Tra Ferguson e Kabul…Intervista con George Caffentzis e Silvia Federici
SF: Già molti giorni prima dell’annuncio della sentenza, che poi è stata una mancata sentenza, un po’ dappertutto, in ogni parte dell’America, i movimenti e i gruppi che si sono formati a Ferguson e fuori Ferguson a partire dalle giornate di agosto, si erano dati appuntamento per questo giorno, perchè già si prevedeva che non ci sarebbe stata una sentenza di condanna. Forse ci si aspettava che ci sarebbe stata una sentenza che quantomeno lo citasse per omicidio non intenzionale, ma i giudici anche questo hanno scartato. Comunque già questo lo si prevedeva e quindi per vari giorni, prima di lunedì, vari gruppi si sono dati appuntamenti in luoghi specifici per protestare. E sono cominciate così una serie di proteste che rappresentano, secondo me, una svolta grossa nella politica dei movimenti degli Stati Uniti, nel senso che da lunedì ad oggi è stata una protesta ininterrotta in moltissime città, con scontri con la polizia e con grosse dimostrazioni come ad Okland, a New York, e ovviamente a Ferguson stessa. Io credo che questa non sia una mobilitazione momentanea. E’ una mobilitazione che ha dimostrato una capacità nuova, di collegamenti, di connessioni, e soprattutto una volontà a continuare, a cambiare questa situazione. Quindi io credo che questa settimana sia stata molto importante. Intanto perchè questa sentenza, anche se era prevista, ha dimostrato che è in atto una guerra contro la comunità nera, almeno contro la comunità nera proletaria.
Quindi non si tratta più di un episodio particolarmente scandaloso, questo è parte di uno stillicidio, di continue uccisioni, in cui la polizia gode dell’immunità assicurata. Giusto per dare un’idea di quale sia la situazione: dal 9 agosto, quando Michael Brown stato ucciso, altre 14 persone, per la maggior parte afro-americane, sono state uccise dalla polizia. E tutte in circostanze assolutamente non provocatorie, tutte in circostanze in cui chi è stato ucciso non era armato o non era armata, e la polizia praticamente ha sparato senza alcuna provocazione. Per esempio il 22 novembre, alcuni giorni prima della sentenza, un bambino di 12 anni è stato ucciso a Cleveland dalla polizia perchè aveva in mano una pistola giocattolo. Cioè non gli hanno neanche chiesto che cosa faceva, gli hanno sparato e lo hanno ucciso. E’ una situazione che continua a ripetersi.
La novità di questa settimana, se vogliamo chiamarla novità, è stata, intanto, l’estensione della protesta ed il fatto che abbia coinvolto anche molti giovani bianchi. Chi ha protestato tra la popolazione nera sono stati soprattutto i giovani. Possiamo dire che si è notata un’assenza della classe media, e un’assenza di politici. Un’assenza molto grossa che rappresenta una scollatura. Questa situazione ha rivelato l’entità della scollatura che esiste tra i giovani proletari afro-americani e i loro rappresentanti politici ed ha accentuato, naturalmente, la scollatura anche con il presidente Obama, che si è limitato in tutto questo periodo ad incitare alla calma. Non ha avuto una sola parola di condanna per l’ingiustizia che è stata commessa e per il fatto che ormai la polizia gode di una completa immunità in questo paese, dove può uccidere e mai viene condannata per questi fatti. Un altro esempio di questa scollatura è stato il fatto che la sentenza avviene pochi giorni dopo le elezioni del 7 novembre e per tutta la campagna che ha proceduto le elezioni nè il Partito democratico, nè il presidente, nè i rappresentanti neri hanno parlato di Ferguson. Io credo senz’altro che una delle ragioni per cui c’è stato un crollo delle adesioni al Partito democratico e anche un crollo dei voti, sia stato anche per questo.
C’è tutta una parte di popolazione nera che non è andata a votare, perchè in questo momento Ferguson non rappresenta più un luogo geografico, il nome di una città, ma una patologia, un rapporto politico patologico. Il fatto che Ferguson non fosse al centro della politica elettorale neanche dei candidati neri e neanche dei rappresentanti democratici neri, è stato una cosa che ha evidenziato una scollatura che esiste tra i giovani proletari e i rappresentanti politici. Questa serie di proteste, che stanno ancora andando avanti, hanno dimostrato praticamente l’esistenza di moltissimi gruppi che si sono formati proprio dopo Ferguson (a Chicago, Ferguson stessa e in vari posti degli Stati Uniti) in funzione di questa protesta contro una situazione ormai completamente insostenibile. La protesta ha coinvolto più di cento città e c’è stato un coordinamento a livello nazionale.
