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Le promesse mancate della doppia elica

Benedetto Vecchi (Il Manifesto)

La cura miracolosa del capitalismo in crisi si chiama biotecnologie. A supporto dei benefici che può arrecare questo corpus tecnico-scientifico vanno annoverate anche le neuroscienze, a patto però che quest’ultime compiano il grande passo dalla ricerca di base a quella applicata. Così, dopo l’esaurirsi della spinta propulsiva della «rivoluzione del silicio», la nuova frontiera del capitalismo ha a che fare con le tecnologie della vita e con il «grande arcano» del cervello. È questa la novella che viene recitata per diradare la densa foschia della crisi globale del capitalismo, evocando la mappatura del Dna e la breve e intensa stagione delle imprese che da quelle ricerche hanno saputo produrre tuttavia limitate innovazioni per quanto riguarda la cura di alcune patologie o per mettere a punto una nuova generazione di medicine.

Recentemente, sono stati pubblicati due saggi di indubbia capacità analitica su questa trasformazione delle biotecnologie e delle neuroscienze in altrettanti settori produttivi. Il primo è della filosofa Melinda Cooper e ha come titolo La vita come plusvalore (ombre corte, pp. 155, euro 15). Attinge a un lessico decisamente marxiano, provando a ibridarlo con la riflessione di Michael Foucault sull’ordoliberismo per criticare l’uso capitalistico delle biotecnologie. Il secondo è scritto da Hilary Rose e Steven Rose. La prima è una affermata sociologa che ha sviluppato una critica femminista della produzione scientifica, l’altro autore è un noto biologo. Il titolo di questo poderoso saggio è Geni, cellule e cervelli (Codice edizione, pp. 401, euro 18,90). È volutamente sobrio, anche se la sua lettura è una preziosa mappa di come la biologia e le neuroscienze siano state, appunto, presentate come la leva per risollevare le sorti del capitalismo.

Il potere del Dna

Due libri a loro modo complementari. Quello di Melinda Cooper inizia, idealmente, proprio dove termina quello di Hilary Rose e Steven Rose, anche se imprime una torsione analitica che la conduce ad un approdo più «radicale» di quello dei due studiosi inglesi, laddove assegna alla rappresentazione pubblica delle «tecnologie della vita» il ruolo ancillare di logica culturale del capitalismo neoliberista.

Geni, cellule e cervelli è una miniera di informazioni e di riflessioni su quanto gli scienziati, ma anche il mondo politico hanno prodotto da quando il dna è stato l’oggetto di attenzione non solo da specifiche discipline scientifiche – la biologia, in primo luogo -, ma anche di programmi di ricerca scientifica definiti da governi e stati sovrani. Hilary Rose e Steven Rose sono figure esemplificative di una generazione di ricercatori che negli anni Sessanta ha portato una ventata di spirito critico nei laboratori di ricerca e nelle aule universitarie. Hanno attraversato quel decennio e il successivo, scrivendo, intervenendo pubblicamente contro l’ideologia della neutralità della scienza.

Ne è testimone l’introduzione al volume, quando ripercorrono il loro percorso teorico iniziato con l’incontro con la «nuova sinistra» inglese e proseguito con un’adesione di Hilary Rose al femminismo, rivelando una conoscenza profonda con quanto pubblicato al di fuori del loro paese. Sono ricordati i contributi di Marcello Cini e del suo gruppo (Steven Rose caldeggiò la pubblicazione in Inghilterra di un saggio riassuntivo dell’Ape e l’architetto), delle discussioni sulla scienza e il ruolo dei tecnici nello sviluppo capitalistico dentro organizzazioni come Lotta Continua e Potere Operaio. Molte righe sono altresì dedicate a quanto veniva stampato in Francia (usano parole al vetriolo contro lo «scientismo» mascherato di Louis Althusser: atteggiamento caustico che è riservato anche ai cosiddetti postmoderni come Lyotard). Un excursus di una storia delle idee teso a evidenziare come la biologia e le neuroscienze sono sempre state un oggetto di desiderio del potere e spesso usate per legittimare l’ordine costituito, qualunque esso sia. È accaduto con l’eugenetica nazista, con la «scienza proletaria» dell’agronomo sovietico Lysenko, ma anche con l’eugenetica praticata nei democratici Stati Uniti o nella socialdemocratica Svezia, quando scienziati e ricercatori condussero illegalmente, ma con la copertura statale, sperimentazioni sulla popolazione per studiare i «disturbi mentale», oppure per testare nuove medicine che dovevano curare il cancro o la sterilità. Il salto di qualità avviene quando viene ipotizzata la possibilità di stendere una mappa del Dna.

