Pensieri sull’antifascismo a venire. 25 aprile 2014
La memoria del 25 aprile e l’esempio della resistenza sono sempre più patrimonio esclusivo di chi agisce e lotta fuori dalle istituzioni. Questo stato di cose, dettato dalla riabilitazione strisciante del ventennio operata dalle più alte cariche dello stato e dai mass media negli ultimi vent’anni (e unita al sostanziale discredito gettato in vario modo sulle pratiche di sciopero, lotta armata, clandestinità e sabotaggio che caratterizzarono la resistenza) è l’esito coerente degli eventi di allora, quelli dell’epoca in cui l’insurrezione partigiana nacque e si sviluppò. Eventi remoti: quando, nel giugno 1944, Togliatti svendette gli sforzi e il sacrificio dei partigiani, in primo luogo comunisti, agli interessi strategici del ceto politico sovietico, attuando su indicazione di Stalin il primo dei tanti “compromessi storici” che avrebbero costellato la storia italiana fino alle miserie contemporanee, al nostro paese fu concessa una “guerra nazionale di liberazione” affinché non potesse costruire o tentare la prima rivoluzione della sua storia. Sono gli effetti di quell’evento remoto che hanno determinato la lunga controversia circa il significato del moto resistenziale, e che hanno prodotto – in un’epoca completamente diversa – le trasformazioni più recenti del punto di vista istituzionale sulla resistenza.
Ogni 25 aprile siamo costretti ad ascoltare le sciocchezze del capo dello stato circa l’auspicio di una “conciliazione” della memoria, tanto più assurde nel momento in cui la memoria, dopo esser stata addomesticata o edulcorata per decenni, viene debellata dall’azione stessa dell’apparato istituzionale. Il nostro tempo segna lo spartiacque tra l’epoca in cui la resistenza fu un’eredità imbarazzante e problematica, ma comunque contesa tra movimenti e istituzioni, e un futuro in cui soltanto la trasmissione indipendente del sapere storico potrà porgere il testimone antifascista alle nuove generazioni. Chi scelse la clandestinità allora apprese in modo brutale e diretto l’essenza del fascismo. L’antifascismo e la resistenza non furono anche in questo senso – ed è bene ricordarlo – uno scontro teorico o di opinioni. Oggi milioni di persone ignorano quasi completamente cosa sia stato il regime e quale fu il senso e l’importanza della guerra partigiana. Quest’azione impressionante di tabula rasa ha prodotto vuoti, confusioni e fraintendimenti i cui futuri effetti sono difficilmente prevedibili.
Quale reazione di fronte a questo stato di cose? Chi si ritiene antifascista non potrà né limitarsi a condannare, stupidamente, le vittime della disinformazione e della censura storica, né supporre che il rifiuto dei nuovi fascismi possa davvero originarsi, sul piano sociale, da una forma puramente intellettuale di presa di coscienza. Non servirà far apparire l’analisi e la memoria come un compitino a casa che tutti dovrebbero svolgere in nome di un’ideologia dell’antifascismo; né far proprie le pose più diffuse a sinistra, che a un malinteso, continuo, quanto immotivato senso di superiorità tendono ad accostare forme non meno palesi, né meno profonde, di ignoranza. Per far germogliare il fiore della resistenza di domani occorrerà, al contrario, saldare le sue radici al terreno concreto del conflitto sociale, alle comuni esigenze di vita su cui maturino percorsi condivisi. Se una sensibilità critica, anche germinale, si affaccerà nelle rappresentazioni di chi è oppresso da questo sistema sociale, ciò accadrà per ragioni materiali; e queste ragioni cercheranno sbocchi e soluzioni sulle quali si giocheranno le battaglie decisive dell’antifascismo futuro.
