Sul prelievo del DNA: alcune riflessioni e qualche dritta
Da qualche mese sembra che il governo italiano abbia deciso di applicare una norma che riguarda l’istituzione di una banca dati nazionale del DNA. La legge risale già al 2009 ed è in continuità con il trattato di cooperazione internazionale sottoscritto da Belgio, Germania, Spagna, Francia, Lussemburgo, Paesi Bassi, Austria e Italia (Trattato di Prüm del 27 maggio 2005) per “contrastare terrorismo, criminalità transfrontaliera e migrazione illegale”.
Ad oggi possiamo già contare almeno tre casi che riguardano compagni e compagne: due a Milano, dopo la manifestazione NoExpo del 1° Maggio e durante uno sgombero e l’altro all’aereoporto di Bergamo, dopo la mobilitazione antimilitarista in Sardegna.
Di questi tre casi la notizia è stata diffusa ma chissà di quanti altri non ne sappiamo nulla.
Procediamo, però, per ordine.
La legge prevede che solo chi è coinvolto in qualche procedimento giudiziario possa essere sottoposto al prelievo coatto del DNA. Spetta al ministero di Giustizia ed, in particolare, al DAP (dipartimento dell’amministrazione penitenziaria) il compito di raccogliere i profili del DNA, mentre al ministero dell’Interno quello della loro archiviazione così che i dati siano a disposizione delle forze dell’ordine e della magistratura.
Sembra, per altro, che un laboratorio per l’analisi dei campioni sia già esistente e si trovi all’interno di un capannone in disuso nel carcere di Rebibbia a Roma.
Ma qual è l’uso di questo ennesimo strumento?
Il dibattito sul tema è attivo da tempo, soprattutto a livello giornalistico.
I media si prodigano in disquisizioni sull’utilizzo di tale dispositivo, se sia o meno risolutorio per tutti quei casi di cronaca nera che finiscono in prima pagina e che sono tanto cari alla morbosità e perversione degli addetti alla “disinformazione”.
Le perplessità relative alla creazione di una banca dati, vanno essenzialmente in due direzioni: i cosiddetti garantisti, gli “spadaccini” della tutela alla privacy e quelli che sostengono che non sempre l’analisi del DNA, anche se eseguita con i mezzi più aggiornati e tecnologici, sia garanzia per la soluzione dei delitti.
Dibattito di per sé parecchio sterile che non coglie (o non vuole cogliere) il problema di fondo che sta, soprattutto, nell’utilizzo politico di questo dispositivo. L’uso del DNA è una pratica già molto presente in diversi paesi, soprattutto in quelli del nord Europa.
Nonostante gli spot mediatici securitari, l’impiego che ne viene fatto in sede processuale (cioè il campione di DNA come prova per l’accusa) è minimo a fronte dell’enorme quantità di dati raccolti. Il motivo è semplice: una banca dati europea del DNA garantisce un controllo più diffuso, capillare e funzionale. Quella che, agli occhi dei “sinceri democratici”, sembrerebbe essere una norma volta a colpire la privacy e la libera circolazione, si dimostra essere a tutti gli effetti ben altro: una raffinata tecnica di gestione e controllo di massa.
Per non parlare poi dell’ipocrisia insita nelle posizioni garantiste di cui sopra, quando sappiamo benissimo come le stesse possano trasformarsi in complici silenzi (se va bene!) di fronte alle quotidiane retate nelle strade o alla presenza dei moderni lager (i CIE); o, ancora, la corale acquiescènza se non plauso quando quello stesso dispositivo viene applicato contro chi ritenuto/a “socialmente pericoloso/a”.
Non pensiamo sia un caso che nello stesso testo di legge vengano menzionati reati di trito e ritrito “allarme sociale”: terrorismo e la circolazione di persone e cose tra le frontiere. Crediamo, invece, che norme di questo tipo mirino a fungere anche da deterrente ponendosi, come scopo, quello di spaventare e annichilire una popolazione, quella della cosiddetta Europa, già così diffusamente docile e addomesticata.
Appare evidente, quindi, quale sia il vero scopo della creazione di questa banca dati, perfettamente aderente alle tecniche strategiche di governo contro-rivoluzionarie, di cui l’Europa si sta dotando per poter contrastare l’illegalità diffusa e tutti coloro che, non rassegnandosi a questo stato di cose, portano avanti vari piani di conflittualità.
Andiamo oltre.
La legge descrive i casi in cui il DNA può essere archiviato: chi si trova in custodia cautelare in carcere o ai domiciliari; chi viene arrestato in flagranza, chi fermato perché indiziato di un qualche delitto.
Per evitare il prelievo del DNA si possono mettere in atto alcune accortezze. Innanzitutto occore per poterlo effettuare, l’autorizzazione a procedere di un magistrato, senza la quale ci si può rifiutare. E’ molto probabile, ovviamente, che le guardie (o chi per loro) ci proveranno comunque, adottando i soliti loro atteggiamenti intimidatori o furberie varie.
È utile tenere presente che il DNA può essere prelevato in molti modi: dal sudore alla saliva ai capelli.
Quindi, se ci si vuole sottrarre dalla possibilità di finire nella banca dati, in caso di fermo o arresto sarebbe meglio evitare di bere e fumare, di usare fazzoletti: meglio evitare di lasciare qualsiasi traccia alle guardie!
Ricordiamo che il sudore resta sugli indumenti e, per esempio, dopo una manifestazione, potrebbero andare a caccia di qualcosa per fare dei confronti…
Sarebbe importante far circolare tutte le informazioni che abbiamo a riguardo così da tenerci aggiornati e dotarci di strumenti di riflessione: sappiamo bene, infatti, di quanto spesso ci sia un divario tra l’enunciazione delle leggi e la loro applicazione e di quanto, questo, faccia concretamente la differenza.
La consapevolezza ci libera da ogni forma di paranoia, spesso causa di immobilismo, perché é importante non cadere nelle trappole del terrore che di volta in volta, a secondo delle necessità ci vengono tese dagli avidi procacciatori di potere.
Buona lotta a tutte e tutti
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