Orario di lavoro: ritornare ad agitare lo spettro di classe
La questione dell’orario di lavoro è sicuramente uno di quei temi centrali nell’annoso conflitto tra capitale e lavoro e certamente, insieme al tema del salario/reddito, uno dei più cari alla classe lavoratrice.
Produttività, performance, stress lavorativo, conciliazione, tempi tra lavoro e famiglia, sono certamente tra i capitoli più discussi dal settore scientifico disciplinare che si occupa delle politiche del lavoro. Spesso il dibattito si acuisce quando l’attualità pone sul piatto alcune esperienze di riduzione dell’orario lavorativo o la sperimentazione di nuove forme di impiego come il telelavoro o il lavoro agile (smart working).
In ambito scientifico, gli studiosi si dividono. Ci sono sociologi che affermano come con l’attuale sviluppo tecnico basterebbe una mezza mattinata lavorativa diffusa capillarmente per svolgere tutte quelle attività residue che le “macchine” e le piattaforme non riescono ancora a surrogare. Altri, meno entusiasticamente, affermano che la letteratura scientifica non è ancora giunta a stabilire con certezza gli effetti che la riduzione dell’orario settimanale di lavoro può avere su occupazione, competitività e crescita. Gli apocalittici affermano che presto non ci sarà più lavoro per nessuno; gli integrati controbattono che siamo solo in un periodo di transizione per cui i lavori oggi soppressi per l’utilizzo delle macchine o dell’intelligenza artificiale saranno presto rimpiazzati da altri lavori che si creeranno grazie alle medesime innovazioni tecnologiche.
Sospendendo per il momento il giudizio sul dibattito accademico a proposito di tali tematiche, vediamo un po’ di nudi dati. Nel 2022, il numero medio di ore di lavoro settimanali effettive nell’UE variava da 32,4 ore nei Paesi Bassi a 39,7 ore in Grecia e Romania. Fuori l’Unione troviamo la Turchia che ha di gran lunga la settimana più lunga con le sue 42,9 ore lavorate (dati però del 2020) seguita a stretto giro da alcuni paesi balcanici come Montenegro e Serbia con settimane lavorative medie superiori alle 40 ore. L’Italia si pone sopra la media Europea, avendo paradossalmente ore in più lavorate ma con un tasso di produttività inferiore alla media.
Questi i dati ufficiali ma chi si occupa di politiche del lavoro sa quanto reperire dati verosimili sia un’impresa non da poco e non per mancanza di professionalità ma per una serie di limiti procedurali che rendono ufficiali i dati. La raccolta e la pubblicazione dei dati sono soggette a normative UE che stabiliscono come definire ad esempio se una persona è o meno occupata. Esiste anche un altro problema sostanziale nella comprensione del dato. Il reperimento e l’utilizzo di dati certi risulta molto difficoltoso. Se assumiamo il dato delle ore retribuite così come si evince dai contratti, sottovaluteremmo il fenomeno del lavoro nero attraverso l’utilizzo di lavoratori part-time che celano un orario effettivo di lavoro oltre quello concordato contrattualmente.
C’è differenza quindi tra settori produttivi che assumono prevalentemente o in una percentuale importante lavoratori part-time, rispetto ad altri dove è più ricorrente la formulazione di contratti a tempo pieno. Differisce anche il peso del lavoro umano sulla produttività complessiva in settori altamente macchinizzati o informatizzati.
Dal punto di vista empirico, la letteratura non riporta evidenze circa un nesso causale tra la riduzione dell’orario di lavoro e l’aumento del numero degli occupati, si assisterebbe invece a un aumento della produttività come diretta conseguenza della maggiore concentrazione sui tasks (di lavoratori meno sottoposti a sforzi e stanchezza) e dell’aumento della spinta motivazionale. Una maggiore produttività oraria deriverebbe, parallelamente, dalla revisione in melius dell’organizzazione del lavoro che porterebbe a produrre di più in un lasso di tempo minore (i dati OCSE sembrano confermare un andamento generale secondo cui nelle economie più ricche si registra un minor numero di ore lavorate) (INAPP, Working Paper n. 96, gennaio 2023).
