La storia nascosta di Pasquale De Feo
Seduto su un muretto guardavo il cumulo di rovine dove aveva vissuto fino alla sua morte “Pascale varone” (Pasquale “barbone”), com’era soprannominato il mio trisavolo, il capostipite della famiglia. Si chiamava Pasquale De Feo, come me. E come la stragrande maggioranza dei meridionali, si era ribellato all’occupazione della sua Patria da parte dei piemontesi. Aveva ucciso tre soldati o carabinieri savoiardi. Fuggiasco, si era stabilito in un paese del Cilento, da dove discende la mia famiglia e dove vive mio padre nella casa natia.
Finalmente ero a casa. C’ero tornato dopo circa trent’anni di carcere. Mi avevano concesso un permesso per visitare mio Padre che non vedevo da moltissimi anni.
Il tempo era trascorso anche per lui. Trovai un anziano con tutte le patologie della vecchiaia, ma sempre vivo e di buonumore.
Dopo la morte di mia madre, si era ritirato nella casa paterna, che aveva ereditato. Lì era nato e cresciuto fino al suo matrimonio, quando si era dovuto trasferire nella Piana del Sole, sempre in provincia di Salerno.
L’aveva messa a nuovo con i soldi del trattamento di fine rapporto lavorativo. Ormai pensionato, cercava di godersi il suo sogno di passare la vecchiaia al paese e finire i suoi giorni dove li aveva iniziati.
Passai una giornata intera a parlare con lui. Non ricordo di averlo mai fatto, me lo ero ripromesso in carcere, alla prima occasione avrei trascorso tutto il tempo che mi fosse stato possibile parlando.
Parliamo poco con le persone a cui vogliamo bene. Non ce ne rendiamo conto perché lo riteniamo scontato, superfluo. Quando poi non ci sono più, il rimpianto ci sferza l’animo con la nostalgia.
Parlammo di tante cose, del passato, del presente e del futuro. Di chi non c’era più, come mia Madre. La sua morte fu un fulmine a ciel sereno, scosse come un uragano tutta la famiglia, lasciando un vuoto che ancora oggi a distanza di dodici anni si fa sentire.
Scherzai, rammentandogli che se fosse ancora viva Mamma lui non sarebbe nel Cilento. Mio Padre ha sempre detto che quando sarebbe andato in pensione sarebbe ritornato al paese, nella casa natia, anche per questo nella spartizione dell’eredità ha chiesto la casa. Mia Madre ha sempre avversato questo progetto, dicendo sempre di no, e ricordo che una volta disse che lei non ci sarebbe andata mai e se proprio voleva mio Padre poteva andarci da solo. Non gliel’ho mai chiesto ma credo che la sua opposizione fosse dovuta ai brutti ricordi della sua infanzia. Proveniva anche lei da un paese dell’entroterra cilentano, rammentava i ricordi della fame e miseri più nero, talmente poveri che mettere un piatto a tavola era un problema.
Ricordo che ci raccontava un episodio che somigliava al film “Miseria e nobiltà”. Suo fratello Antonio non si perdeva una festa sia patronale sia privata, si riempiva le tasche di cibo, anche di pasta col sugo, a casa lo aspettavano fratelli e sorelle ed era una festa. Mia madre ci trasmetteva con “li cunti” tutta la conoscenza della sua famiglia, come aveva appreso dai suoi genitori e gli zii, così lo faceva con noi, anche le situazioni più tragiche le raccontava in modo da esaltare il lato comico. Con mio Padre colsi l’occasione per stimolare la sua memoria, ero interessato a sapere tutto quello che gli avevano raccontato sul nostro capostipite. Non sapeva molto perché l’argomento era tabù. suo padre (mio nonno) non permetteva nessun discorso in merito, conosceva le voci del paese, che sostenevano fosse un brigante alla macchia. Neanche suo nonno Nicola (da cui aveva preso il nome mio padre) ed era il figlio del capostipite, gli aveva mi raccontato niente. Credo che ciò sia dovuto al fatto che all’epoca, la bestiale feroce repressione piemontese, con l’ausilio di scribacchini savoiardi, trasmise terrore e senso di vergogna nelle popolazioni meridionali, per chi aveva un familiare o parente brigante che si era ribellato contro l’invasione savoiarda. In spregio alla verità furono vilipesi e fatti passare come briganti.
