Repressione giudiziaria e movimenti. I processi, i media, la questura
In un libro pubblicato qualche anno fa, Antoine Garapon osservava come «il primo gesto della giustizia […] non è né intellettuale né morale, bensì architettonico e simbolico: delimitare uno spazio tangibile che tenga a distanza l’indignazione morale e le passioni pubbliche, riservare un tempo a tal fine, fissare le regole del gioco, convenire un obiettivo e istituire gli attori. I cosiddetti processi a mezzo stampa hanno stravolto tale paradigma e la separatezza che ne derivava. La letteratura sul punto è ormai talmente ampia che non è possibile compendiarla in poche osservazioni.
Non sono però solo i media a guardare con crescente insaziabilità a quanto avviene nell’ambito delle indagini preliminari, ma sono spesso gli stessi protagonisti dell’azione giudiziaria, la Polizia e le Procure, ad attivare tale attenzione con gli strumenti più classici, quelli visibili delle conferenza stampa e dei comunicati, quelli più nascosti e inconfessati dei contatti sotterranei: «un reticolo carsico di reciproche compiacenze tra uffici giudiziari, organi di polizia giudiziaria e testate giornalistiche – li ha definiti un noto processual-penalista come Glauco Giostra – realizzate per giustificare o magnificare il proprio operato e per accreditare la propria linea di azione». L’osservazione è corretta ma riduttiva. Per gli inquirenti non si tratta solo di trovare una sponda per le proprie iniziative giudiziarie, per costruire consenso attorno alle scelte investigative e cautelari. Talvolta, specie nei procedimenti legati alla conflittualità di piazza, il rapporto con i media costituisce un tassello, di indubbia rilevanza, nell’ambito di un quadro allargato di costruzione sociale e giudiziaria della devianza, finalizzato a rimodulare, da un lato, la stessa percezione del conflitto, dall’altro, i profili di responsabilità a carico degli accusati.
L’uso calibrato della comunicazione giornalistica è uno strumento essenziale, rivolto fuori e dentro il processo, per trasformare la complessità dei fenomeni collettivi in questione criminale e, parallelamente, per rafforzare l’immagine di pericolosità degli imputati. Accreditare l’immagine un nemico a cui imputare un salto di qualità nella violenza esercitata contribuisce non solo ai fenomeni di rafforzamento delle paure collettive e di aggiornamento delle priorità della politica nazionale (come la richiesta di chiudere i centri sociali), ma, al tempo stesso, drammatizza e facilita in chiave repressiva le scelte processuali, specie quelle legate all’applicazione delle misure cautelari.
Esemplificativo, da questo punto di vista, è il processo conclusosi qualche mese fa (ma la sentenza è stata depositata solo a fine giugno) per gli scontri avvenuti a Torino in occasione del comizio elettorale di Casa Pound nel febbraio 2018. Rapidamente i fatti: un corteo di diverse centinaia di persone parte dalla stazione di Porta Nuova e, dopo un breve percorso, si trova di fonte la Polizia schierata. Quando il corteo arriva a lambire il cordone dei poliziotti, partono due brevi cariche di alleggerimento, anche con l’uso di un idrante. I manifestanti tornano sui propri passi e tentano di aggirare le forze dell’ordine, imboccando una via laterale, dove, dopo un breve stazionamento, vengono lanciati all’indirizzo dei poliziotti alcune petardi (bombe carta le definisce la Questura) che feriscono alle gambe alcuni tra gli operanti. Nuova carica, arretramento del corteo che raggiunge una via più ampia e lancio di alcune bottiglie e di petardi, a cui la Polizia risponde con un fitto lancio di lacrimogeni. Niente di particolare, come si vede: un conflitto di piazza a bassa intensità, come quello che si è verificato in tante occasioni a Torino e altrove. La particolarità sta nella divulgazione di tale vicenda sui giornali e sui social network.
