Lettera di Toshi
Lo spesino passa il lunedì per tabacchi e bolli, il mercoledì pomeriggio inizia con qualcosina, il giovedì è il giorno più emozionante, arrivano i beni più sostanziosi, infine il venerdì è il giorno delle verdure e della carne. Ma il tuo libretto (dove ci son segnati i conti di entrate e uscite) e il foglietto su cui c’è la spesa settimanale, sotto forma di codici e quantità, lo consegni il giovedì e la spesa arriva la settimana dopo, secondo il ritmo descritto. È un buon esercizio studiare la lista delle cose acquistabili. Chissà se ogni carcere ha la sua (di sicuro, chissà allora da cosa dipende).
È affascinante immaginare come sia nata, il lento lavorio “figlio dei tempi” che acquisisce qualcosa e depenna qualcos’altro, il risultato di stratificazioni di lotte, di concertazioni, di richieste di commissioni di detenuti, di concessioni bonarie dell’amministrazione.
Un po’ come tutto qua dentro dall’arredamento cellulare alla fornitura del prigioniero, dallo spazio all’aria alle attività frequentabili.
Un tira e molla, costante, a volte silenzioso, a volte deflagrante, a volte sancito da strette di mano, a volte concesso a denti stretti.
Le prime nove voci hanno nomi e costi inavvicinabili.
Amino Gainer, Glutamina, Power Vit, Tri Arginina, da € 14,99 fino a € 79,50.
Mi vengono in mente quei loschi barattoli di polveri da ingollare diluite in acqua, limacciose e potenzianti, in grado di fare alzare dischi e dischi di ghisa per un perfetto physique du role.
Iniziano poi i prodotti più vari, di largo consumo e tutti rigorosamente di marca.
Stupisce la quantità di merendine, dolcetti, caramelle, patatine, bibite, cioccolati… Ho poi capito che sono articoli da colloquio.
Dal mio lassismo estetico (i pantaloni, che devono essere lunghi per regolamento, son di tuta) posso apprezzare invece i risultati di una meticolosa preparazione: in saletta si arriva con una rasatura perfetta, camicia, scarpe fiammanti, pantalone elegante (spesso bianco). E mai a mani vuote: bibita, bicchieri di carta, dolci o patatine… tavola imbandita, a volte perfino il gelato. La ricerca di normalità, il carcere non prostra, sei ospite, ma in entrambi i sensi.
Il cuscus, i datteri, la carne halal (pollo, agnello, bovino) son lì a testimoniare che il carcere sa ammodernarsi, strizza l’occhio al multiculturalismo tollerante. C’è posto per tutti, qua rispettiamo vezzi e tabù.
Il lievito per dolci e per pizze. Un sapere e un gusto segreti, in una bustina. Il primo è una conoscenza, un’arte liminare, che oscilla sapiente tra il divieto (per il forno in galera è meglio usare due fornelletti, più il cappello di stagnola, tutto vietato) e il segreto (non è da tutti, la lievitazione). Il secondo, non intaccato dal tacito placet dei controllori, è il gusto della condivisione, magica, di una fetta di torta tiepida, il giro pizza croccante che compare nel sussurro del lavorante: «manda cella 3».
La lunga sequela di prodotti per il corpo: creme, oli, shampoo, bagnoschiuma, unguenti da rasatura… forse il gradino inferiore delle polveri da bodybuilder, ma la cura per il corpo, la voglia e il piacere di lavarsi (abluzioni che spezzano la giornata cellulare) e ungersi, di profumare in sé e per sé, qua dentro hanno un peso particolare.
Se da una parte sono un aspetto di quella «cura del sé» che è percorso disciplinare che produce il soggetto (che, come tale, è anche assoggettato), dall’altra ci vedo il contraltare del carrellino della terapia, la psico-farmacia ambulante che somministra gocce e goccine. Un’opposizione dove si scontrano esteriorità e interiorità, ribaltando la versione comune per cui il dentro è più importante del fuori. No, qua no. Chi si spacca di sonniferi la doccia la fa molto meno, ecco tutto.
Il gelato. Piacere galeotto, cibo infantile, consolazione che si spartisce (da soli, una vaschetta da 500 g produrrebbe un accampamento notturno presso la tazza), ma anche fiche per scommesse temerarie e pegno in palio per briscolate roventi. Una delle poche cose non fabbricabili dall’ingegno (e il tempo) carcerario.
Tra i prodotti da pulizia ambienti ve n’è uno inquietante: la cera per pavimenti. Sono indeciso se interpretare la presenza in lista come sofisticazione della dignità di vivere in un luogo pulito e decente o piuttosto metterlo, come abbagliante esempio, tra i fiori che ornano le catene che ci trasciniamo dietro. Difficile decidere, i nostri slogan sono spesso – sempre – estemporanei e fuorvianti.
Chiaramente nessun contenitore è di vetro o di latta.
Pesto, tonno, acciughe, salse arrivano o in brik o in bustine di tetrapack. La schiuma da barba è in tubetto, le carni in vaschette di polistirolo, la grattugia (2 €) di plastica, così come le bottiglie di olio e aceto.
L’unica cosa che taglia sono i rasoi: o usa e getta o il Mach 3.
E il gas, in lattine. Ogni volta che finisce, per averne un’altra, devi consegnare quella finita. Non puoi averne più di cinque a settimana (e le tengono loro).
Certo, come ogni lista merci, divide i suoi acquirenti.
Ma dal poco che so e che vedo, sono più i prodotti che si comprano per dividerli (spese ad incastro tra più celle, uno piglia la pasta, uno il sugo e il terzo i piatti di carta), che quelle che si comprano per rosicchiarle da soli. C’è anche chi non può comprare niente, ma son certo che accede a beni inavvicinabili molto più spesso di quanto, fuori, uno che non ha soldi accede alle merci di un supermercato.
Questa breve notarella non voleva essere sociologia da tre soldi, un proclama di agitazione, uno scritto incendiario. Se non è troppo lo inscriverei in una storia in controluce della prigione e, incidentalmente, in una delle fiabe che ascoltiamo e raccontiamo più volentieri, quella infinita e pulsante della lotta per la libertà.
Toshi»
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