La Cina e la nuova “Via della Seta”. Il segnale di una egemonia globale a venire?
Al timone della Repubblica Popolare Cinese dal 2012, la dirigenza guidata da Xi Jinping ha fatto della Belt and Road Initiative (BRI) uno dei progetti cardine del proprio corso politico. Annunciato per la prima volta all’attenzione internazionale durante un viaggio del nuovo presidente cinese in Kazakhistan del 2013, e battezzato al tempo “One Belt One Road” prima del cambio di denominazione più recente in BRI, il progetto prevede l’implementazione di un vasto complesso di infrastrutture autostradali, ferroviarie, marittime, energetiche, nel campo delle telecomunicazioni, le quali dovranno favorire un ulteriore salto qualitativo nello sviluppo di rapporti economici e commerciali in un’area strategicamente importante a livello mondiale come quella euroasiatica.
Ci si troverebbe di fronte ad una vera e propria rivoluzione nella geopolitica, per quanto si parla ancora solo di progetti e visioni e i progetti già finanziati e approvati sono nell’ambito delle poche unità. Basti pensare che attualmente l’area geo-economica interessata dal progetto “pesa” per il 55% del PIL globale, e impatta sul 70% della popolazione mondiale e il 75% delle riserve energetiche.
La BRI è divisa in due parti: da un lato vi è la parte continentale, la “cintura economica” di superficie che si propone di far rivivere le rotte dell’Antica Via della Seta attraversando l’Asia Centrale per collegare la Cina al porto di Rotterdam nei Paesi Bassi. La seconda parte riguarda invece la sfera marittima, con l’obiettivo di assicurare collegamenti sicuri e rapidi dal porto di Fuzhou in Cina al mar Mediterraneo, passando per l’Oceano Indiano ed il Canale di Suez. Si delineerebbe, quindi, un progetto di realizzazione di infrastrutture logistiche che attraversano aree geostrategiche di rilevanza assoluta, che potrebbe rivoluzionare l’architettura della connettività globale.
La BRI è presentata con la consueta retorica della politica estera cinese, attiva nell’attuazione di partnership win-win, in cui entrambi i contraenti otterrebbero dalla cooperazione benefici reciproci. In questo senso, le necessità di Pechino sono varie e molteplici: assicurare rotte commerciali più rapide per portare le proprie merci in Europa; trovare nuovi mercati alla propria industria pesante; poter interagire con paesi ricchi di materie prime (idrocarburi, terre rare, metalli preziosi); proseguire nel processo di internazionalizzazione dello yuan. A queste esigenze, nei piani di Pechino, si potrebbe dare soddisfazione con un progetto come la BRI che porterebbe dividendi positivi ai diversi partner statuali, come il potenziamento delle infrastrutture logistiche e l’aumento dei volumi commerciali.
Il tutto in una prassi che vede le immense ricchezze finanziarie cinesi funzionare da dinamo di una relazione presentata come un’opportunità da cogliere per tutta la comunità internazionale. Le parole di Xi Jinping al Forum di Davos del gennaio 2017 mostrano la volontà della dirigenza della R.P.C. di “riempire il vuoto” nella leadership del processo di globalizzazione planetaria dopo l’avvento alla presidenza USA di Donald Trump. Ma già nel 2015 l’ambasciatore cinese in Gran Bretagna Liu Xiaoming aveva definito la BRI un’“offerta di un passaggio sul treno dello sviluppo economico cinese”. In cambio, le multinazionali cinese acquisiscono – grazie alla collaborazione con gli Stati interessati dal progetto, cui presentano piani complessivi di sviluppo economico dei territori – anche competenze tecnologiche utili nel processo di modernizzazione dell’economia.
Le motivazioni alle radici della BRI sono di carattere interno ed esterno. Le prime riguardano lo stato dell’economia cinese: la crisi globale planetaria innescata dalla bolla dei mutui subprime del 2007-2008, unita al cambiamento demografico che ha modificato sensibilmente la composizione della forza-lavoro cinese soprattutto nelle regioni costiere, ha portato ad un significativo indebolimento – in termini relativi – del settore dell’export della RPC e, di conseguenza, ad un forte calo della domanda estera su cui si basa in maniera predominante la crescita economica cinese.
Conseguenza di questo processo è stata l’accelerazione delle già presenti tendenze al cambiamento del modello di sviluppo del paese, verso uno più orientato al mercato interno e al miglioramento delle infrastrutture logistiche commerciali internazionali in modo tale da sostenere l’export. Da qui si sviluppa il dibattito sul cosiddetto “new normal”, ovvero sulle prospettive di crescita di Pechino ai tempi di una congiuntura economica globale più sfavorevole e di uno stato di sviluppo dell’economia della Cina nella catena del valore globale che obbliga ad un ripensamento della struttura produttiva e di conseguenza ad un ripensamento-riadattamento delle aspettative di crescita; un processo gravido di ricadute sia sullo scenario interno della Repubblica Popolare Cinese sia sull’economia globale.