Con la famigerata legge Pica resero un inferno il Sud, realizzando un genocidio, con un milione di morti, mezzo milione di arresti, cinquantaquattro paesi rasi al suolo, azzeramento di tutto l’apparato industriale, saccheggio sistematico di tutte le ricchezze, e venti milioni di emigranti in trent’anni, fenomeno sconosciuto fino al 1860, ma molto conosciuto nel Nord Italia. Con la favola risorgimentale e il segreto di stato che dura tutt’ora dopo cento cinquant’anni, continua a scuola l’insegnamento della falsificazione della storia. Mio padre mi raccontò che vicino al forno a legna della casa, o meglio di quello che ne restava, aveva trovato un’iscrizione che riguardava il nostro capostipite. Riportava il grado di nobiltà e il paese dove abitava prima di ribellarsi, era un paese cilentano.
Con l’aiuto di un nipote, tramite internet aveva trovato il paese e c’era ancora l’abitazione classica del signoe locale del tempo, seppure occupata da istituzioni del luogo. “Li cunti” dei paesani narravano che, il mio trisavolo era stato ospite del marchese del luogo, essendo anch’egli di linguaggio nobile, ma prima che il marchese potesse venderlo ai piemontesi, una sera, mentre questi rientrava a cavallo e soffermandosi sulla piazza, per affermare il suo potere, gesto abituale, fu ucciso a fucilate. La voce popolare, senza ombra di dubbio, indicava il capostipite come giustiziere del traditore, che non era ben voluto dalla gente, per questo motivo ne furono tutti contenti.
In cinquant’anni che abitò nel paese, non fu mai tradito dalla gente e si spense serenamente nel suo letto. Era stato un uomo giusto anche se molto temuto.
Finito il permesso, ritornai in cella, iniziando la solita vita in cattività. Quello che odio è l’abitudine, ti entra nell’organismo e ti trasforma in u robot, anche se credi di controllare te stesso, è una illusione, perché il carcere t’istituzionalizza all’abitudine e alla sottomissione, una sorta di infantilismo ed annichilimento che non aiuta l’inserimento una volta rientrato nella società.
Iniziai a riflettere su tutti i ricordi e i racconti del passato, fatti da mia madre e mio nonno, tirate le somme, ne sapevo più io che mio padre sul nostro capostipite.Fino all’età di dodici-tredici anni non avevo mai sentito parlare del mio trisavolo. Mia madre mi aveva parlato di nonno Nicola, lo aveva conosciuto durante il suo matrimonio e poi era andata a trovarlo nella casa ormai diroccata, trasferitasi nella Piana del Sele a Pontecagnano, non l’aveva più rivisto e le sue conoscenze si fermavao qui. A quel tempo non era come oggi che si arrivava con qualche ora di auto nel Cilento.
Ero un ragazzino di dodici anni. Una sera ero ospite del vicino di casa, cilentani anche loro. La moglie era del paese di mio padre, il marito mi raccontò del capostipite “Pascale Varvone”, che era stato un brigante molto temuto e quando scendeva in paese, incuteva paura. Condirono così bene la cosa da innescare la mia curiosità. Tempo dopo capii che la loro rivelazione era frutto di ignoranza, convinti di screditare mio padre per avere avuto un avo brigante.
Ritornato a casa, aspettai mio padre. Quella sera rientrò verso le undici per il turno di lavoro. Gli chiesi del nostro avo, negò ogni cosa e mi chiese chi mi avesse detto questa frottola. Non glielo dissi, per non creare discussioni con i vicini.
Qualche tempo dopo andammo a trovare i nonni al paese. Com’ebbi l’occasione di stare solo con il nonno glielo chiesi. In modo accigliato mi rispose che erano malelingue, diversamente da mio padre non negò. ma non ci fu verso di fargli dire qualcosa. Non ho mai creduto a nessuno dei due, ma avevo compreso che mi volevano nascondere qualcosa, ed essendo un ragazzo non mi avrebbero detto nulla. Mi riproposi di aspettare, di avere un’età idonea per soddisfare la mia curiosità.
