Uccidono il figlio, processano la madre
Aveva 19 anni e stava solo tornando a casa a piedi dopo una notte in discoteca. Ci sarebbe voluta una faticosissima indagine difensiva – una sorta di controinchiesta da parte dei familiari del ragazzo e dei loro legali – perché i quattro agenti fossero condannati in primo e secondo grado per eccesso colposo nell’omicidio colposo. Per il 21 giugno è prevista la sentenza di Cassazione a mettere la parola fine al filone principale del clamoroso caso di “malapolizia” che, tra i vari strascichi, ha visto altri quattro tra colleghi e superiori dei quattro agenti finire alla sbarra per aver contribuito a depistare le indagini di quella domenica mattina.
Intanto, però, c’è quest’altro processo che ribalta le posizioni e prova a inchiodare la madre coraggio grazie alla quale si riaprì un caso dopo cento giorni di silenzio assordante e il tentativo di processare lo stile di vita della vittima anziché gli abusi della polizia. La querela della pm arriva nel 2010 dopo le sentenze sui depistaggi che, probabilmente, le impedirono di impostare correttamente le indagini.
Però, tra gli articoli “alla sbarra” ci sono anche quelli sul caso Bad Boys, rampolli della Ferrara-bene, tra cui il figlio della pm, accusati di spaccio. All’epoca ci fu chi tentò un collegamento tra quell’inchiesta e la lentezza del caso Aldrovandi fino alla rinuncia della pm nel febbraio 2006. E forse la pm vuole sciogliere proprio quel nodo. Ma proprio quei tre mesi opachi potrebbero essere illuminati dal nuovo procedimento all’apparenza paradossale. In aula con Patrizia ci saranno anche giornalisti della Nuova Ferrara: il direttore Paolo Boldrini, il giudiziarista Daniele Predieri e Marco Zavagli, collaboratore esterno, direttore del quotidiano on-line Estense.com. Quest’ultimo non è l’autore di uno degli articoli contestati, scritto invece dalla giornalista Alessandra Mura ma la procura di Mantova e la gup che ha deciso il processo sostengono che sarebbe lo pseudonimo usato da Zavagli.
La pm Guerra si costituirà parte civile ma solo nei confronti del quotidiano La Nuova Ferrara e non di Patrizia Moretti, chiedendo ai giornalisti un risarcimento almeno di 300mila euro più 1 milione e mezzo di danni nel processo civile in corso ad Ancona. Guerra, che quella mattina – forse depistata dagli agenti accorsi – non si presentò sul luogo del delitto, è convinta di essere stata oggetto di una «campagna denigratoria e diffamatoria».
Tra i testimoni a Mantova, le difese hanno messo in lista i giudici Francesco Caruso, Monica Bighetti, il pm Nicola Proto, gli ex procuratori capo Severino Messina e Rosario Minna, il giudice d’appello Luca Ghedini. Anche il sindaco estense Tiziano Tagliani, nella veste di avvocato, così come don Domenico Bedin e Anne Marie Tseguaeu, testimone della colluttazione tra Federico e gli che proprio Tagliani assisterà nella delicatissima fase della sua presa di parola, unica testimone – terrorizzata per eventuali ritorsioni – nella “zona del silenzio” ferrarese.
Per Articolo 21 e per il sindacato dei giornalisti il processo altro non sarebbe che un attacco alla libertà di stampa. «Amaramente penso che chi querela le vittime non cerchi giustizia, ma affermazione di potere», scrive Patrizia nel suo blog, quello da cui scaturì la campagna di controinformazione decisiva per l’impulso alle nuove indagini. La donna ha avuto già diverse querele anche da parte dei responsabili della morte di Federico. Tutte archiviate. Fino al processo di Mantova deciso con una rapidità irrituale. Anche il questore dell’epoca altri pezzi della polizia si sono dedicati negli anni a inseguire, denunciare, intimorire i frequentatori del blog con un’energia che avrebbe meritato altri obiettivi.
«In molti – dice ancora Patrizia – per la paura di un processo hanno patteggiato e pagato loro dei soldi. La gente normalmente teme i Tribunali, si sa. I miei avvocati hanno dovuto rispondere al loro Ordine per richiami partiti dal vertice della Procura ferrarese. La stessa procura che chiese l’identificazione dei giornalisti (tra cui questo cronista, ndr) e dei direttori di quelle testate che parlavano del caso Aldrovandi».
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