Modelli convergenti

Anche in questo caso il libro è una miniera di informazioni, in particolare modo quando i due autori ricostruiscono la parabola delle biotecnologie in Inghilterra, Stati Uniti, Islanda, Canada: esperienze diverse da cui emergono elementi comuni. In primo luogo il ruolo dello Stato. A seguire capitale di rischio, la necessaria partnership tra ricerca pubblica e ricerca privata e, infine, una legislazione sulla proprietà intellettuale (i brevetti, innanzitutto): tutti fattori che hanno contribuito a una «produzione politica» di un mercato prima inesistente. Anche gli interventi legislativi sulla privacy e sulla bioetica sono stati funzionali alla creazione di questo settore produttivo. Un modello dunque che si è andato affermando su scala globale, anche se quanto sta accadendo in India e Cina dovrebbe consigliare una cautela nell’individuare il trittico tra capitale di rischio, ruolo pastorale dello stato e ricercatori trasformati in imprenditori come modello universale. In Cina e in India, infatti, lo Stato è sia finanziatore che soggetto giuridico e definisce le regole del gioco: un fattore che ha trasformato i due paesi in leader nella ricerca nelle biotecnologie.

In ogni caso, tanto le biotecnologie che le neuroscienze non hanno mantenuto le promesse iniziali. Del Dna si sa molto, ma rimane ignoto molto del suo funzionamento. Certo le staminali continuano ad essere un settore promettente, ma molto ancora bisogna apprendere. Le neuroscienze dovevano spiegare cosa è l’intelligenza, come si sviluppano i disturbi mentali, ma siamo ancora a furibonde dispute su quale sia il legame tra mente, cervello e Dna.

La frontiera della neuroplasticità

L’ultima frontiera di una nuova terra promessa è la neuroplasticità del cervello, ambito nel quale la «National Institute of Health» statunitense sta riversando un fiume di investimenti, ma con scarsi risultati, se non la conferma che il cervello ha una sua capacità di riorganizzarsi in caso di determinate lesioni. La bolla delle biotecnologie si sta sgonfiando e con essa l’idea che fossero il settore produttivo capace di sostituire l’high-tech nel trainare lo sviluppo capitalista.

Rimane tuttavia intatta la rappresentazione delle biotecnologie come deux ex machina di una vita migliore. Ed è su questo crinale che il saggio di Melinda Cooper fornisce una bussola per orientarsi nella costellazione culturale del capitalismo contemporaneo. Usando dunque un lessico marxiano unito a robuste suggestioni foucoultiane, la studiosa si concentra sul binomio rischio-futuro attorno al quale si sviluppa l’ordine del discorso sulle biotecnologie. Partendo come gli autori dell’altro saggio, Melinda Cooper evidenzia il ruolo «pastorale» dello stato nel definire la cornice normativa per veicolare politiche neoliberiste sulle «tecnologie della vita». Allo stesso tempo, il capitale di rischio è indispensabile per far decollare questo tipo di attività produttiva. Con radicalità, vengono analizzati sia la dismissione del welfare state che la «privatizzazione» dell’accesso ai servizi sociali. Se gli uomini e le donne sono però ridotti a capitale umano, il fattore di rischio è insito nelle aspettative di «buona vita». Il neoliberismo veicolato dalla logica culturale dominate non punta infatti a un equilibrio generale, ma all’instabilità e nell’assenza appunto di equilibrio.

Il rischio del futuro

È questo uno dei punti di forza del libro della Cooper. Instabilità, processi dinamici, il divenire sono qui analizzati, a ragione, come elementi convergenti a quanto accade con le biotecnologie, con la loro pretesa di manipolare, ricombinare il Dna al fine di produrre un animale umano efficiente e capace di adattarsi repentinamente ai cambiamenti dell’habitat sociale in cui è immerso. È solo correndo il rischio di fallire che l’animale umano può immaginare il futuro, dicono i neoliberisti. Nell’era della fine della storia, le biotecnologie sono quindi lo strumento indispensabile per immaginare il futuro. Un risvolto «scientista» che ha costituito un potente strumento ideologico per legittimare la trasformazione del corpo umano, e le conoscenza relative ad esso – dal Dna a come funziona il cervello -, non solo in una merce, ma anche in dispositivo produttivo, mezzo di produzione e, al tempo stesso, materia prima dell’attività lavorativa di ricerca.

Due libri, dunque, che hanno il pregio di proiettare un’attitudine critica sul lavoro di ricerca, costringendo a fare i conti con il regime di accumulazione capitalista. E se le biotecnologie e le neuroscienze non sono la nuova frontiera del capitale, il lavoro analitico di Hilary Rose, Steven Rose e Melinda Cooper costitusce, nella diversità, un potente dispositivo per una rinnovata critica alla neutralità della scienza.

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