico che la nascita di Classe Operaia abbia fatto aumentare il numero dei compagni che intervenivano nelle fabbriche, ma è vero che la nascita di Classe Operaia ha portato un certo numero di compagni a conoscersi, a scambiarsi le informazioni e a costruire insieme lotte per cambiare lo stato delle cose. Le soggettività poi emergono in questo modo qui, c’è qualcuno non che dà il là, ma che riesce a esprimere qualche cosa e in quel momento altri si riconoscono in quello che lui ha espresso. Allora, ci furono i primi interventi che facevamo in queste fabbriche che erano rimaste non dico abbandonate, ma avevano una presenza saltuaria del sindacato che si presentava all’ultimo momento con il solito volantino per il rinnovo del contratto. Fu importante il fatto che davanti a queste fabbriche tutti i giorni ci andavano decine di compagni, perché poi erano questi i numeri, non è che fossimo solo due o tre, sarebbe stato diverso. Bisognerebbe andare a vedere, quanti volantini si davano all’Alfa Romeo di Portello. Noi ne davamo dai due ai tremila: c’è anche un aspetto materiale che dà il senso delle cose, stavi lì, ci si andava a tutti i turni, compreso quello di notte. Quindi, questa esplosione dell’intervento e dunque l’emergere di soggettività da territori che fino allora erano stati ignorati, ha secondo me costituito la ricchezza di Classe Operaia ma ne ha anche determinato il limite. Perché a quel punto lì la riflessione teorica che si era svolta non era più in grado di mettere insieme queste cose: finché parlavi dell’operaio Fiat si trattava di un rapporto tra l’analisi e la realtà che sembrava quasi banale, era proprio automatico, c’era una specie di automatismo fra un’analisi teorica e una rappresentazione pratica di quello che tu dicevi. Quando insorgono tutte queste situazioni perché l’intervento si moltiplica e si intrecciano soggettività ed esperienze diverse e in maniera positiva, a quel punto lì quell’analisi che era stata fatta prima non regge più, cioè non riesce a costituire una lettura condivisibile per tutti quanti, e infatti poi si moltiplicano le esperienze, si moltiplicano le letture, e allora poi si comincia a parlare del territorio, della fabbrica diffusa e tutte queste cose qui che dal punto di vista teorico sono cose positive, nel senso che hanno dato ragione di riflessioni e di ipotesi, però di fatto soggettivamente hanno anche determinato il superamento dell’esperienza. A questo punto, però, per non dare l’impressione di un  fallimento dell’esperienza di cui parliamo, bisognerebbe  ricostruire il lavoro di tessitura dei rapporti con i compagni tedeschi, francesi, inglesi e americani. E’ un capitolo molto importante  dell’esperienza di Classe Operaia e del primo Potere Operaio,  forse quello che ha continuato a dare frutti di analisi  e letture del presente fino ai nostri giorni. E’ dentro questa esperienza che si sono sviluppate le tesi sul lavoro, sul salario, l’operaio massa e il nuovo internazionalismo.

 

De Caro e Grillo avevano una posizione critica all’interno di Classe Operaia, che poi espressero anche in un ciclostilato che fecero nei primi anni ’70. Questa cosa emerge anche dalle interviste che stiamo facendo: risulta anche a te?

E’ un particolare che non ricordo. Di Enzo ho perso le tracce da  quando sono andato a Milano. So che lui e Gaspare erano molto amici, lavoravano tutti e due all’Enciclopedia Treccani. Di Gaspare posso dire che c’è stato un momento di grande partecipazione in concomitanza con le lotte alla Fiat; mi ricordo che abbiamo fatto un viaggio tutti quanti assieme a Torino per questa grande riunione per decidere dell’intervento massiccio alla Fiat e in essa era venuta fuori anche l’ipotesi che Mario andasse a lavorare all’Einaudi e probabilmente anche Gaspare  e comunque c’era questa idea forte che l’esplosione della Fiat potesse essere il segnale di qualche cosa di grosso. Si può dire che l’esplosione della Fiat avviene  dopo le grandi crisi a livello internazionale del movimento operaio, come il ’56. C’era quell’universo di riferimento che era il comunismo mondiale, il socialismo realizzato, al quale nessuno di noi aveva mai dato importanza: mi ricordo che ero in Sicilia quando è avvenuto il ’56, ero con Giovannino Mottura a Bisacquino, un paesino sperduto dentro la Sicilia, e l’arrivo dei carri armati sovietici non ci aveva sorpreso, nel senso che davamo per scontato che, come del resto gli Stati Uniti, per mantenere integro il proprio impero avrebbero represso e ammazzato chiunque e dovunque. Quindi, l’esplosione della Fiat era in concomitanza con questa che sembrava una crisi aperta a livello internazionale, la crescita dei movimenti che si opponevano sia agli Usa che all’Unione Sovietica, i paesi non allineati: in questa cornice internazionale, anche all’interno di un paese sicuramente subordinato come l’Italia, un’esplosione come quella sembrava che potesse segnare veramente l’inizio di un rivolgimento generale. Ma non fu così, si  cominciò a guardare con meno fiducia all’analisi condotta da Tronti sulla classe operaia e fu l’inizio di una critica che poi diventò radicale. Perché a un certo punto i compagni come Gaspare, ma anche altri, io stesso, vedevamo male questo doppio binario, cioè stare con Classe Operaia e stare dentro il partito: obiettivamente questa militanza nel partito e questa militanza nel movimento ci sembravano una cosa troppo difficile da digerire, e credo che Gaspare abbia a un certo punto pensato anche questo. L’ho visto più di un anno fa. Dell’esperienza dei Quaderni Rossi e di Classe Operaia dà  un giudizio  molto negativo, dice che lì si sono accese delle speranze, si sono avviati dei discorsi, ma poi si è ripiegato tutto nella mediazione, fino all’opportunismo personale. Poi però, al di là di questo aspetto che può essere un fatto di emotività, di disillusione, credo che non  abbia più condiviso  l’analisi di Tronti sul  rapporto tra organizzazione e classe operaia. Lenin in Inghilterra non era vero, tant’è che non c’è stato. Sono state delle forzature che potevano essere capite e condivise nel momento in cui c’era questa speranza e questo rapporto comune; quando si è continuata l’analisi mantenendo questo rapporto con il vecchio che si voleva distruggere, a quel punto c’è stato il distacco, la rottura. Ma a proposito di Gaspare vorrei aggiungere alcune cose che ritengo molto importanti per chi volesse ricostruire il quadro culturale di quegli anni. Gaspare alla Treccani coordinava l’iniziativa, che lui stesso aveva promosso, di due collane di testi di storia economica e politica. I testi che sono usciti sono di grande importanza per lo studio della società borghese e capitalista. Vi cito solo alcuni nomi di autori: Kelsen, Keynes, Ricardo, Calhoun, Walras, Myrdal, Deleuze e Guattari. Di Walras Gaspare curerà in particolare, oltre che  l’Introduzione alla questione sociale, gli scritti in due volumi di Economia monetaria con un saggio introduttivo fondamentale. Ma di questo lavoro non trovi quasi traccia nelle riviste e negli scritti di vecchi compagni di QR, Classe Operaia e Potere Operaio.

 

da Commonware

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