Lavoro sottopagato, vita carissima e ambiente devastato
“La verità è che né l’umanità è colpevole della crisi ecologica né la natura e la società sono cose separate. In realtà, i corpi della classe lavoratrice vengono sfruttati nello stesso modo del resto della natura.”
Il presente testo è la traduzione di un articolo di Rubén Martínez e Carme Arcarazo (La Hidra Cooperativa) pubblicato in castigliano su Público il 26/07/2022.
Quando sentiamo “ecosistema” spesso ci viene in mente l’immagine di un insieme di rapporti armoniosi simili a quelli di un bosco pieno di vita. Il nostro immaginario sull’ecologia normalmente coincide con un quadro idealizzato della “natura” dove convivono fauna e flora senza praticamente traccia di vita umana. Infatti, se qualcosa minaccia questo equilibrio è la nostra frenetica attività urbana.
Seguendo questa narrazione, si arriva facilmente all’idea che la natura e le sue forme sono opposte al mondo sviluppato dagli umani. La natura è il contrario della nostra società. Il nodo di questa storia è che l’umanità sta mettendo in pericolo la natura, che a sua volta, nonostante tutto il veleno iniettato, lotta per mantenere il proprio stato originario. Le ondate di caldo, gli tsunami e l’estinzione di specie sono la prova della nostra irrazionalità e, allo stesso tempo, sono come un urlo furioso della natura: “Umani, basta!”. Ecco dunque la morale di questo racconto: la specie umana non è soltanto la causa della crisi ecologica, ma anche della propria estinzione. Quella che iniziava come una storia fraterna fra pini, cinghiali e rosmarini finisce per essere un horror di serie B: l’umanità è una piaga di locuste… ed è addiritura cannibale!
Questa narrazione gioca con alcune verità per rafforzare un messaggio che, con buona volontà, alcune persone considerano necessario portare avanti per spingere verso un cambiamento. Ciononostante, il risultato è un’omelia piena di feticci e di piaghe bibliche. La verità è che né l’umanità è colpevole della crisi ecologica né la natura e la società sono cose separate. In realtà, i corpi della classe lavoratrice vengono sfruttati nello stesso modo del resto della natura. Per chiarire le cose, guardiamo un caso concreto. Parliamo di Barcellona.
L’Area Metropolitana di Barcellona comprende 636 km² ed è abitata da 3.3 milioni di persone, quasi il 50% della popolazione catalana. L’ecosistema di questo territorio include la nostra interazione e dipendenza con il Delta del Llobregat o con il Parco Naturale della Sierra di Collserola, ma questo è solo una parte dell’insieme di rapporti che conformano un metabolismo molto complesso. Non ha forse trasformato il nostro ecosistema il processo di urbanizzazione comandato dal capitale e dal potere pubblico che si è espanso per decenni? La delocalizzazione dell’attività industriale e il disegno di ambienti dedicati ai servizi hanno riorganizzato completamente il territorio. Come succede spesso nelle città moderne, i luoghi per abitare, per lavorare e per lo svago tendono ad essere fisicamente separati in spazi monofunzionali. Pian piano si è creato un grande nucleo, Barcellona, che necessita di un’ingente rifornimento di acqua, di energia e di prodotti alimentari – i quali percorrono migliaia di kilometri per raggiungere il nostro piatto – e che espelle un’enorme quantità di rifiuti. Le periferie, sia regionali che transnazionali, sono state trasformate in maquiladoras, in magazzini o in discariche del nucleo urbano. A livello regionale, negli ultimi decenni sono accelerate le dinamiche di segregazione urbana, aumentando la separazione per quartieri fra i gruppi sociali a seconda della loro origine e del loro reddito, ma soprattutto per comuni. La crescita del turismo è andata di pari passo con la privatizzazione del territorio, l’apertura di nuovi mercati immobiliare, all’accelerazione del consumo fossile e lo sfruttamento di forza lavoro a basso costo, con stipendi che sfiorano la metà della media salariale. La terziarizzazione dell’economia e la precarietà strutturale del lavoro ci hanno obbligato a nutrirci con cibo a basso costo, a muoverci intensamente da un posto a un altro e a consumare sempre più energia.
Da più di mezzo secolo, si ripete insistentemente che il miglior modo di scalare la società è attraverso attraverso investimenti. Proprio per identificare meglio le cause della crisi ecologica e l’assurdità della separazione tra natura e società, è utile guardare verso una delle merci che genera più impatto sociale e ambientale. Parliamo della casa. Nell’Area Metropolitana di Barcellona le spese riguardanti l’affitto o il mutuo rappresentano in media il 37% dell’entrate di un’economia domestica. Mettendo insieme le bollete dell’acqua, della luce e del gas, vivere sotto un tetto divora il 50% dell’entrate. Se aggiungiamo altri elementi necessari per la vita, come il cibo, i vestiti e i miglioramenti nella casa, e per lavorare, come il trasporto o il telefono, quasi il 90% dell’entrate vengono spese per la sopravvivenza. Proprio il consumo domestico è il secondo settore che emette più CO2, dopo il trasporto, indispensabile per vivere e per lavorare in una regione con alti livelli di mobilità, sia interna che esterna.
