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Sciopero: tra necessità e ritualità.

I sindacati di base hanno chiamato a uno sciopero che vedrà delle mobilitazioni territoriali per venerdì 2 dicembre per poi confluire in una manifestazione nazionale a Roma il giorno successivo.

I temi principali saranno l’opposizione alla guerra, i salari e il carovita con tutte le articolazioni che ne conseguono, dalla crisi energetica agli aumenti generalizzati. Il governo Meloni è indiscutibilmente uno dei responsabili della fase che si sta attraversando, ben chiaro è che si pone in continuità con i governi precedenti e in particolare con l’economia di guerra imposta dal governo Draghi.

Se da un lato è evidente la centralità dei discorsi che verranno portati in piazza, la loro urgenza e concatenazione rispetto ad ambiti prioritari dell’attuale agenda delle lotte, come l’ecologismo e il femminismo, dall’altro la difficoltà oggi nel costruire rapporti di forza reali è sempre più palpabile.

E’ evidente come la frammentazione del lavoro, la ricattabilità, la moltiplicazione di forme salariali e contrattuali rappresentino degli ostacoli importanti nell’obiettivo di ricomporre e costruire alleanze. La pandemia ha scoperchiato gli ingranaggi marci di un sistema che si fonda sull’invenzione di un’essenzialità direttamente proporzionale all’inutilità dei ruoli e dei compiti assegnati. Nel farlo ha anche sollevato delle leve sommerse da anni di ideologia lavorista propagandata da ogni lato, mostrando la possibilità – seppur marginale – di una pretesa maggiore rispetto alle proprie competenze svalorizzate. La svendita del lavoro umano sul mercato capitalista raggiunge livelli senza precedenti all’interno di un sistema capace di succhiare qualsiasi competenza viva, mettendola a servizio del profitto, ma allo stesso tempo mortificandola. Alcuni comparti hanno visto, in particolare al di là dell’Oceano, dei fenomeni inediti come le cosiddette “Grandi dimissioni” o fenomeni più diffusi come il “quiet quitting”, un’astensione consapevole dal lavoro, un rifiuto di dare gratis quel “di più” che in ogni posto di lavoro viene compreso nel prezzo, senza possibilità di contrattazione.

La sempre maggiore indecifrabilità di una composizione che rifiuta in maniera sparsa, diffusa, sclerotizzata alcune delle imposizioni – o percepite come tali – di cui si serve il sistema capitalistico per la sua riproduzione, rispecchia da un lato una vasta gamma di possibilità ma dall’altro una complessità di cui occorre essere all’altezza, di lettura e di previsione. Le tendenze che parrebbero in prima battuta indicare alcuni territori come più “classicamente” attraversabili – come la questione del carovita – nascondono in profondità un intreccio di dinamiche, soggetti, spinte, assunti che nulla hanno a che vedere con la linearità a cui vorremmo appellarci con l’obiettivo di intervenirci. I complottismi, l’attaccamento ai privilegi di classe, l’individualismo sono tutte linee che attraversano e spaccano possibili fronti. Non per questo occorre scoraggiarsi.

Essere all’altezza della sfida del presente è sicuramente una delle aspirazioni da alimentare, per farlo è necessario uno sforzo maggiore che travalichi i propri punti di partenza e che diffidi dalle ricette già pronte. L’effervescenza della composizione giovanile ci parla di una parte ben specifica della società, di un desiderio di realizzazione che non può avere risvolti conseguenti, dunque parla di una scelta inevitabile. Della possibilità, insita in dimensioni che parlano alla parte alta della classe, grazie a delle competenze, dei codici, dei riferimenti culturali che viene rappresentata da un polo della composizione sociale di riferimento, di materializzare le proprie intuizioni, trasformarle in lotta collettiva, rompendo la cupola dell’aspirazione personale e dell’esigenza individuale. Al tempo stesso, ad attivarsi oggi vi sono anche soggetti di altra generazione e posizione sociale, spinti dal timore di un declassamento, che scontano il limite di una fiducia ancora tale da spingere a una battaglia che non può essere sufficiente se singola o specifica ma che potrebbe generalizzarsi e strutturarsi in una dimensione più ampia che guardi ad ogni ambito della crisi della riproduzione sociale.

Poli divergenti di un presente ingarbugliato in cui nulla di più miope potrebbe essere immaginare di raccogliere, ingrossare ognun le proprie fila, portare acqua ai propri mulini, ognun secondo le proprie intuizioni. E’ tempo di seminare, tempo di lavorare quotidianamente verso una ricomposizione data da percorsi che abbiano come obiettivo uno scarto soggettivo che non venga irregimentato in ciò che già conosciamo. Per l’autonomia come possibilità, perché l’obiettivo di alimentare le lotte, dare forza e non prosciugare ciò che c’è in una ricorsa ad una prima fila inesistente, è ciò che può allargare realmente gli orizzonti.

Lo sciopero di questo fine settimana si inserisce in un quadro complesso, ma andrà a posizionare un ulteriore tassello di un percorso che sta iniziando e che non è scritto. Mettere in campo tentativi giusti di rappresentazione di quel sentimento diffuso di rifiuto per una guerra che nessuno ha scelto non può che essere necessario. Nominare un’insofferenza generalizzata come una richiesta di pace o di volontà di mettere voce nelle priorità dell’agenda politica è un salto in avanti ma di qualità. Lo sforzo non è mai troppo così come la pazienza, in una fase in cui nulla di rituale potrà essere all’altezza.

Per una riflessione su alcune categorie storiche come sciopero, sindacati e operaietà e il loro utilizzo oggi rimandiamo a questo podcast di Radio Blackout.

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