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Processo Askatasuna: la giustizia dei ricchi e potenti
Il processo per associazione a delinquere nei confronti di alcuni/e militanti di Askatasuna, del Movimento No Tav e dello Spazio Popolare Neruda sta per giungere alla conclusione e al netto della cronaca delle singole udienze, comunque vada, è ora di iniziare a fare un bilancio provvisorio per capire cosa sta succedendo e dove stiamo andando.
Riprendiamo il punto di vista di Associazione a Resistere
La vicenda è piuttosto indicativa di vari aspetti che riguardano non solo i movimenti sociali, ma i mutamenti della società, della giustizia dei tribunali e più in generale delle democrazie borghesi.
Proviamo brevemente a riassumere la vicenda (chi volesse comprenderla in modo più esteso può leggere questo articolo): dal 2019 la DIGOS di Torino porta avanti un’inchiesta che ha come obiettivo il movimento No Tav, Askatasuna e lo Spazio Popolare Neruda. E’ un’inchiesta in grande stile con microspie, telecamere e intercettazioni. Decine di migliaia di euro dei contribuenti vengono spesi per scavare nella vita di militanti ed attivisti che si battono contro le grandi opere inutili, la devastazione ambientale, gli sfratti e l’impoverimento sociale. Alla conclusione delle indagini la Digos guidata da Carlo Ambra e la Procura vorrebbero contestare il reato di Associazione Sovversiva ad una settantina di persone tra Movimento No Tav e lotte sociali torinesi. Peccato che il Giudice per le indagini preliminari smonta tutto, non solo l’associazione sovversiva, ma anche altri reati pesanti che vengono ipotizzati dalla Questura come il sequestro di persona. Nonostante l’inchiesta si riveli un flop parte una canea mediatica di significative dimensioni, nutrita scientemente dalle veline che la Digos fa quotidianamente trapelare. In questo contesto la PM con l’elmetto Pedrotta, corre ai ripari e riformula le accuse: non più associazione sovversiva contro 69 persone, ma associazione a delinquere contro 16 militanti che, secondo la nuova tesi della procura, si sarebbero incistati dentro il Movimento No Tav, il centro sociale Askatasuna e lo Spazio Popolare Neruda per mettere in atto i propri “propositi violenti”. Ecco che qui assistiamo al primo paradosso.
Il senso della militanza politica
Sì perché una volta caduta l’ipotesi di associazione sovversiva bisogna spiegare per quali fini gli imputati si sarebbero associati: con un’accusa di questo genere non basta evidenziare che i soggetti coinvolti hanno commesso ripetutamente dei reati insieme (cosa che in questo caso non è a sua volta vera se ci si attiene lo storico dei processi e delle condanne), ma bisogna dimostrare che questi reati fanno parte di un “programma criminale” condiviso con dei fini specifici.
L’approccio più ovvio, quello tentato in altre occasioni, è provare a tirare fuori delle motivazioni economiche. Abbiamo osservato negli ultimi anni diversi tentativi, di solito finiti nel nulla, in cui le procure hanno perseguito i movimenti di lotta per la casa o i sindacati di base attaccandosi a presunti “racket” che regolarmente si sono palesati come invenzioni giudiziarie e giornalistiche. Ma su questo piano nell’inchiesta Sovrano non c’è ciccia che sostanzi neanche minimamente le motivazioni economiche. Non che non ci abbiano provato, almeno per quanto riguarda lo Spazio Popolare Neruda, ma non sarebbe stata in piedi.
Ecco dunque che Pedrotta e Gatti, come di fatto ammettono in una nelle prime udienze, vogliono fare un esperimento: vedere se, per la prima volta in un tribunale, si può dimostrare che la finalità di una associazione a delinquere può essere la ripetizione di atti violenti di per sé. L’idea quasi lombrosiana che sottintende l’accusa è che nel caso di Askatasuna la politica è un mezzo per fare violenza. D’altronde questo è un pregiudizio molto diffuso nei confronti dei movimenti sociali, specialmente negli ambienti di destra e qualunquisti: “Quelli vanno agli scioperi/alle manifestazioni solo perché vogliono fare casino”.
