La Repubblica e l’oligarchia
Domandarsi quale sia lo stato dell’informazione mainstream nostrana può sembrare retorico dalle colonne di un portale antagonista. Ma nell’Italia del 2016 calpestata dalla comunicazione di Renzi, come in quella berlusconiana che l’ha preceduta, ci sono molte ragioni per interessarsi dei rapporti di forza in gioco tra gli interessi dei grandi gruppi mediatici. Tanto più quali espressione diretta dell’oligarchia industriale, informazionale e familista (quasi di sapore saudita, nel caso della dinastia Agnelli) che puntella il governo.
In particolare se ci si inserisce nel solco di lotte quarantennali per l’egemonia della carta stampata e poi digitalizzata, che accompagnano il passaggio dalla società fordista a quella informazionale. E che hanno visto nel corso del biennio renziano ulteriori concentrazioni del mercato editoriale (tra Stampa ed Secolo XIX e tra Mondadori e Rizzoli) e rari avvicendamenti alla direzione dei tre quotidiani generalisti più letti (Fontana per il Corriere della Sera, Molinari per la Stampa e Calabresi per la Repubblica).
L’integrazione annunciata ieri tra Gruppo Espresso (la Repubblica) ed Itedi (la Stampa/Secolo XIX) dà vita al primo gruppo editoriale italiano, controllato al 43% da Carlo De Benedetti e al 16% da FCA e dalle famiglie Agnelli e Perrone, con oltre 5,8 milioni di lettori e 2,5 milioni di utenti unici giornalieri sui loro portali online.
Un matrimonio che non sfugge, anzi asseconda le fluttuazioni dei flussi di capitale umano e finanziario, spartendosi al contempo sfere di presenza ed influenza. Davanti ad un settore dei contenuti in crisi di introiti persino prima del crack del 2008, la FCA ex-Fiat Marchionnizzata si concentra sul mercato dell’auto: guardando sempre più ad un palcoscenico globale (con la maggioranza relativa della rivista The Economist, bibbia dei mercati internazionali, e forse nuove acquisizioni) e defilandosi dall’Italia. Il Corriere della Sera perde così il suo principale azionista, senza la possibilità apparente che qualcuno degli altri soci (le principali banche italiane, già alle prese con problemi altrettanto scottanti e la grande imprenditoria dei Della Valle e Cairo) si faccia avanti per colmare il vuoto. Prospettando quindi difficoltà per la governance, e di rimando l’attuale linea editoriale, del quotidiano.
Mentre De Benedetti (millantata tessera N°1 del PD e grande vecchio del capitalismo nostrano), incassati i risarcimenti del Lodo Mondadori non casualmente a ridosso del crollo del governo Berlusconi nel 2011, si candida a rastrellare i finanziamenti dell’imminente legge sull’editoria del governo – che compensa la perdita degli aiuti di stato con i quali il sistema Fiat foraggiava la Stampa. E a rappresentare l’interlocutore principale per le iniziative editoriali e di raccolta pubblicitaria di gruppi come Google, Apple e Facebook (come già accade per l’Huffington Post).
Cosa cambia allora in quello che è stato in passato definito il Partito di Repubblica? Un’entità che forse dovremmo ribattezzare delle tre Repubbliche, per la notevole capacità sua (e della sua proprietà) di innestarsi nelle rispettive fasi storiche (la direzione Scalfari dal ’77 al crollo del Muro, quella Mauro nel ventennio berlusconiano ed ora quella Calabresi) facendosi pastoralmente interprete e catalizzatore di comportamenti sociali aconflittuali e regressivi. Un ricambio da teocrazia, come peraltro scherza (ma nemmeno troppo) lo stesso Mauro al momento del passaggio di consegne con Calabresi: videodocumento da leggere come un manifesto programmatico, di adeguamento ai tempi di un giornale già ben connesso ai veri sovrani di questo paese (vedere la gavetta dello stesso neodirettore – oltreché di Molinari – negli Stati Uniti, la scelta di pubblicarvi di Papa Francesco e gli storici agganci con l’imprenditoria più liberale).
In continuità con l’esperimento della Repubblica delle Idee (una evoluzione da giornale “di partito” a giornale-rete/community) c’è da aspettarsi un approfondimento della territorializzazione del progetto di De Benedetti; la rottamazione dei lunghi sermoni ( soprattutto di un certo ceto intellettuale antiberlusconiano che ha fatto il suo tempo) in favore delle pulsioni (strumentalmente, ma anche prendendo atto del deficit di attenzione del lettore medio); lo storytelling di figure alla Saviano e Gramellini per imbonire o incattivire il lettore/elettore del Partito della Nazione. Un potere che consolidandosi (rispetto a tanti altri corpi intermedi in disfacimento o sotto attacco da parte del governo Renzi) non è detto finisca per alimentare in eterno l’impalcatura mediatica del gradasso di Palazzo Chigi. Ma che in quanto tale pone i succitati nodi come ineludibili anche nel perfezionamento di un’informazione antagonista incisiva.
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