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Pestarono detenuto in carcere, indennizzi per gli agenti

Questa è la storia di Giuseppe Rotundo, detenuto nel gennaio 2011 nel carcere di Lucera, e di tre agenti di polizia penitenziaria: il sovrintendente Pasquale De Gennaro e gli assistenti capo Francesco Benincaso e Vincenzo Leone. Questa è anche la storia di Roberta Natale e Giovanna Vinciguerra, rispettivamente psicologa e assistente sociale in servizio presso il carcere di Lucera.

Popoff ha deciso di dare voce ancora una volta al soggetto più debole, alla vittima. Ecco come Rotundo racconta la sua vicenda.

«Desidero parlare del mio caso, poiché ritengo che attraverso il racconto si possa arrivare a comprendere meglio alcuni meccanismi messi in atto da un potere penitenziario corporativo fortemente inquinato. Ritengo doveroso fare una premessa molto significativa, esistono agenti di custodia, comandanti e direttori che operano nelle carceri nel rispetto della dignità dei detenuti. Pochi ma ci sono.

«Nel merito della brutta faccenda, il carcere è quello di Lucera, dove mi trovavo ristretto da appena un mese. Prima di Lucera avevo soggiornato per molti anni in altri istituti, per cui non ero assolutamente uno sprovveduto. Conoscevo e conosco bene le forme di rispetto che si debbono avere con gli agenti di custodia. Nonostante questo è innegabile che ci possano essere momenti in cui per un determinato motivo personale questo rispetto viene meno. Per questo esistono i consigli di disciplina interni, che sanzionano i comportamenti non conformi all’ordinamento penitenziario. Di questo ne siamo consapevoli tutti, e in particolar modo lo ero io.

«In uno di questi momenti (tralasciando il motivo scatenante) ho pronunciato una parola offensiva all’indirizzo di un agente («pezzo di merda»). Se non che, sono stato invitato nell’ufficio preposto, pronto a chiedere scusa e ad assumermi le mie responsabilità. Ciò evidentemente non ha placato la voglia di vendetta dell’agente, e sono stato invitato a recarmi in isolamento per la perquisizione personale.

«Mi sono spogliato completamente nudo. Nel frattempo cinque di loro stavano indossando dei guanti neri. Cosa strana per una perquisizione normale. Avevo compreso benissimo le loro reali intenzioni, per cui ho cercato di mettermi ancora di più in un atteggiamento remissivo. Volevo evitare che accadesse ciò che poi è accaduto immediatamente dopo. Calci, pugni, io completamente nudo. Ho cercato di reagire per quel che ho potuto, ma sono stato subito atterrato e letteralmente mas-sa-cra-to, e lasciato sul pavimento in una pozza di sangue nudo in pieno inverno (era gennaio).

«La notte, tutto il giorno dopo, fino all’intervento di una psicologa che era all’oscuro di tutto e chiese di incontrarmi per un normale colloquio. Alla mia vista si mise a piangere. Non mi riconosceva più. Ero gonfio come un pallone, pieno di lesioni, una gamba rotta, eccetera eccetera.

«Fu lei a mettersi in contatto con il mio avvocato e a illustrarle la situazione di quanto accaduto. Grazie a lei sono stato finalmente visitato dal medico. È stata lei a essere andata a dal comandante facendoli presente che se non mi mettevano in una cella con un letto avrebbe denunciato il carcere per istigazione al suicidio.

«Finalmente dopo tre giorni e tre notti passati sul pavimento mi sono potuto distendere sulla branda. Tre di quei cinque vigliacchi di agenti nel frattempo avevano provveduto a ricoverarsi in ospedale. Uno addirittura in prognosi riservata. Secondo loro io gli avrei colpiti con calci e pugni, proferendo nei loro confronti parole ingiuriose. Sono stato interrogato da un giudice. Ho esposto le mie ragioni. Nel frattempo trasferito nel carcere di Foggia. Il registro di primo ingresso di questo carcere ha documentato le mie lesioni effettive, ed evidenti. Dieci giorni dopo sono venuti a fotografarmi quelli della questura per documentare le lesioni. C’è un ampia documentazione che le attesta. Il giudice di Lucera, però, nella prima udienza, ha ritenuto ininfluente tutta la mia documentazione, e ha rigettato l’ascolto di un testimone a conoscenza dei fatti. In pratica, agli atti c’è solo la costituzione delle parti civili dei tre agenti, tutta la loro documentazione sanitaria che attesta la loro gravissima situazione di salute, e solo un mio piccolo certificato redatto dal medico del carcere di Lucera, in cui afferma, falsamente, che nell’immediatezza dei fatti io mi sarei rifiutato a farmi curare, parlando un semplice ematoma alla fronte.

«L’udienza si è tenuta in un aula del tribunale di Lucera, in cui regnava un aria festosa, mancavano i pasticcini, e lo spumante. Naturalmente è già tutto scritto, io sono il colpevole. I tre agenti sono le vittime. Le mie ferite non esistono. Alla fine, i tre agenti prenderanno una pensione e un risarcimento per causa di servizio come premio all’indegnità della divisa che indossano in maniera infame, e altri detenuti continueranno subire questo trattamento speciale, e magari qualcuno morirà».

da PopOff Globalist

L’intervista a Giuseppe Rotundo che racconta il pestaggio subito:

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