Dopo che, nell’immediatezza dei fatti, sono uscite sui siti on line dei principali quotidiani ricostruzioni abbastanza fedeli dell’accaduto, dal giorno successivo, su evidente e esplicito suggerimento della questura, il quadro cambia. I principali quotidiani raccontano del lancio da parte dei manifestanti di bombe carta riempite di chiodi e di pezzi di metallo, di schegge di metallo «proiettate tutto intorno dalla deflagrazione» che «si sono conficcate nelle protezioni indossate dagli agenti […] tanto che una scheggia lunga 3 cm (4 secondo l’ANSA, che cita come fonte la stessa Polizia e che aggiunge al metallo dei pezzi di legno, ndr) viene estratta dalla ferita di uno dei poliziotti presenti». Si segnala per la consueta misura Il Giornale che titola «Chiodi contro gli agenti. Si spacciano per pacifisti ma volevano uccidere. Quattro i poliziotti feriti a Torino, le bombe carta erano “imbottite”. Minniti: atto criminale».
Non potevano poi mancare, sugli stessi giornali, il commento del Questore («Le persone che vanno a un corteo con bombe imbottite di schegge di legno e metallo non sono dei dissenzienti, ma veri e propri delinquenti») e dei sindacati di Polizia («Siamo vicini ai poliziotti feriti nella notte a Torino, alcuni dei quali colpiti addirittura da bombe carta con schegge di metallo. Potevano morire» [Silp Cgil]; «La misura è ormai colma: ieri sera si è sfiorata la morte di un collega. […] L’uso di bombe carta riempite con pezzi di ferro e chiodi è un atto di terrorismo e come tale deve essere perseguito. Ci auguriamo che i colpevoli siano indagati per tentato omicidio e non per la risibile accusa di resistenza a pubblico ufficiale» [Siap]; «L’assetto bellico è la capacità di danneggiare cose e persone utilizzato ieri sera dagli antagonisti è da considerarsi uguale a quello di chi ha tentato l’omicidio, perché utilizzare bombe carta unite a pezzi di ferro equivale alla costruzione di un ordigno con capacità lesive di utilizzo in campo bellico» [Ugl]).
Alla campagna denigratoria si accoda anche il Sindaco di Torino su Facebook: «Lanciare bombe carta contenenti schegge metalliche è un gesto criminale. Mi auguro che gli agenti feriti, ai quali va la solidarietà di tutta la Città di Torino, possano rimettersi quanto prima. Auspico altresì che i responsabili di un gesto tanto vile siano quanto prima individuati e consegnati alla giustizia».
Sempre sulla pagina Facebook Noi poliziotti per sempre, vengono pubblicate le immagini di un agente ferito, accompagnate dal commento: «Ecco i danni fisici che gli antifascisti hanno provocato ieri a Torino. Hanno lanciato bombe carte riempite con chiodi, vetro e biglie di ferro. Per noi è un atto TERRORISTICO (in maiuscolo, ndr) posto in essere per colpire le forze dell’Ordine. Siamo solidali con i colleghi feriti e condanniamo questi terroristi!».
L’occasione è buona per molti commentatori per indicare il nemico di turno, i centri sociali torinesi e, in particolare, il centro sociale Askatasuna e chiederne l’immediata chiusura.
Nelle settimane successive nessuna smentita arriva dai giornali. Solo un misero tweet della Questura segnala che gli agenti sono stati in realtà colpiti da schegge di legno e non da bombe carta rinforzate da bulloni, chiodi o biglie di metallo. La sentenza emessa all’esito del successivo processo penale non si confronterà con la questione. Sembra però assai più convincente ipotizzare che qualche petardo esploso vicino agli operatori di Polizia abbia colpito un pezzo di legno che ha proiettato schegge attorno, piuttosto che pensare a un rinforzo dei petardi o delle bombe carta con pezzetti di legno per aumentarne la potenzialità lesiva.
