Intervista ad Italo di Sabato, responsabile dell’osservatorio sulla repressione
Dopo la messa in onda della prima puntata del programma “Presa Diretta”, con l’inchiesta sulle “Morti di Stato”, è fortissimo il dibattito sulle verità raccontate da Riccardo Iacona e dai suoi collaboratori.
Grazie alla disponibilità di Italo Di Sabato abbiamo cercato di approfondire alcuni dei punti toccati dalla trasmissione come il numero identificativo per gli uomini in divisa e le coperture su tanti casi di abusi di potere, ma un dato mi ha colpito particolarmente, ovvero l’enorme numero di persone (circa 17.000) sotto processo per reati legati a lotte sociali (una su tutte il diritto alla casa) che a causa di diverse norme inserite nel codice penale italiano vengono trattate come meri casi di delinquenza comune.
Buona lettura.
Prima di tutto presentaci l’Osservatorio sulla Repressione e quali sono i campi in cui opera.
L’Osservatorio sulla Repressione nasce nel 2007 per espressa volontà di un gruppo di attivisti sociali, tra cui Haidi Giuliani, con l’idea di mettere su un sito/blog che seguisse tutti i casi di repressione, a partire da quelli contro le lotte sociali. In questi anni abbiamo partecipato e promosso iniziative, dibattiti, seminari sui temi della repressione (in modo particolare si fatti accaduti al G8 di Genova nel luglio 2001) e della legislazione speciale d’emergenza, sulla situazione carceraria e dei migranti, sulla tortura, abbiamo denunciando e seguito casi di mala polizia (dal caso di Federico Aldrovandi, a quelli di Stefano Cucchi, Giuseppe Uva, Michele Ferrulli, Marcello Lonzi, Riccardo Rasman; Stefano Frapporti, Paolo Scaroni per citarne alcuni). Da oltre due anni abbiamo istituito due sportelli carcere a Roma, in grado di fornire assistenza agli ex detenuti e i familiari dei reclusi. Oggi grazie anche alla collaborazione attiva con il legal team Italia che ha aderito aIl’osservatorio forniamo anche assistenza legale alle tante vittime di repressione e mala polizia. Dal 7 gennaio è online il nuovo sito www.osservatoriorepressione.info
La trasmissione Presa Diretta, con lo speciale “Morti di Stato”, ha fatto molto discutere, riuscendo a raccontare senza censure ciò che da tempo denunciate, cioè storie di uomini e donne vittime innocenti di abusi di potere da parte di uomini in divisa. Che lettura dai di ciò che è andato in onda su Rai 3 il 6 gennaio? Si è finalmente riusciti a rompere quel muro di silenzio che non permetteva di raccontare serenamente la verità su quelle morti?
Indubbiamente la trasmissione “Presa Diretta” è stata importante al fine di far conoscere ad un pubblico largo i tanti casi di mala polizia avvenuti nel nostro paese. Dal nostro “osservatorio” in questi anni abbiamo dovuto constatare che dobbiamo fare i conto anche e soprattutto su codici ed articoli non scritti, tipo che “L’Italia è una Repubblica fondata sul mistero”, cioè il che fare con un concerto di forze occulte dotate di leggi speciali, che in questi anni hanno tramato sia contro le voci impegnate a chiedere dal basso il riconoscimento di diritti fondamentali, sia nei confronti di semplici cittadini. Il risultato è stato una micidiale licenza di uccidere che, ha spezzato le vite di donne e uomini, spesso giovanissimi. Una licenza di uccidere frutto anche delle tante “emergenze”, di una continua “ri-difinizione” di “nemico pubblico”. La trasmissione di Iacona ha avuto il merito di rompere questi misteri e dare la giusta rilevanza ai tanti casi di “violenza di Stato” che normali cittadini di questa Repubblica hanno subito sulla propria pelle,
In una recente intervista, rilasciata al sito controlacrisi.org, hai sostanzialmente dichiarato che i casi di abuso di potere da parte degli uomini in divisa non possono essere racchiusi all’interno di una banale classificazione delle “mele marce”, ma che in realtà in Italia esiste un “laboratorio di Stato sulla repressione sociale”. Spiegaci il senso di questa osservazione.
E’ legato a quello che dicevo nella precedente domanda. In Italia, la legislazione d’emergenza è stata l’apripista di un processo di involuzione autoritaria, che, interdendo definitivamente la società reale dal luogo delle decisioni, ha finito per esternalizzare il ruolo dei poteri forti fissandolo nel tecnicismo della governabilità. Dall’approvazione della legge reale (1975) è stato un continuo varo di provvedimenti che ledono i diritti e di fatto danno immunità alle forze dell’ordine che compiono violenze, soprusi e molte volte omicidi. Ogni conflitto viene interpretato come emergenza; estendendo e perfezionando (grazie alle nuove tecnologie) il controllo sociale, con una repressione sempre maggiore dando sempre più potere alle forze dell’ordine. Basti pensare all’approvazione dei pacchetti sicurezza: un mix micidiale di norme razziste e xenofobe con all’interno provvedimenti intesi a colpire le lotte e il conflitto sociale. La risposta che i governi danno alla crisi economica e sociale è la dichiarazione di guerra al più povero. Se aiuti un migrante clandestino, ad esempio, rischi di finire in galera, a differenza di chi istiga all’odio razziale e diventa Ministro della Repubblica. Se ti opponi per reclamare diritti, reddito, casa c’è il rischio di essere brutalmente picchiato, torturato e arrestato. Chi invece ha prodotto la violenza, ha calpestato i più elementari diritti (come è accaduto a Genova durante il G8 nel luglio 2001) viene assolto, promosso e premiato come un “eroe” dello Stato. Non è un caso che la strategia di emergenza sulla sicurezza si concentra sugli aspetti più mediatizzati del malessere sociale. In questo contesto avvengono anche le tante violenze da parte delle forze di polizia contro i migranti, giovani con look alternativi, ultras e tossicodipendenti. Quante volte abbiamo sentito dire ad esempio che Stefano Cucchi o Federico Aldrovandi in fondo erano due drogati? Oppure che Giuseppe Uva era un ubriacone o Carlo Giuliani un punkbestia noglobal?