Una grossa sperimentazione rispetto alle forme lavorative, piuttosto che alle ore lavorate, l’abbiamo avuta, non volendo, durante la fase pandemica. Molte imprese private, così come gli uffici pubblici, sono state costrette a permettere ai propri lavoratori di lavorare da casa. Certamente tutto il settore dell’informatica, dei call center e delle piattaforme è ricorso immediatamente allo smart working. In molte interviste a capi d’azienda in vari settori, risulta un livello produttivo non alterato rispetto al periodo pre-pandemico tanto che molte aziende hanno prolungato queste forme lavorative anche oltre il periodo emergenziale.
In alcuni settori il lavoro agile è divenuto di fatto la forma maggioritaria e, nel Sud Italia, si è assistito al ritorno di una fetta importante di popolazione giovanile occupata al Nord che ha trovato economico abbandonare la casa in affitto vicino al luogo di lavoro per tornare presso il nido familiare. Questo la dice lunga su quanto la tecnologia possa de facto influire su forza lavoro, orario di lavoro e produttività. Va ricordato che, almeno oggi, il livello di automazione tende a scalzare quei lavori prima affidati a forza lavoro a bassa specializzazione, call center, produzione in catena e oggi anche la vendemmia e la raccolta di ortaggi.
Ritornando più strettamente all’orario lavorativo, a fine 2022 fu il gruppo Intesa San Paolo a proporre una riformulazione dei tempi lavorativi ai suoi 74mila dipendenti solo in Italia. La proposta era quella di strutturare il lavoro su 4 giorni settimanali e arrotondare, anche se di poco, il monte orario dalle consuete 37,5 ore a 36 ore settimanali, quindi con una media di 9 ore al giorno a parità di stipendio. Dopo lo stop di riflessione arrivato dai sindacati, la proposta è stata resa operativa da Gennaio del corrente anno. L’accordo prevede anche la possibilità di lavorare da casa per 120 giorni annui: lavoro flessibile o settimana corta?
Secondo i dati aziendali, dal 1° Gennaio hanno aderito al lavoro flessibile circa 40.000 dipendenti contro i 17.000 che hanno preferito la settimana corta. Alle adesioni purtroppo non sono poi seguiti i dati relativi al reale utilizzo del tempo flessibile e al numero di settimane corte effettivamente lavorate. Tendenzialmente però pare emergere dai numeri, una maggiore propensione dei lavoratori del terziario ad usufruire di un orario di lavoro più flessibile e casalingo.
Di recente ha fatto sua questa sperimentazione il gruppo Luxottica che nel contratto integrativo ha ragionato di settimana corta con i sindacati. Parliamo di un bacino di circa 20mila lavoratori che potranno lavorare 4 giorni su sette a parità di salario, sacrificando solo 5 permessi retribuiti.
Sulla proposta è intervenuta la segretaria generale Femca Cisl Belluno, Milena Cesca: I lavoratori oggi alle aziende chiedono soprattutto tempo di vita, e la vera sfida è di dimostrare che si può essere efficienti e produttivi lavorando meno ore. Il mondo del lavoro sta attraversando una fase di profonda trasformazione. I giovani sono molto più dinamici, non sono più attaccati al posto fisso come un tempo, cambiano lavoro più spesso e vanno dove c’è più welfare e più flessibilità (fonte: chronist.it).
In Islanda, tra il 2015 e il 2019, è stato condotto un esperimento nel settore pubblico di riduzione, a retribuzione invariata, dell’orario di lavoro da 40 a 36-35 ore per 2.500 lavoratori. L’esperimento ha fatto evidenziare la conservazione dei livelli di produttività nonostante il minore monte orario lavorato. Anzi in alcuni specifici settori si è evidenziato un aumento di produttività. A questo elemento si è affiancato parallelamente un minore stress ed un equilibrio maggiore tra lavoro e famiglia.