Quanto presente nel disegno della BRI si riverbera infatti sul piano geopolitico con una potenza inaudita, facendo intravedere una prospettiva capace di agire fortemente sul terreno del soft power, sempre più al centro degli sforzi diplomatici dei decisori politici di Pechino. Il terreno della percezione dell’iniziativa cinese, della sua ricezione da parte dell’opinione pubblica e delle élite politiche globali è importante argomento di dibattito: se Pechino parla, come abbiamo detto, di iniziativa finalizzata alla crescita reciproca delle aree geopolitiche interessate dalla BRI e di creazione di uno spazio importante di cooperazione multilaterale con gli Stati interessati alla partecipazione al progetto, per i detrattori del progetto (tra cui annoveriamo stati decisamente avversi all’iniziativa come Stati Uniti e Giappone ed altri quantomeno scettici come l’India, che seppure membro dell’AIIB vede nella BRI un pericoloso sconfinamento cinese nelle aree di interesse strategico di New Delhi) saremmo di fronte a una sorta di nuova dottrina Monroe, se non di un più esplicito tentativo di proiezione globale che maschererebbe sotto il velo della cooperazione economica transnazionale un più aggressivo programma di espansione logistico-militare-politica in Asia Centrale ed Europa.
Anche l’Italia è interessata dal progetto, sebbene al momento solamente a titolo esplorativo: il Memorandum di intesa firmato tra la città italiana di Venezia e il porto cinese di Ningbo in occasione del Forum della Cooperazione delle Città della Via della Seta ne è un esempio. Nondimeno, in seno al Vecchio Continente sembrano emergere possibili rivalità soprattutto riguardo a quali hub marittimi potranno essere privilegiati (porti nell’Adriatico, porti nel Mare del Nord, ecc…). Non mancano le difficoltà: una di queste è legata alla posizione dell’Ucraina, paese in conflitto con la Russia ma alleato della Cina su molti fronti e contemporaneamente dotato di un posizionamento strategico rilevante e di materie prime e infrastrutture che la renderebbero un partner molto importante nel quadro della relazione tra la BRI e le relazioni sino-europee.
Direttamente collegato alla questione della riscrittura dei rapporti di forza in un mondo orientato al multipolarismo, sembra potersi leggere il forte investimento di Pechino in campo finanziario. La neonata Banca Asiatica di Investimento per le Infrastrutture (AIIB) dovrebbe provvedere a fornire 100 miliardi di euro di finanziamento della BRI e, attraverso la partecipazione del Silk Road Fund, si riuscirebbe a raggiungere un importo totale complessivo di circa 1600 miliardi di dollari di investimenti tra fondi pubblici e privati. Proprio il ruolo della AIIB è particolarmente rilevante a livello geopolitico, dato che vede la partecipazione di 57 paesi tra i finanziatori, tra i quali spicca l’assenza degli Stati Uniti.
Un’assenza non casuale ma che riflette il ruolo politico dell’AIIB in relazione alle istituzioni finanziarie affermatesi dopo il secondo conflitto mondiale. Il progetto della leadership cinese consiste in una rinnovata fase di espansione della propria influenza geopolitica mondiale, certificata anche dalle relazioni che la Banca Centrale di Pechino sta stringendo in maniera costante con istituzioni sovranazionali per affermare sempre di più la propria valuta su scala globale. Lo yuan, dalla fine del 2015, è entrato infatti all’interno del paniere composto dalle cosiddette “valute di riserva” del Fondo Monetario Internazionale, destinate ai cosiddetti Special Drawing Rights, che costituiscono l’oggetto di scambio valutario tra le banche centrali e il Fondo Monetario Internazionale. Lo yuan si aggiunge a dollaro, euro, sterlina e yen, e sarà operativo nel suo nuovo ruolo dal primo ottobre 2016 con una quota di poco superiore al 10%, che la renderà terza dietro dollaro (più del 40%) ed euro (più del 30%).
La BRI costituisce in definitiva allo stesso tempo sia il mezzo per il rilancio dell’economia interna della Repubblica Popolare, sia un dispositivo finalizzato ad aumentare l’influenza internazionale di Pechino in campo politico, commerciale e finanziario. E per chi vedeva una Cina prossima al collasso a causa delle sue contraddizioni e del suo modello non-democratico all’occidentale, o per i cantori dell’impossibilità di una ristrutturazione dei rapporti di forza globali che mettano in difficoltà l’egemonia americana, ci sarà da riflettere molto. Ad emergere in maniera ancora più forte sembrano invece le tendenze verso un assetto multipolare, dove le linee di tensione si moltiplicano e si intersecano con modalità nuove. E che in tempi di ritorno di massa alla chiusura nelle proprie frontiere nazionali, potrebbe accorciare i tempi per una futura presa della leadership politico-economica globale da parte della Cina, con buona pace dei teorici della fine della storia.
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