Ovviamente questo tipo di retorica da bar può funzionare sui social network, ma nel concreto presenta una serie di fallacie logiche, tanto che le motivazioni cambiano di udienza in udienza. Si spiega che l’obiettivo di questo sodalizio sarebbe quello di impedire la realizzazione della Torino-Lione, cioè li si accusa in sostanza di essere No Tav. Poi si aggiunge che la vorrebbero impedire con l’uso della forza, ma è talmente evidente la sproporzione tra i mezzi delle forze dell’ordine e quelli dei No Tav che il livello della forza necessaria per impedire “sul piano militare” il Tav sarebbe totalmente fuori scala per un movimento popolare come quello valsusino. Questa concatenazione di fallacie logiche non ha via d’uscita, tanto che il Procuratore Generale Lucia Musti nel suo comizio all’inaugurazione dell’anno giudiziario è tornata a parlare di “eversione” tesi già smentita, come abbiamo visto, dal giudice istruttore che non ha confermato l’accusa di associazione sovversiva.
Il punto è che dietro questa coltre di finalità evanescenti vi è il tentativo di nascondere il senso della militanza politica. In questa contemporaneità non è concepibile, o almeno non dovrebbe esserlo secondo i canoni dominanti, che delle persone antepongano l’idea di agire per il benessere collettivo ai propri interessi individuali. Ci dev’essere qualcosa dietro: se non sono i soldi e non è il potere, bisogna tornare a concezioni della devianza di inizio novecento. Ma per fare ciò non basta il codice penale, bisogna uscire dalle aule di tribunale e spargere fango.
Character assassination
Le finalità evanescenti proposte dall’accusa non sono l’unico aspetto ballerino di questo processo, perché non si capisce bene nemmeno chi sia seduto “effettivamente” sul banco degli imputati. O meglio, dalle carte sono 22 gli accusati, di cui 16 per Associazione a Delinquere, ma in realtà a seconda delle occasioni ad essere tirato in ballo è l’intero Centro Sociale Askatasuna e/o l’intero Movimento No Tav. Spesso condotte individuali vengono attribuite all’intero movimento e viceversa: condotte collettive vengono trattate come se attuate da un gruppo ristretto di individui.
Nonostante la PM Pedrotta abbia spesso ripetuto che il processo non sarebbe stato “contro Askatasuna” varie volte durante il dibattimento le sue argomentazioni si sono riferite implicitamente all’intero centro sociale. Ovviamente questo non stupisce: semplicemente non si può dimostrare la tesi secondo cui un gruppetto di militanti, all’insaputa dei più, si è incistato dentro un collettivo e ne ha preso il controllo per le proprie finalità. Accusa particolarmente svilente non solo per chi è finito a processo, ma anche per i compagni e le compagne che fanno parte di questi percorsi che vengono disegnati come succubi di un complotto. Dunque si processano questi 16 per processare, almeno davanti all’opinione pubblica, le intere collettività di riferimento.
Chiunque sia stato almeno una volta ad una marcia No Tav o ad un’iniziativa del Neruda o conosca la realtà di Aska sa bene che non è così, ma poco importa, perché sebbene decine di professori universitari, intellettuali, giornalisti, politici, attivisti tutt’altro che “organici” all’autonomia torinese abbiano testimoniato in aula che questa regia occulta non esiste, sui giornali viene settimanalmente ripetuto lo stesso copione.
La narrazione che viene fatta sui media ci dice molto di quali siano i reali obiettivi della controparte. Ad ogni manifestazione in città o in valle (ed in alcuni casi anche in manifestazioni nazionali) l’ufficio stampa della Questura rilascia veline in cui si parla di una regia di Askatasuna. Incredibilmente le indagini sono estremamente celeri nell’attribuire la responsabilità al centro sociale torinese il giorno stesso del corteo o il giorno dopo, anche se poi ci vogliono mesi, se non anni per accertare le responsabilità individuali, in inchieste e processi che non poche volte si sono conclusi con pene lievi o assoluzioni per i/le militanti coinvolti/e. Regolarmente la realtà si dimostra più complessa, persino alla luce delle sentenze dei tribunali in cui regolarmente negli anni questa tesi è stata smentita. Ma non importa: “una bugia ripetuta mille volte diventa la verità”, specie se una gran parte dei media riprende acriticamente tutto ciò che esce dagli uffici di Via Grattoni. Senza considerare quei “giornalisti” che proprio sulle relazioni speciali con l’ufficio della Digos ci hanno costruito e ci costruiscono carriere.