Il risultato è che lavorare più di otto ore al giorno, incluse quelle che non ci vengono pagate, riesce appena a garantire una vita precaria iscritta in un modello che supera i limiti biofisici del pianeta. Questo non è colpa de l’”umanità”. Lo è invece dell’ecologia prodotta dal capitale in cerca di profitto incessante: abbassando il costo del lavoro, aumentando quello della vita e devastando l’ambiente. È proprio così: i corpi della classe lavoratrice vengono sfruttati quanto il resto della natura. Mentre l’impatto sull’ambiente cresce di un 6% per ogni aumento del 10% del PIL globale, il peso dei redditi del lavoro nel reddito nazionale [spagnolo] non ha smesso di diminuire dagli anni 70. In parallelo, le attività non remunerate riguardanti i lavori di cura, eseguite in modo predominante da donne, sono ancora alla base dell’appropriazione capitalistica: in Spagna sommano più ore all’anno (43 miliardi) rispetto a quelle dei lavori remunerati (38 miliardi).
Corpi vulnerabili e diseredati, specie in estinzione, materie prime ed energia monopolizzate e in declino: tutto fa parte della stessa unità di sfruttamento. La crisi ecologica è una crisi climatica legata allo sfruttamento lavorativo, all’appropiazione coloniale e a milioni di ore non pagate di lavoro riproduttivo. Non esistono la natura e l’ecologia da un lato, e la società e il capitalismo dall’altro. Come indica lo storico dell’ambiente Jason Moore, il capitalismo è un insieme di rapporti ecosistemici inseriti nella rete della vita che non sono armoniosi né sostenibili, e che non producono nemmeno modi di vita degni per la maggioranza sociale.
Il capitale non è soltanto quella cosa chiamata denaro, ma anche un processo basato su rapporti ecosistemici inseriti in modo straordinariamente conflittuale nel continuo ecosistemico che definisce il pianeta Terra. Il problema non è che il capitalismo “distrugge la natura” o che cento oligopoli producano il 60% dell’emissioni. Il problema è che il processo necessario per che i soldi crescano integra lo sfruttamento e l’appropiazione di tutta la natura e ha come condizione sine qua non che il capitale non paghi le proprie bollette. “La natura” non è una risorsa esterna che il capitale maltratta, ma essa è internalizzata nella circolazione e nell’accumulazione del capitale.
C’è chi assicura che questo modello ha i giorni contati. Il problema per il capitale e, in particolare, per coloro che detengono i diritti di proprietà capitalistica e che sottomettono altri essere umani e il resto della natura, è che l’estrazione di plusvalore e il saccheggio gratuito sono entrati in una spirale di aumento dei costi. Il riscaldamento globale che minaccia la vita sulla Terra è anche una minaccia per l’accumulazione capitalistica. I limiti che interrompono l’accumulazione si trovano nell’esaurimento fisico e sociale di ogni tipo di natura. Il capitale si imbatte in un’enorme contraddizione: fa esaurire e distrugge le fonti della sua ricchezza. Ma un mondo senza capitale non è sinonimo di un mondo senza dominazione e sfruttamento. I processi di abbassamento dei costi del lavoro, di aumento di quelli della vita e di devastazione dell’ambiente potrebbero continuare tranquillamente in un mondo dove la polarizzazione sociale venga raddoppiata e dove si conformi un governo plutocratico della scarsità. Verso dove si indirizza altrimenti l’attuale regime di guerra?
La crisi ecologica pone la necessità di un nuovo soggetto politico che reagisca davanti al saccheggio del tempo di lavoro, delle risorsa essenziali per la sopravvivenza e di ogni ecosistema biofisico. Considerare una transizione ecologica desiderabile significa, in primis, organizzarsi contro quella che – ormai è palese – avanza come una transizione comandata dalla concorrenza fra capitali. Non sarà facile e bisognerà affrontare molte contraddizioni, ma possiamo evitare qualche errore: quel soggetto politico non si potrà basare sul racconto di cui si parlava all’inizio, separando “società” e “natura”, mettendo da un lato le lotte del lavoro o dell’accesso alla casa e dall’altro le lotte ambientaliste o quelle del lavoro riproduttivo. È urgente approcciare strategie per far emergere, nella pratica concreta, un soggetto politico lontano dagli immaginari monotematici che competono difendendo la propria centralità politica. Abbiamo bisogno di un ecologismo popolare, di un ecologismo dei poveri. Abbiamo bisogno di organizzare e spingere un ecologismo iscritto all’interno della lotta di classe.
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