In ogni caso la vicenda sul piano mediatico scompare ma viene prontamente recuperata nella richiesta di applicazioni della misura della custodia cautelare in carcere avanzata dal PM, per 5 indagati su 6, che fa riferimento a «bombe carta alterate con altro materiale per amplificarne e potenziarne gli effetti» e che, nel circostanziare le lesioni subite da tre dei quattro poliziotti feriti, parla di «esplosione di bombe carta con corpi estranei», senza indicarne il tipo e la natura. Non è la condotta attribuita agli indagati (le specifiche modalità e circostanze del fatto, secondo la dizione codicistica) che costituisce il caposaldo su cui il PM costruisce la prognosi di pericolosità e i rischi di reiterazione del reato, ma la loro personalità, desunta non dal certificato penale (posto che sono tutti incensurati), ma delle denunce di polizia e dalla frequentazione del centro sociale Askatasuna. Grazie a tale scivolamento verso una prospettiva di diritto penale d’autore, il carcere viene richiesto anche per una ragazza che si è limitata a tenere in mano uno striscione nel corso dell’avvicinamento iniziale al cordone di polizia, prima della carica, nonché per altri due giovani che avrebbero dato un calcio a due lacrimogeni che gli sono caduti tra i piedi.
Più sobriamente, il giudice decide di applicare misure non custodiali (tra cui spicca l’obbligo di presentazione due volte al giorno alla polizia giudiziari per il giovane che ha scalciato il lacrimogeno) e riserva il carcere a soli due indagati, rispettivamente di 18 e 22 anni.
Il primo viene considerato responsabile, a titolo di concorso morale dei lanci dei petardi, solo per avere acceso un fumogeno (gesto che, in termini del tutto congetturali, viene interpretato come il segnale per l’avvio della fase più aggressiva della manifestazione o, in alternativa, come un tentativo di offuscare la visuale dei poliziotti). Viene poi indicato come uno tra coloro che avrebbero tirato personalmente delle bottiglie nella fase finale. Meno di un mese dopo i fatti viene arrestato con un’operazione dai chiari intenti mediatici. Portato in Questura è ripreso ammanettato, mentre viene tradotto in auto per essere accompagnato in carcere. Ora, non solo una specifica norma processuale vieta la pubblicazione dell’immagine di una persona privata della libertà personale, mentre si trova sottoposta a manette o ad altri mezzi di coercizione fisica, ma il filmato che ritrae la scena viene pubblicato sul canale You Tube della Polizia di Stato e la sequenza dell’accompagnamento, secondo quanto poi riferito dall’arrestato, gli viene fatta ripetere tre volte, per essere sicuri, evidentemente, della sua resa e del suo impatto mediatico.
Il secondo giovane vien visto fin dall’inizio della manifestazione tra le prime fila del corteo e poi avrebbe, come detto, calciato lontano un lacrimogeno. Seppur incensurato, resterà in carcere oltre tre mesi, anche perché non si trova un braccialetto elettronico che possa essergli applicato; dopo una serie di proteste e presidi in suo favore, viene messo ai domiciliari per altri tre.
Capitolo finale. Nello scorso aprile il Tribunale assolve tutti gli imputati tranne uno (l’unico non legato ai centri sociali, che ha ammesso di aver lanciato delle bottiglie contro le forze dell’ordine per emulazione di altri soggetti che non conosceva) per non aver commesso il fatto. Secondo i giudici le condotte tenute dagli imputati non sono di rilevo penale (l’avvicinamento al cordone della Polizia, il calcio al lacrimogeno, l’accensione del fumogeno), neanche a titolo di concorso morale o non sono a loro riferibili (i lanci di bottiglie e petardi). La divulgazione dei dati falsi sulle bombe carta imbottite di ferro ha avuto però un’indubbia efficacia: prima, nell’informazione dell’opinione pubblica, a cui nessuno poi ha spiegato che si trattava di una notizia falsa, poi, nel rafforzare i profili di pericolosità degli indagati in fase cautelare e consentire una loro, seppur momentanea, “neutralizzazione”.
24/07/2019 – di Claudio Novaro
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