Erano trascorsi molti anni, tante cose erano cambiate, la mia vita aveva imboccato un percorso che nessuno avrebbe immaginato. La nostra esistenza è come un muro. Tolto un mattone, tutto il muro ne subirà le conseguenze per tutta la vita.
Ero latitante e mi nascondevo nella casa dei nonni. All’epoca l’aveva già ereditata mio padre, anche se il nonno era ancora vivo, ma dopo la morte della nonna era andato ad abitare con lo zio Antonio, il primogenito.
Tutti i giorni il nonno veniva a coltivare l’orto nei pressi della casa dove soggiornavo. Lo stesso che ora coltiva mio padre, e si fermava a mangiare con me. Un giorno gli chiesi di suo nonno. L’avevo fatto senza nessun fine, solo per introdurre un argomento di discussione; ero latitante, avevo altre cose per la testa. Le mie logiche erano talmente diverse da quelle di oggi, con meraviglia da parte mia si lasciò andare ed iniziò: “era un grande uomo saggio e ammirevole. Non aveva paura neanche del diavolo”, poi mi indicò la casa dove aveva abitato ed era morto. Era il suo primo nipote col suo nome, e per questo era il suo preferito.
Iniziò a raccontarmi gli episodi di suo nonno e andò avanti per circa tre ore, ma dopo qualche ora iniziai a non prestare più attenzione, ma non glielo feci notare, sia per educazione sia perché avevo visto una luce nei suoi occhi di liberazione.
La mia impressione fu che ricordi troppo tempo repressi in angoli remoti dell’animo uscivano fuori come se avesse tolto il tappo, tempi felici che iniziarono a sgorgare come in una sorgente.
Gli raccomandava sempre che quanto rientrava dalla campagna la sera, se avesse sentito umore dietro un cespuglio, doveva fermare l’asino e alzare le mani gridando ad alta voce nome e cognome. Erano tempi brutti all’epoca, lo sconvolgimento portato dalla crudele occupazione aveva trasformato il meridione da isola felice a un luogo tipo colonia africana, dove i militari e le milizie avevano il potere assoluto e lo usavano con la massima discrezionalità sulla gente. Per sospetto si era incarcerati o fucilati, la vita non aveva valore, tutto legale ai sensi dell’infame legge Pica, la madre di tutte le leggi repressive, che con terminologie diverse e gli standard della nostra epoca è ancora in vigore. Oggi si chiamano “emergenze”, un tempo erano chiamati “stati d’assedio”. Una sera gli capitò un episodio e lui si comportò come gli aveva insegnato suo nonno. Una voce alterata gli disse di ritornare a casa e di non dire niente. Il giorno dopo in quel luogo trovarono due persone uccise a fucilate.
Andò subito da suo nonno. Era preoccupato perché aveva riconosciuto la persona nonostante avesse camuffato la voce. Suo nonno lo rassicurò e lo esortò a non dire nulla a nessuno. Credo che dopo circa settant’ani fosse la prima volta che lo raccontava, forse perché ero il suo nipote prediletto, come lui lo era stato d suo nonno.
I tempi, i luoghi e le persone che ci hanno trasmesso gioia, rimarranno sempre presenti nei nostri cuori, come se quei momenti si fossero fermati nel nostro animo. Qualunque cosa inneschi i neuroni della memoria, le emozioni iniziano a zampillare.
Un altro episodio dei suoi racconti che ricordo, narrava di una notte che, il mio trisavolo, sentì rumore sull’aia della casa, uscì con il fucile e sorprese un uomo che si nascondeva nella stalla, lo bloccò tenendolo sotto tiro, gli chiese chi fosse e cosa ci facesse nella sua casa. L’uomo gli rispose che non era lì per rubare, cercava un riparo e qualcosa da mangiare. Suo nonno capì che era un fuggiasco, essendolo anche lui, aveva intravisto i segni che erano familiari.