Ma se l’obiettivo è tentare di isolare i compagni e le compagne che fanno parte di Askatasuna mostrandoli come dei burattinai senza scrupoli, nella pratica questa è rimasta una pura bolla mediatica per tre motivi principali: in primo luogo le lotte sociali in città ed in valle coinvolgono un tessuto di militanti, attivisti/e e gente comune molto più esteso e non riconducibile all’autonomia. Il protagonismo all’interno delle mobilitazioni sociali è ampio, diffuso e trasversale anche in questi tempi di riflusso generale, dalle assemblee, alle manifestazioni fino ad i momenti di conflitto sociale. In secondo luogo, è chiaro a molti e molte che nell’ultimo decennio spesso e volentieri se una regia delle tensioni di piazza c’è stata questa è imputabile alla Questura. Una dimostrazione su tutte è quella della gestione di piazza del primo maggio da un po’ di tempo a questa parte, in cui la tattica della polizia è sempre la stessa: tentare di negare ripetutamente l’agibilità della manifestazione allo spezzone sociale che riunisce i movimenti, con la celere che si introduce nel corteo e carica violentemente sempre negli stessi punti. Questa dinamica, sebbene sui giornali venga raccontata attraverso le veline di polizia, è ormai ben chiara a tutti/e coloro che partecipano alla manifestazione, tanto che personalità, organizzazioni e persino figure istituzionali lontane dall’autonomia hanno preso posizione su questa gestione della piazza. Ma questa pratica provocatoria non ha avuto luogo solo in occasione del primo maggio, sono decine negli anni le manifestazioni in cui la questura ha acuito le tensioni e cercato l’incidente di piazza. Alcuni esempi possono essere le manifestazioni di EsseNon dove la celere ha caricato ben dodici volte i manifestanti per impedire la partenza del corteo oppure la manifestazione degli studenti medi contro l’alternanza scuola lavoro dove Piazza Albarello è stata blindata e gli studenti e le studentesse sono stati malmenati ripetutamente. Infine ad essere fallace è il tentativo di scindere il centro sociale come luogo di socialità e sostegno alla comunità dall’intervento che i compagni e le compagne portano avanti quotidianamente nei settori sociali di riferimento, o il tentativo di presentare l’uno come strumentale all’altro. Chi conosce Aska sa bene che ha portato un contributo in molte lotte, anche politicamente e giuridicamente costose, a viso aperto non perché fossero utili a chissà quale fine occulto, ma semplicemente perché erano giuste e necessarie.
Dunque se non si riesce ad isolare Askatasuna dipingendola come la centrale della violenza lo si tenta di fare attraverso la calunnia. Fin dall’inizio di questa vicenda si sono susseguite fughe di notizia ad hoc che utilizzando spezzoni di intercettazioni estratte dal loro contesto e sapientemente selezionate hanno provato a spargere fango sulla coerenza dei compagni e delle compagne coinvolte nel processo. Battute infelici e conversazioni private sono state selezionate per presentare i/le militanti come razzisti, antisemiti, insultanti della memoria partigiana e chi più ne ha più ne metta. Una vera e propria campagna diffamatoria il cui scopo processuale secondo la procura era dimostrare che le persone coinvolte utilizzavano determinate istanze politiche per i propri fini occulti, anche se spesso leggendo i brogliacci completi delle intercettazioni erano gli/le stessi/e militanti a schernirsi per queste battute, ad affermare che si stava scherzando e a sottolineare il contesto ironico in cui erano state fatte. Ma lo scopo reale della diffusione di queste intercettazioni è delegittimare di fronte all’opinione pubblica, tentando di influenzare il processo, le lotte e le posizioni politiche espresse da Askatasuna, dal Neruda e dal Movimento No Tav.