Le nuove generazioni si affacciano all’esigenza di costruire forme di ribellione, non necessariamente canoniche, all’odierno stato di cose, e trovano di fronte a sé, in forma contraddittoria, stimoli alla costruzione dell’identità o al conformismo, alla truffa del “merito” e alla sottomissione sul lavoro, all’insubordinazione o al ribellismo; e vengono loro proposte infinite interpretazioni di cause ed effetti, diverse prospettive di disciplina, riscatto o liberazione. Avranno, queste generazioni, la possibilità concreta di confrontarsi con idee rivoluzionarie, concezioni antagoniste del mondo, orizzonti di liberazione in cui possa giocare un ruolo la critica del fascismo come ipotesi sempre presente per il governo capitalistico delle contraddizioni? Non è un’eventualità affidata alla fortuna, ma alle nostre virtù: un’esiziale scelta di campo, che spetta soltanto a noi. Dovremo decidere se chiuderci nell’identità di una controcultura precostituita, familiare e tranquillizzante, servita già pronta dagli sforzi portati avanti, in passati contesti, da passate generazioni, o se vorremo immergerci nei conflitti sociali reali dell’oggi e di domani, che si rappresentano e si rappresenteranno sempre in forme impreviste, spiazzanti, come sempre è avvenuto nella storia, scardinando le previsioni o gli auspici di chi immagina il reale quale riflesso delle proprie aspettative.
Questo fu, d’altra parte, l’esempio partigiano. I partigiani non furono mai moralisti o precettori. Se le resistenze penetrarono le società europee fu perché i militanti del periodo bellico seppero coinvolgere una soggettività differenziata e diffusa, promuovendo una dedizione alla lotta che seppe assumere le sembianze di un progetto tangibile anche quando radicale, volto al miglioramento delle condizioni di vita e come tale a tutti comprensibile. Furono le esperienze degli individui aggregati alla resistenza, in qualsiasi forma, che modificarono la loro percezione del mondo e quella di milioni di persone, producendo un’eredità che ancora oggi vive e non dà segno di spegnersi. Ciò accadde – e dovrà accadere ancora e ancora, anche per mano nostra – attraverso la pratica sovversiva, non a priori rispetto ad essa.
“Nessuno spazio ai fascisti” è oggi, allora, la nostra parola d’ordine; ma che significa? Nei conflitti sociali che verranno dovremo intervenire su mille fronti, non lasciare sguarnita nessuna trincea. Tutto il mare magnum delle identità metropolitane, delle forme di lavoro e di esistenza, delle pratiche di insubordinazione diffusa, e talora contraddittoria, allo sfruttamento umano e urbano, fino alla rivendicazione spontanea delle pratiche di vita o all’odio che emerge dall’impoverimento e dalle conseguenze della crisi, tutto questo dovrà essere al centro del nostro interesse. Perché questo e non altro significa: “Nessuno spazio ai fascisti”. Dovremo esplorare e conoscere, apprendere e contaminare il terreno e i frutti di quella foresta intricata che da sempre è il linguaggio o il piano simbolico stravolto, travestito e ricostituito dai movimenti reali; anche, e soprattutto, quando esso si presenta in forme rudi, respingenti, dissonanti; poiché soltanto questo può significare: “Nessuno spazio ai fascisti”. Pensare l’antifascismo non sarà, se mai lo è stato, ripetere una filastrocca, assumere un atteggiamento o vestirsi di un simbolo, ma comporterà l’interrogarsi continuo su questi compiti e su questi problemi; o i fascisti, inevitabilmente, avranno spazio.
Il desiderio di espellere il fascismo e le sue filiazioni dalle nostre vite, di contribuire alla sua definitiva cancellazione storica, non potrà mai bastare, da sé solo, a orientare movimenti in grado di sconfiggerlo sull’unico terreno decisivo, quello politico. Soltanto l’accumulazione di forza sociale, quella che proviene dall’immersione nelle pieghe e nelle contraddizioni della realtà, potrà permettere di erigere in Europa quella barricata che oggi tutti sentono urgente e imprescindibile, a separare la tentazione del ritorno agli orrori passati dalla speranza di capovolgere quelli esistenti; la speranza che ci porta a condurre le stesse battaglie politiche per cui i partigiani hanno combattuto molti anni or sono. Una speranza che darà sempre un senso alle difficoltà e alle avversità che le antifasciste e gli antifascisti di tutta Europa incontrano in diversi contesti, a diversi livelli; e soltanto lo sforzo sincero e consapevole di fare dell’antifascismo a venire una pratica egemone, inossidabile, vincente potrà riscattare la memoria dei giovani militanti antifascisti che, in questi primi anni del secolo, sono caduti.
Davide Grasso
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