Lo fece entrare in casa e lo rifocillò di tutto. L’uomo gli raccontò che era evaso dal carcere e stava cercando di arrivare ad Ascea, un paese del Cilento , per riunirsi ai suoi uomini. Era a capo di una banda di briganti. L’indomani lo equipaggiò per il viaggio e si salutarono, per sdebitarsi lo invitò ad andare a trovarlo e ricevette una festosa accoglienza. Rimase in loro compagnia per tre giorni, vivevano in una grossa caverna, erano una quarantina ed erano bene organizzati; non gli mancava niente.
Ritornò con molti doni caricati su due asini, un fucile nuovo e un bel gruzzolo di soldi. Mentre me lo raccontava, leggevo nei suoi occhi tanta ammirazione, un orgoglio da troppo tempo represso a cui stava dando libero sfogo.
La storia è strana, i vincitori diventano degli eroi, anche se criminali; chi perde viene mostrificato. I partigiani della seconda guerra mondiale che avevano lottato contro l’occupazione nazista, sono ritenuti ancora oggi degli eroi. I Meridionali che lottarono contro l’occupazione piemontese, avendo perso, i vincitori li hanno demonizzati, con la complicità di pennivendoli salariati. Purtroppo la storia la scrivono i vincitori.
In tutto il mondo le nazioni hanno fatto i conti con le loro vergogne chiedendo perdono: negli USA con gli indiani, in Australia con gli Aborigeni, in Canada con i nativi e in Sud America con gli Indios.
Solo in Italia non si è fatto niente. E’ ancora tabù.
Qualche settimana dopo chiesi a mio nonno di raccontarmi ancora del suo capostipite, mi fece capire di no e cambiò discorso. Capì che l’avevo trovato n uno “stato di grazia”. Avevo aperto un varco e si era lasciato andare, ora aveva di nuovo chiuso la porta e non l’aprì mai più.
Dopo alcuni mesi fui arrestato, mi raccontarono che il giorno dopo la sentenza che mi condannava all’ergastolo, apprese la notizia mentre era al bar, uscendo inciampò e si ruppe il femore della gamba. Aveva circa novant’anni. Non era mai stato in ospedale o chiuso in casa più di qualche giorno. Dopo qualche anno a letto, perché non si calcificava l’osso, sopravvenne la demenza senile e nel giro di sei mesi morì.
Dopo la nonna, il carcere mi aveva impedito di partecipare ai funerali del nonno. Rimarranno sempre nel mio cuore e spero di trasmettere il ricordo ai miei nipoti.
Dei fratelli del nonno rimangono in vita l’ultimo dei fratelli, zio Carmine, dovrebbe avere circa cent’anni e due sorelle che hanno superato ampiamente il secolo di vita.
Nel Cilento non è una novità, lì è nata la dieta mediterranea e produce molti centenari.
Questo desiderio di sapere del capostipite della famiglia, nel tempo mi ha fatto leggere tutto quello che mi capitava sottomano sui briganti, anche se i libri li relegavano sempre come banditi.
Un paio di decenni dopo, mentre mi trovavo nel carcere di Parma e le istituzioni locali mi facevano sentire un cittadino, iniziai a riflettere sulla mia situazione. E ciò mi portò a pormi tante domande sul motivo per cui in carcere il 90% dei reclusi sono meridionali, il 100% dei reclusi nel regime di tortura del 41 bis sono meridionali; tutte le leggi repressive nascono e colpiscono solo meridionali; in Europa non esistono leggi che consentono arresti di massa senza avere commesso reati.
Quello che non riuscivo a capire era perché ci fossero due Italie nei fatti, a cosa era dovuto. Doveva esserci una spiegazione razionale, perché nessuno nasce cattivo o delinquente, lo si diventa quando intorno a te c’è il deserto istituzionale, e se lo Stato non fa niente significa che ha interesse che nulla cambi ma viceversa l’unico intervento è quello della repressione. D’altronde è constatato nei facci che l’unica industria che funziona a pieno regime nel Meridione e non conosce flessioni è la repressione.
Non trovavo una spiegazione e le mie riflessioni erano a un punto morto; neanche comparare col periodo manzoniano dei Promessi Sposi sui “bravi”, esaudiva le risposte che cercavo.
Non puoi cercare qualcosa se non sai cosa stai cercanddo.
