Ci siamo fatte “formare” dal Movimento per la vita
Cronaca di due giornate vissute con i cattolici integralisti che vorrebbero occupare i consultori del Piemonte…
… dopo il 29 di ottobre, data in cui il Consiglio Regionale del Piemonte ha recepito il “Protocollo per il miglioramento del percorso assistenziale per la donna che richiede l’interruzione volontaria di gravidanza” proposto dall’assessore alla salute Caterina Ferrero, che di fatto sancisce l’ingresso nei consultori dei volontari del Movimento per la Vita, abbiamo deciso di “conoscerli” un po’ più da vicino e dato che il Presidente della Regione Roberto Cota già in campagna elettorale si era impegnato a finanziarne la formazione, abbiamo pensato di assistere proprio a un percorso formativo e di aggiornamento per volontari e aspiranti tali.
Quello che segue è il racconto, rigorosamente autentico, della nostra partecipazione a due incontri del ciclo “Maternità oggi, quello che non si sapeva, quello che non si sa più”
Primo incontro
Sede del Movimento per la Vita, una trentina di persone in sala, la stragrande maggioranza donne tra i 60 e i 70 anni, aria dimessa e un po’ triste, tutte attiviste dei diversi centri di aiuto alla vita (CAV) presenti sul territorio cittadino, pochissimi uomini, decisamente anziani e un gruppetto di giovani donne, una con una neonata.
Argomento della serata la “relazione prenatale e lo sviluppo della personalità”, a cura della professoressa Pia Massaglia, direttrice della Scuola di Specializzazione in Neuropsichiatria Infantile dell’Università di Torino, con intervento previsto del professor Enrico Alba, della facoltà di Medicina.
Ci guardiamo intorno, ci sediamo, un signore si lamenta del fatto che certi programmi sono in mano a gente di sinistra, un’altra ci informa di avere in macchina una foto, scattata da un’amica, di Gesù Cristo: un attimo di smarrimento, incredulità, poi una traccia di sorriso negli occhi… mezzora dopo non rideremo più.
Si comincia e veniamo catapultate in un’altra dimensione, in un tempo e in uno spazio in cui embrioni e feti sono bambini, le donne non sono donne ma mamme, sempre e comunque, la coppia è famiglia occidentale e cattolica, e il partner, rigorosamente maschio, è sostegno, protezione, aiuto economico e strenuo baluardo contro l’aborto.
La bambina ogni tanto piange e la giovane mamma ce la presenta, sottolineando di essersi rivolta a un CAV durante la gravidanza, altrimenti non sarebbe nata!
Nello sguardo che ci scambiamo c’è la consapevolezza di una scelta: ha voluto rivolgersi a un CAV, non le è stato imposto di incontrarne i militanti in un consultorio pubblico…
Si va avanti ed è un fiume di parole, tutte a gravitare ossessivamente intorno ad alcuni concetti cardine: un bambino, anche entro la dodicesima settimana, sente e capisce tutto, e naturalmente, pur senza menzionarlo, in questo modo l’uguaglianza tra aborto e omicidio è evidente; qualsiasi atteggiamento non ponga, fin dai primissimi giorni di gravidanza, al centro il bambino, rappresenta una forma di egoismo e la mamma deve imparare ad acquisire una sensibilità etero centrata che ha nell’attesa della nascita la sua compiuta realizzazione, espressione che noi traduciamo mentalmente in una riduzione della vita di una donna al solo ruolo di incubatrice…
In conclusione l’invito, ai volontari dei CAV, ad un’attività di attento ascolto, per cogliere qualsiasi indizio di crisi possa essere legato all’annuncio di una gravidanza e poterlo così risolvere in tempo, talmente per tempo che, a seguire, viene mostrato un video destinato alle scuole, che ha come argomento i sentimenti pre e post nascita quali si manifestano nell’incontro tra i genitori e il bambino in grembo!
Tono da confessionale, contenuti banali, nozioni esposte in modo superficiale, docenti universitari che, rivolgendosi all’uditorio e agli organizzatori, usano il “noi” e un linguaggio che denuncia la coscienza di aver come interlocutori persone senza alcuna formazione o competenza specifica di tipo sanitario, medico o psicologico.
Si dà infine spazio alle domande: una signora davvero anziana deplora flebilmente il fatto che presso il CAV in cui lei opera continuino a rivolgersi esclusivamente donne sole e in condizioni di estrema difficoltà, una ragazza chiede se si debbano imporre orari per la pappa, per il gioco e per il sonno a un neonato, una donna sui quaranta racconta la storia della sua vita e vuol sapere se la figlia ventenne non si concentra nello studio a causa delle violenze tra i genitori cui aveva assistito quando era piccola…
E non c’è scherno né ironia nel riportare tali passaggi in questa nostra cronaca, ma una grande rabbia, la stessa che impregna i nostri commenti all’uscita: le donne saranno costrette ad avere a che fare, nei consultori, in un momento così delicato della loro vita, con persone assolutamente incompetenti e inadeguate come sono, evidentemente, quelle che hanno seguito l’incontro accanto a noi?
Ed è sufficiente, presidente Cota, un elenco di assunti inconsistenti in salsa cattolico/integralista per formare chi, secondo la sua Giunta, dovrà affiancare l’equipe consultoriale in presidi pubblici e laici?
