La memoria è un campo di battaglia
Delle foibe si è cominciato a parlare in Italia in anni recenti con la destra al governo; e dal 2009 si celebra il 10 febbraio una giornata della memoria. Nel giorno in cui ricorre la firma del trattato tra Italia e forze alleate che ha definito la questione del confine orientale, da qualche anno ci fermiamo a ricordare l’assassinio di alcune migliaia di uomini e la fuga drammatica di un numero di persone molto più grande. Le parole foibe e esodo sono ormai entrate nel vocabolario comune, ma restano sconosciute per quanto riguarda il loro effettivo svolgimento e significato. Non si parla né si scrive della guerra italiana nei balcani fatta di rastrellamenti, di esecuzioni sommarie, di azioni preventive di terrorismo verso i civili, di deportazioni e campi di concentramento, di personaggi come il generale Robotti, comandante d’armata nei Balcani che nel 1942 si lamentava perché in Slovenia “si ammazza troppo poco”, di italianizzazione forzata delle popolazioni. Una guerra in cui le vittime vengono private della loro umanità, oggetti accanto ai quali farsi fotografare (e quanto è difficile non pensare ai cicli ricorrenti del ventesimo secolo, facendo paragoni con le immagini dei militari americani ad Abu Ghraib..).
C’è che amiamo l’idea degli italiani brava gente, coprendo ermeticamente pagine del nostro passato. E c’è anche che dimentichiamo i fatti. C’è la rimozione, fatta d’istinto, perché non c’è spazio per tante cose dentro di noi, e ogni tanto c’è bisogno di fare pulizia. Sono processi naturali ed inevitabili, contro i quali non si può fare nulla. Ma si può fare molto contro le rimozioni politiche della memoria, e con chi utilizza la storia lucidamente e consapevolmente. Contro chi promuove verità uniche e prova un senso di fastidio per le memorie degli altri. Ancor più se si vuole cercare di comprendere la storia delle genti di confine.
C’è anche che i percorsi facili piacciono a molti. C’è chi si indigna contro la voglia di scoprire il prima ed il dopo degli eventi ricordati nelle targhe per strada e nelle cartelline dei convegni finanziati dalla politica. Chi preferisce coprire ermeticamente pagine del nostro passato per trovare conferme al proprio senso di identità. Poco importa che questa identità si nutra solamente di linee di confine e di bandiere, giocando sul terreno di una conflittualità esasperata.
E, ad un altro livello ancora, c’è chi vorrebbe intimidire chiunque abbia diverse letture della storia e diverse memorie. E pensare che ieri, a manifestare contro l’iniziativa del Collettivo l’Officina erano perlopiù ventenni mette più che altro tristezza. È veramente troppo presto per rassegnarsi a non avere più alcuna curiosità, ad accontentarsi di quel piccolo pezzo di mondo che si ha a portata di motorino.
Ma quello che inquieta, più di tutto, è l’ottusa reazione del Presidente del Municipio. Che sia per una pigra e ottusa interpretazione del politically correct. O che sia per portare avanti chissà quale demente politica culturale inaugurata con il premio di poesia Licio Gelli. Ma qualsiasi amministrazione pubblica che mette i bastoni tra le ruote a ragazzi che vogliono confrontarsi su quello che è successo prima delle foibe, è un’amministrazione cieca e sorda.
Un ringraziamento al Collettivo l’Officina per il loro lavoro.
Francesco
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