Una mattina verso le sei, mentre guardavo la Rai, ascoltai una intervista di Pino Aprile sul libro che aveva scritto, “Terroni”. M’incuriosirono le sue parole e il titolo del libro. Lo comprai e lo lessi, mi si aprì un nuovo mondo davanti ai miei occhi. La nebbia che avevo in testa iniziò a diradarsi e le mie riflessioni iniziarono ad avere un senso.
Trasferito da Parma, arrivai nel carcere di Catanzaro, alcuni mesi dopo mentre guardavo il TG della Rai, diffusero la notizia della morte dello storico Nicola Zitara e fecero vedere l’ultima sua intervista. Parlava del Meridione come di una colonia, che la repressione e il saccheggio erano una costante della nascita d’Italia
Menzionarono il libro che aveva licenziato alcuni mesi prima della sua morte, “L’invenzione del Mezzogiorno- una storia finanziaria”. Mandai subito a richiedere il libro, nel frattempo feci fare una ricerca su internet. I fascicoli che mi arrivarono erano sconvolgenti, altro che “gloriosa epopea”. L’Unità d’Italia fu imposta con il ferro e il fuoco e creata in un “lago di sangue”, tutto scritto negli atti parlamentari italiani ma anche in quelli inglesi. L’impresa fu fatta per depredare il meridione. I Savoia, strapazzati dai debiti che Cavour e quel criminale di Vittorio Emanuele avevano contratto con inglesi, francesi e Rothscild, si salvarono saccheggiando il Sud.
Lo scrisse nel 1859 Pier Carlo Baggio, braccio destro di Cavour: “guerra o bancarotta” ammonì.
La lettura di altri libri, che continuo tutt’ora, ha schiarito ogni ombra, tutto il degrado del Meridione è iniziato con la conquista piemontese e la depredazione continua tuttora.
Lo Stato, intervenendo solo con la repressione, continua a legittimare la creazione della colonia, a sfruttarla e gli indigeni devono essere bravi servi e non ribellarsi al padrone. Quando lo fanno interviene subito il mastodontico apparato della repressione.
Il degrado causato dall’azzeramento economico e sociale ha ridotto i Meridionali simili ai clienti delle famiglie dell’Impero omani, hanno tolto dignità alle popolazioni meridionali, creando il brodo di cultura di fenomeni delinquenziali. Con la repressione si tiene il Meridione oppresso, limitandone lo sviluppo economico, industriale, sociale e culturale. affinché il Nord padrone d’Italia continui il suo vantaggio e il Sud colonia resti malato inguaribile.
Per tenere in piedi questo stato di cose, ogni tempo ha bisogno dei suoi mostri per continuare l’oppressione. Ieri eravamo un covo di briganti, oggi siamo un covo di mafiosi.
La lettura del libro di Nicola Zara ha dato certezze alle mie convinzioni. Eravamo una nazione ricca, prospera e industriale, mentre il regno sabaudo aveva zero industrie e un debito dieci volte le sue entrate.
Gennaro De Crescenzo, nel su o libro “I peggiori 150 anni della nostra storia. L’unificazione come origine del sottosviluppo del Sud”, spiega come all’epoca eravamo considerati la “Germania” dell’attuale Europa.
Con l’occupazione hanno invertito le parti.
Tutti i più grandi intellettuali di quel secolo, ritenevano di non avere vissuto se non avessero soggiornato a Napoli, l’unica metropoli della penisola che, insieme a Londra e Parigi, rappresentavano le uniche d’Europa.
Sono arrivato alla conclusione che sono uno delle migliaia di ragazzi del Meridione sacrificato sull’altare della mostrificazione, affinché una cortina fumogena nasconda il sistema coloniale creato per tenere nell’indigenza la metà del Paese.
Sono ritornato dal permesso con le idee chiare. Non sarò più uno dei sacrificati, anche se questo mostro coloniale inghiottir anche le prossime generazioni.
Metterò un allevamento di capre sul fondo del capostipite, vicino alle rovine della sua casa.
Ho deciso. Come ha fatto mio padre, farò anch’io. Mi ritirerò nel Cilento per trascorrervi la mia vecchiaia, quando finalmente mi scarcereranno.
Il ritorno alle origini, dove tutto è nato.
Pasquale De Feo
Catanzaro gennaio 2013
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