Si tratta di un tipico tentativo di “character assassination” in questo caso mosso contro delle realtà politiche e sociali invece che verso singoli individui. La “character assassination” è una strategia mediatico-politica ormai consolidata che consiste in un attacco intenzionale e duraturo atto a distruggere la credibilità e la reputazione di una persona o di un gruppo sociale. Può scaturire da invettive, false accuse, esagerazioni, mezze verità fuorvianti o manipolazione dei fatti, per presentare un quadro falsato della persona o del gruppo preso di mira. In quest’epoca in cui la sfera mediatica è diventata così centrale non sono pochi i casi in cui questo tipo di strategie hanno influenzato elezioni, processi e addirittura l’economia (è noto come questo genere di attacchi sia spesso utilizzato da fondi speculativi che scommettono contro un dato operatore economico e che hanno interesse nel vederlo affondare).
Questi tentativi di distruggere la reputazione diventano particolarmente infami quando vi è una profonda asimmetria di potere come nel caso del processo di cui stiamo parlando. Da un lato vi sono istituzioni dello stato, i principali media, politici di ogni risma e colore e squali in cerca di notorietà, dall’altro delle realtà autorganizzate a cui è spesso negata ogni possibilità di replica e i cui social media addirittura vengono chiusi un mese ogni tre per via di una presunta “pericolosità sociale” o perché sostengono cause scomode come quella del popolo palestinese e della rivoluzione confederale del Rojava.
Ma nonostante i quintali di letame che sono stati spalati contro Aska, il Neruda ed il Movimento No Tav il punto è che se le accuse che vengono mosse non hanno neanche un briciolo di aderenza con il reale le persone che conoscono l’agire politico di queste realtà si fanno al massimo una amara risata. Non bastano le trasmissioni della TV sovranista e gli editoriali del giornalismo compiacente a far cambiare idea a chi conosce bene il contesto in cui si muovono questi tentativi. Tanto che ultimamente si leggono articoli in cui le persone di buonsenso che non si allineano alla narrazione dominante vengono indicati come “fiancheggiatori”, come utili idioti ecc… ecc… utilizzando ancora una volta un lessico atto a richiamare gli anni ’70 in una versione squisitamente italiana della “Reductio ad Hitlerum”, ma di segno opposto.
Quali partite si giocano
E’ chiaro che Askatasuna, il Neruda ed il Movimento No Tav sono dei bocconi indigesti per molti. Ma il processo in corso si inserisce in un quadro di interessi più ampi che tangenzialmente o direttamente toccano questa vicenda.
Il nodo più ovvio di questo intreccio di interessi è quello dei vari post-fascisti che ormai occupano poltrone ai diversi livelli istituzionali, ma che a Torino hanno avuto vita dura, non solo per via di Askatasuna, ma per un diffuso sentimento di rifiuto che in città permane nei loro confronti. Personaggi della risma dell’abbaiatrice Augusta Montaruli o dell’ex-consorte Maurizio Marrone non aspettavano altro che sedere su qualche scranno istituzionale per levarsi il sassolone dalla scarpa. Ed infatti non sono mancate le pressioni “poco istituzionali” ed addirittura le leggi regionali “ad-askatasunam”.
La mentalità di questi figuri è quella di una giustizia selettiva che deve colpire nemici e poveri, mentre deve essere indulgente verso i ricchi e potenti, o almeno verso quelli amici. Ciò è evidente se si guarda al garantismo ostentato in molte delle vicende che hanno coinvolto membri del governo, come ad esempio la ministra del turismo Santanché, a fronte di un giustizialismo feroce rivolto verso Askatasuna ed il Movimento No Tav. Ma se questo fa parte ormai della tradizionale ipocrisia di una classe politica che è quasi sempre sovrapponibile ad un determinato comitato d’affari, qualche timore in più dovrebbe nascere dal fatto che un assessore regionale utilizzi la sua posizione per scrivere una legge ad hoc contro degli avversari politici.
Su un piano più generale si possono osservare dinamiche simili a quelle di tutte le medie e grandi città governate dal centrosinistra. Queste vengono considerate dal governo alla stregua di ultime sacche di opposizione dentro un paese che, complice la sfiducia totale nella politica istituzionale ed un voto che ormai è sempre più per censo, ha svoltato a destra. In questo quadro abbiamo assistito negli ultimi mesi allo scontro istituzionale tra le istituzioni locali ed esponenti del governo in occasione di fatti come la marcia fascista a Bologna. Il terreno su cui la destra locale e nazionale attacca il governo della città di Torino è ossessivamente atto a costruire una percezione di un luogo in preda ad una violenza politica fuori controllo. A fare da sponda a questa narrazione ci ha pensato il Procuratore Generale Lucia Musti che come accennato sopra ha definito Torino la “capitale dell’eversione”.