In Spagna il Governo Sánchez ha previsto uno stanziamento di oltre 50 milioni di euro (con riferimento al triennio 2022-2024), al fine di sostenere la riduzione della settimana a 4 giorni lavorativi. Ciò sulla base dell’esperienza del Governo regionale della Comunità valenciana, che nel 2018 ha sviluppato un programma di incentivi volti appunto alla riduzione dell’orario di lavoro a parità di salario […]. Nell’azienda Desigual invece la riduzione della settimana lavorativa a quattro giorni – dal lunedì al giovedì – (che è affiancata dall’opzione di usare anche lo smart working), è stata approvata dai lavoratori attraverso un referendum votato a larga maggioranza (86% dei lavoratori) e, al contempo, anche una diminuzione del salario pari a 6,5%. In realtà, si tratta di una prima sperimentazione e il progetto del governo tende ad arrivare al mantenimento di livelli retributivi invariati, a fronte di una riduzione del tempo lavorato. Nei Paesi scandinavi il tema è all’ordine del giorno. In Finlandia la premier Sanna Marin, fin dal suo insediamento, ha presentato un progetto che prevede un orario settimanale di 24 ore (4 giorni per 6 ore delle attuali 8). A ispirarla, presumibilmente, la vicina Svezia, in particolare la città di Goteborg in cui l’azienda Toyota ha introdotto la giornata lavorativa di 6 ore (a parità di stipendio) con risultati davvero incoraggianti: miglioramento della qualità della vita dei dipendenti e produttività in aumento. In Giappone le sperimentazioni hanno riguardato, tra le altre, le aziende Cybozu e Microsoft. Quest’ultima nel 2019 ha introdotto per tutti i dipendenti 32 ore settimanali, facendo registrare aumenti della produttività fino al 39% in un solo anno e, parallelamente, una riduzione dell’inquinamento riferito alla mobilità con una produzione di CO2 scesa del 20% (INAPP, Working Paper n. 96, gennaio 2023. p. 9).
In questi brevi esempi di nuove sperimentazioni lavorative cogliamo alcune sfumature interessanti. L’uso operaio della lotta salariale può diventare il punto di svolta per avviare a soluzione i problemi dell’organizzazione politica dopo gli anni sessanta, annotava Tronti nel primo numero del 1968 della rivista Contropiano. E continua dicendo: “Gli operai moderni, e non da oggi, vogliono soprattutto due cose: lavorare poco e guadagnare molto; in più vogliono il potere per garantire queste due conquiste dai flussi e riflussi a cui li sottopone il dominio incontrastato dell’interesse capitalistico. Vogliono lavorare poco perché odiano il lavoro e odiano il lavoro più di tutto, più del padrone”.
Nelle analisi a cui sono stati sottoposti questi esperimenti di riduzione dell’orario di lavoro alcuni punti sono ridondanti e certamente quanto scriveva Tronti nel ‘68 non aveva nulla a che fare con la riduzione delle ore lavorative che avvengono dall’alto, per decreto o scelta aziendale, ma piuttosto come risultato diretto di una pratica di lotta di classe. Però quello che vogliamo provare a sottolineare è l’importanza per il lavoratore oltre che al livello salariale, è la quantità di ore lavorate e quindi il rispettivo tempo di vita. Lavorare meno, lavorare tutti si diceva ma non solo per estinguere il dramma della disoccupazione, ma ancora di più per sottrarre tempo di vita dalla schiavitù del lavoro.
Da qui la centralità strategica di ritornare ad agitare lo spettro del binomio orario/salario con una rinnovata costruzione teorica che preluda ad una nuova visione politico/sociale che ponga al centro le innovazioni tecnologiche del nostro presente, già analizzate in lungo ed in largo dagli economisti classici e da quelli di ispirazione marxista, e la maggiorata produttività del lavoro. Dove è andata a finire questo plus-prodotto del sudore delle classi lavoratrici insieme alle lacrime di precari e disoccupati? Sicuramente sono andati a rimpinguare il flusso finanziario che come un fiume in piena esonda nelle tasche dei padroni del mondo. Come dirottare questo flusso affinché una parte di queste lacrime e sudori ritornino alle classi subalterne sotto forma di reddito e tempo di vita è la trama del saggio ancora da scrivere e della narrazione di classe da rispolverare.
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