Il 17 gennaio, a Bergamo, verrà presentato ufficialmente il numero verde nazionale anti-abuso, un’iniziativa promossa dalle tante realtà che formano l’Associazione ACAD (Associazione contro gli abusi in divisa). In che modo sarà sviluppato il progetto e quali risultati si spera di ottenere?
ACAD nasce dall’intenso lavoro di un gruppo di attivisti che da diversi anni si occupano di abusi commessi dalle forze dell’ordine. Il progetto vuole essere un piccolo ma concreto impegno di lotta al fianco di chi ha subito abusi da parte delle forze dell’ordine: dal supporto legale, al divulgare e portare a conoscenza dell’accaduto, ad un numero verde di pronto intervento, perché non si ripeta ciò che è successo già troppe volte. Un numero verde attivo 24 ore su 24 da chiamare per denunciare l’accaduto e chiedere un supporto immediato.
Siete promotori del “Manifesto per l’amnistia sociale”, iniziativa che ha trovato tante adesioni di singoli e gruppi di movimento, dimostrazione di come sia necessaria una revisione di alcune norme giuridiche italiane che troppo spesso limitano le libertà fondamentali dell’uomo. Qual è l’obiettivo del manifesto e quali sono i punti basilari su cui avete costruito il percorso di lotta sull’amnistia sociale?
Siamo partiti da un dato, frutto di un lavoro di ricerca e censimento fatto dall’Osservatorio in questi anni. Abbiamo constatato, con dati alla mano, che dal G8 di Genova del luglio 2001 a oggi sono numerosi i casi in cui la magistratura ha cercato di trasformare le lotte sociali in azioni puramente delinquenziali. Parliamo di circa 17.000 persone sotto processo, attivisti che si sono contrapposti alle politiche liberiste e hanno promosso lotte sociali riguardanti il tema della precarietà (e con esso il diritto alla casa, ai servizi, al reddito), le lotte dei migranti, le tante vertenze territoriali a partire da quella degli abitanti della Val Susa che si oppongono alla costruzione della Tav è che oggi rappresenta il paradigma di sperimentazione di occupazione militare di un territorio e di nuove tecniche repressive. Le mosse delle varie procure, sembrano inserirsi nel solco ideologico delle nuove tecniche repressive: disconoscere il primato politico delle varie forme di opposizione, per sancirne la resa giudiziaria delinquenziale e tramutare ogni lotta politica in ordine pubblico. La dimensione del fenomeno e la qualità delle imputazioni mosse indica la volontà di taluni apparati dello Stato e della stessa Magistratura di procedere ad una vera e propria criminalizzazione di istanze che dovrebbero trovare ben altre sedi e modalità di risposta. Per tutto questo è necessario l’amnistia politica e sociale e la depenalizzazione di una serie di reati, spesso ereditati dal vecchio Codice Rocco (varato durante il fascismo e mai abrogato), come il reato di devastazione e saccheggio, ma anche il reato di resistenza che sanzionano stili di vita, comportamenti sociali diffusi o persino le libere opinioni. Una campagna per il riconoscimento della legittimità di alcune forme di lotta, entrati nella prassi dei movimenti e dei comitati territoriali.
“Sono contrarissimo al numero identificativo per gli agenti in ordine pubblico, ciò contraddice tutte le regole di sicurezza. Le forze dell’ordine rischiano la vita e noi li vogliamo proteggere”. Queste sono le parole del Ministro degli Interni Angelino Alfano pronunciate lo scorso 20 dicembre 2013. Tale posizione è stata ripresa anche dal Vice Capo della Polizia Dott. Marangoni durante la trasmissione Presa Diretta. Stessa volontà espressa anche da alcuni sindacati di polizia come Sal e Siulp. Governo, sindacati ed alti funzionari della Polizia di Stato tutti unitamente contrari all’ipotesi di introdurre un numero identificativo per tutte le forze dell’ordine in servizio. Di fronte a questo muro quali passi si devono compiere per introdurre ciò che è già presente in gran parte dell’Europa?
L’Osservatorio sulla Repressione ha aderito all’appello fatto dagli Avvocati Europei Democratici affinché il Consiglio dei Ministri della Giustizia dell’Unione Europea metta in atto i passi necessari perché sia adottata una direttiva o una decisione quadro in questa materia, al fine di dare una risposta al problema dell’identificazione visibile degli agenti di polizia, con lo scopo di evitare le minacce ai diritti fondamentali, di salvaguardare i diritti della difesa, l’indipendenza del potere giudiziario e il suo ruolo di controllo e al fine di bandire dal quotidiano l’impunità delle azioni delittuose di dette forze di polizia e dei loro responsabili amministrativi e politici secondo i seguenti criteri.
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