In questo solco si inserisce un partito trasversale che più che alle moine sulla sicurezza è interessato agli affari. Un partito che vede nei movimenti sociali a Torino ed in valle un fastidioso intralcio ai piani di messa a valore dei territori. Molti di quelli che oggi chiedono il pugno duro contro Askatasuna sono gli stessi che hanno partecipato alla piazza “spontanea” delle madamine nel settembre del 2018, tra di essi vi è il Ministro della Pubblica Amministrazione Paolo Zangrillo, ex medico personale di Silvio Berlusconi, che di recente ha concesso una intervista al Corriere chiedendo lo sgombero di Askatasuna. Ad affollare le fila di chi vorrebbe entrare nel partito vi sono tutta una serie di figure in cerca d’autore, come il sempreverde Stefano Esposito che dopo una parentesi garantista dettata dai suoi guai giudiziari è tornato a rilasciare interviste e partecipare a talk televisivi in cerca di una nuova notorietà, naturalmente sempre sulle spalle dei No Tav.
Tra questi naturalmente spicca il coagulo di interessi e poteri legati alla realizzazione del Tav Torino-Lione. Anche in questo caso il processo ha avuto uno svolgimento singolare: mentre la retorica di Telt e dei suoi addentellati politici è che l’opera arriverà a compimento a breve, che i lavori corrono veloci e che il Movimento No Tav è ormai sconfitto, dall’altro lato vengono fatte richieste danni spropositate nei confronti degli attivisti e delle attiviste e si cerca di attribuire da più parti il ritardo nel cronoprogramma dell’opera al movimento. Delle due l’una: o i No Tav stanno realmente incidendo sulla realizzazione della Torino-Lione oppure tutto procede liscio come l’olio. La realtà è un’altra: come ha più volte sostenuto il movimento l’opera è dal punto di vista ingegneristico un incubo, è estremamente dispendiosa e più che la realizzazione dell’opera in sé tra chi la promuove ciò che interessa è il flusso di denaro da spartirsi. Niente possono le svariate inchieste che ormai hanno provato le infiltrazioni mafiose nei cantieri: il 10 gennaio il Consiglio di Stato ha sospeso l’interdittiva antimafia per Co.Ge.Fa azienda coinvolta nei lavori complementari del TAV Torino-Lione finita nel mirino dell’inchiesta della Dda di Torino sulle infiltrazioni della ‘ndrangheta. Miliardi di euro di denaro pubblico vengono dilapidati nella voragine del TAV tra scandali giudiziari e problemi ingegneristici, ma l’associazione a delinquere sarebbe composta dagli attivisti e dalle attiviste che difendono il territorio da questo mostro ecocida?
Non bisogna infatti dimenticarsi che questa inchiesta è iniziata ben prima che il Governo Meloni salisse al potere. E’ diventata operativa a partire dal 2019, nel periodo in cui Salvini dal Papeete fece crollare il governo Conte I proprio con la scusa della reticenza che il Movimento 5 Stelle aveva mostrato nei confronti dell’opera. E’ difficile non pensare che i due fatti siano in qualche modo connessi, e cioè che dopo la caduta del governo i vari interessi coinvolti volessero mettere al sicuro definitivamente la costruzione dell’opera sgomberando il campo da una forza sociale come il Movimento No Tav che, dal basso e senza mai entrare nelle istituzioni, era riuscita a mettere in discussione questo spreco di denaro pubblico. Non va dimenticato che la prima versione dell’inchiesta coinvolgeva un numero significativo di militanti ed attivisti/e del movimento. Forse più che impedire il taglio di qualche metro di concertina e le battiture ai cantieri l’obiettivo era quello di dimostrare che un movimento popolare di massa non può contare ed incidere realmente. La storia confermerà o smentirà questa ipotesi, ma molti elementi ad oggi lo fanno pensare.