Secondo incontro
Freddo polare, sala piena, di nuovo quasi esclusivamente donne, ma con alcuni significativi cambiamenti: si è abbassata l’età media ed è mutata la composizione sociale delle partecipanti, evidente dagli abiti, dalle pellicce ( quella degli animali è una vita che vale meno), dalle mani ingioiellate e da qualche viso abbronzato…piste da sci o lampade?
E’ utile precisare che siamo alla Crocetta, il quartiere più snob e borghese di Torino.
Entriamo, facciamo incetta di penne gialle del Movimento per la Vita da portare come souvenir, o trofeo, alle compagne e ci sediamo, convinte, dopo il primo incontro, di essere pronte a sorbirci, senza reagire e senza tradirci, due ore di tirata contro l’aborto e contro le donne che hanno scelto di scegliere, ma nulla, davvero nulla può preparare a quello cui abbiamo assistito noi lunedì 13 dicembre.
Titolo della relazione “il figlio nella mente dopo l’aborto”, inizia a parlare la dottoressa Benedetta Foà, consulente familiare che lavora a Milano, e va in scena l’orrore.
La psicologa esordisce con una serie di affermazioni decise: un bambino non è una cosa e non è un problema, non esiste un momento giusto per fare figli perché ogni figlio è un dono di Dio, un bambino rappresenta un momento di crescita e di responsabilità che fa di una coppia una famiglia, le donne che decidono di abortire ingannano se stesse dicendosi di aver fatto la scelta giusta ma in realtà la loro vita è finita e la cosiddetta scelta è solo una delega in bianco dettata da solitudine e immaturità, che non potrà che segnarle anche a distanza di anni.
E via a sciorinare uno dopo l’altro tutti i sintomi che una donna che ha interrotto una gravidanza, in quanto affetta da sindrome da stress post aborto, necessariamente manifesta: senso di colpa, ovviamente!, incubi notturni spaventosi, dolore lancinante, ruminazione mentale (che diamine è?), perdita di forza fisica, abuso di sostanze, disturbi alimentari, perdita della gioia di vivere, perdita del lavoro, angoscia, depressione, nevrosi, bassa autostima, incapacità a uscire di casa, insofferenza verso le donne incinte e, per finire, ritrazione sessuale.
Nessun riferimento accademico, teorico o scientifico, solo vaghi cenni a studi statunitensi, irlandesi e finlandesi degli anni 80, da cui, tra l’altro, emergerebbe che le minori che hanno abortito si suicidano 6 volte di più delle coetanee.
Ma se le ragazzine sono a rischio suicidio, le donne, maggiorenni, che hanno abortito sono donne malate, e come tali vanno curate.
Una compagna sussurra a voce bassa e lo sgomento nello sguardo: con l’elettrochoc?
A questo punto la dottoressa Foà illustra in che cosa consiste la terapia che lei pratica, nell’ ottica di costruire una relazione tra la paziente/mamma, che non è più tale, ma è viva, e il figlio, cui è stata tolta la vita terrena (ma non quella eterna, viene precisato): la “mamma” deve prima scrivergli una lettera, poi, per concretizzarne l’esistenza che gli ha sottratto, portare con sé un ciuccio, un peluche o una tutina e infine, ammettere di aver ucciso.
L’immagine di una donna che viene spinta a confessare l’omicidio del figlio (?!) stringendo tra le mani un oggetto di quel tipo è un vero choc per noi, non è facile rimanere sedute ma resistiamo e osserviamo il viso soddisfatto della consulente mentre ci racconta che a questo punto molte sue pazienti decidono di far dire una messa per il loro bambino e lo lasciano così andare in pace, quella pace che dubitiamo un tale metodo regali loro…
Cambia la scena, cambia il filo conduttore e si passa all’attività dei CAV: cosa fare per difendere la vita, chiede la relatrice, dato che negli ospedali non “ci” vogliono e i medici sono sempre lì con in mano il certificato per l’interruzione prima ancora di capire che cosa la donna voglia fare?
L’insistenza sulla estrema libertà dei medici nel convincere all’aborto è ricorrente lungo tutto il percorso formativo, e a noi vengono in mente le ginecologhe, le infermiere e le ostetriche che abbiamo avuto al fianco nelle lotte in questi anni o che ci hanno accolto nei consultori: disponibili, attente, sensibili, impegnate a far funzionare un servizio che è delle donne e per le donne… secondo il Movimento per la Vita, libere, troppo libere di scegliere e far scegliere.
E’ energico il richiamo finale a ciò che interessa loro davvero: l’ingresso nei consultori e negli ospedali, con l’obiettivo di portarvi misericordia cristiana in generale e spazi di intervento nel particolare, in cui salvare bambini.
Intercettate prima, prese in carico durante, terrorizzate psicologicamente dopo: è questo il destino che hanno in serbo per noi, è questo quello per cui si stanno preparando.
L’incontro è finito, ce ne andiamo esauste e sfiorando il tavolo preparato per il catering ci sembra di vedere tra i vassoi, i piatti e i bicchieri ancora una volta i nostri corpi fatti scempio per un voto, per una promessa elettorale, per sconfiggere finalmente, a trentadue anni dall’approvazione della pur imperfetta legge 194, il nemico che fa loro più paura: la nostra autodeterminazione.
Lo abbiamo detto alle compagne, alle donne che hanno ascoltato incredule il nostro racconto: a noi quel tavolo imbandito ricordava solo il tavolo delle mammane e la nostra risposta non cambia, allora come oggi: sul nostro corpo, sulle nostre vite, sulla maternità, decidiamo solo noi.
Ed è una risposta di vita.
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