Infine non si può non inserire questa vicenda all’interno di un contesto nazionale ed internazionale in cui al sommarsi di crisi ecologiche, sociali ed economiche rispondono i tamburi di guerra. Quasi ovunque osserviamo un restringimento degli spazi di libera espressione e della possibilità di organizzarsi per lottare per i propri diritti. Vediamo tentativi di introdurre leggi preventive, come il DDL Sicurezza, che più che rispondere ad un effettivo dilagare del conflitto sociale ha obbiettivi propagandistici, ideologici e di normalizzazione della società in vista dei tempi di guerra che ci attendono. L’uso degli strumenti giuridici dedicati alla criminalità organizzata nei confronti dei movimenti politici non ha riguardato solo Askatasuna, il Neruda ed il Movimento No Tav: negli ultimi anni abbiamo visto fioccare accuse di associazione a delinquere nei confronti dei sindacati conflittuali, della lotta per la casa e degli attivisti climatici. Il sistema di sviluppo in cui siamo costretti a vivere è talmente incapace di offrire la prospettiva di una vita dignitosa per una parte significativa della società che non può fare altro che tentare di rivolgere la rabbia altrove e agire preventivamente cercando di impedire che ci si organizzi dal basso per costruire un mondo più giusto e più libero.
Resistere
Questa vicenda ci mostra il pozzo nero in cui questo sistema politico-sociale ci sta gettando. Alcuni stanno iniziando a rendersi conto che quanto sta succedendo ai compagni ed alle compagne coinvolte non riguarda solo Askatasuna ed il Movimento No Tav, ma ha a che fare con l’intera società. E’ uno dei molteplici sintomi della barbarie che ci attende se non si riuscirà ad invertire il corso.
Ma quanto sta succedendo ci offre anche alcune lezioni importanti per provare a resistere. Nonostante tutto il fango, la violenza istituzionale e la disgustosa tela ordita intorno al processo i compagni e le compagne coinvolti/e non sono soli/e, ma c’è un’intera comunità al loro fianco. Ciò perché sebbene con limiti, fatiche e pesanti tentativi di silenziamento le realtà di cui fanno parte hanno sempre rifuggito l’autoreferenzialità, hanno sempre pensato che la trasformazione sociale è possibile solo partendo dai bisogni e dalle aspirazioni degli oppressi, degli sfruttati per quanto questi bisogni ed aspirazioni possano essere nascosti, mistificati, compressi dentro la desolante quotidianità del presente.
Essere militanti in questi tempi vuol dire avere pazienza, sopportare le frustrazioni, provare ad adottare uno sguardo lungo, ma non rinunciare all’agire. Senza isteria, senza fughe in avanti. Bisogna rendersi conto che ciò che ci separa dai nostri compagni di lotta è una bazzecola in confronto al futuro che ci si prospetta davanti e che gli sterili politicismi, i posizionamenti ideologici, le divisioni che ci vengono imposte dall’alto servono solo il progetto della controparte. Serve discutere francamente, senza timore e senza paranoie, ma consapevoli che il nemico è altrove.
Serve “uscire dalle nostre stanze”, dai perimetri che ci hanno imposto, ma che spesso ci siamo imposti/e da soli/e alla ricerca della purezza ideologica, di referenti sociali privi di contraddizioni, di situazioni che non ci mettessero in difficoltà con la nostra coscienza. Serve contribuire alla costruzione di identità collettive che non grondino di romanticismo per un passato ormai andato, ma che di quel passato comprendano le intuizioni, le possibilità ancora inesplorate per parlare a quelle persone che condividono con noi la carrozza di coda su questo treno in corsa verso un binario morto. Serve comprendere che intorno a noi è pieno di gente che soffre, che è incazzata, che non sopporta più questo stato di cose, ma non capisce la lingua che parliamo, non ci vede come un’opzione credibile, a volte non sa neanche che esistiamo se non nella versione macchiettistica che dipingono di noi media e politica.
Serve prendersi sul serio, perché la situazione è dannatamente seria. Serve più capacità organizzativa e meno strette organizzative, più intelligenza collettiva, più fantasia, più studio. Dobbiamo essere in grado di muoverci in un contesto estremamente complesso, ma con una chiarezza limpida rispetto a ciò che pensiamo, che comunichiamo, che pratichiamo.
Essere militanti vuol dire scegliere di assumersi delle responsabilità che nessuno ci ha imposto, ma che ci siamo addossati/e perché riteniamo che possa esistere un futuro migliore di quello che ci è stato consegnato e con pragmatismo, cura e coerenza proviamo a realizzarlo.
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