GC: Ci sono due aspetti che vorrei sottolineare rispetto a ciò che sta accadendo: su un lato, rispetto alle mobilitazioni che si stanno sviluppando come risposta alla mancata incriminazione del poliziotto, va detto che le persone si sono organizzate su scala nazionale utilizzando principalmente la rete per coordinare la risposta immediata al non rimando a giudizio. Dunque già da lunedì pomeriggio ci sono state manifestazioni in tutto il paese. Una mobilitazione che non è stata di massa, se la paragoniamo ad esempio alle proteste contro la guerra in Iraq del 2003. A New York per capirci parliamo di un migliaio di persone, mentre nelle città più piccole si sono mosse dalle cento alle trecento persone. Tuttavia queste hanno avuto una chiara coscienza di cosa una manifestazione può fare in termini di incisività, ossia non un semplice raduno di fronte agli edifici della rappresentanza politica (ossia ciò che solitamente accade). Queste manifestazioni hanno avuto come obiettivo la circolazione: molte iniziative hanno avuto quale obiettivo le autostrade e i tunnel, i ponti a New York ad esempio, e così in molte altre parti del paese sono state bloccate le strade. Anche durante il Black Friday [giornata nella quale negli Usa inizia la stagione degli sconti pre-natalizia e tutti i negozi rimangono aperti per l’intera giornata, ndt.] ci sono state diffuse azioni di boicottaggio. Questo è molto importante, anche perché ha realmente prodotto danni ingenti per i vari ipermercati e malls, mostrando come anche piccoli numeri possono tuttavia essere molto incisivi, soprattutto se agiscono in maniera coordinata su larga scala.
Ciò che vediamo ora è dunque proprio questo: un movimento coordinato su scala nazionale in risposta alla situazione attuale. La seconda cosa che vorrei dire per far comprendere il contesto statunitense è che alcuni fatti stanno divenendo di senso comune. Ciò ad esempio rispetto all’uccisione di persone nere, per lo più giovani, cosa che coinvolge quasi solo i neri. Questo tipo di statistiche sta divenendo molto conosciuta, nessuno la contesta e non c’è bisogno di fare ricorso a qualche teoria della cospirazione per riconoscere che questo è ciò che succede. Qualcosa da questo punto di vista è cambiato.
SF: Inoltre oggi vengono uccise più persone che durante il periodo Jim Crow [epoca tra il 1875 e il 1965 durante la quale furono emanate una serie di leggi razziali che dividevano de facto la società tra bianchi e neri. Per un approfondimento rispetto a tale periodo e a come esso si riverberi oggi si può leggere qui la recensione al libro “The New Jim Crow”. Oggi ogni settimana due persone vengono uccise, un tasso di molto superiore al periodo Jim Crow. Praticamente in quel periodo la schiavitù era un istituto, e c’erano numerosi omicidi e linciaggi, ma oggi è peggio.
Sembra che questa nuova mobilitazione sia più, potremmo dire, “consapevole” e in grado di individuare immediatamente alcune controparti. Una mobilitazione più offensiva, che punta direttamente al fare male bloccando strade, negozi ecc… C’è una rottura rispetto a quanto avvenuto con Occupy? Quali continuità e quali transizioni in atto vedete? E in secondo luogo, ci sono state convergenze tra le organizzazioni sorte nel periodo post-Occupy e i nuovi gruppi emersi dopo Ferguson?
SF: E’ sempre complicato guardare agli Stati Uniti come fossero un contesto omogeneo, perché il paese è così ampio e differenziato, che a seconda del contesto ci sono enormi variazioni. Ad ogni modo ritengo che ci sia un tratto assolutamente specifico in queste mobilitazioni: questa chiaramente non è la prima protesta contro le brutalità poliziesche, ma Ferguson rappresenta un momento di “Ya Basta!”. Un basta alla lunga serie di omicidi e di continui abusi, di cui uno dei più macroscopici è rappresentato dalla pratica dello stop and frisk: centinaia di migliaia di persone vengono fermate ogni anno per le strade in ripetute occasioni, fermate, buttate sulle auto della polizia, brutalizzate, umiliate… o ancora la storia dell’incarcerazione di massa.
Dunque Ferguson è un ulteriore momento di questa storia, ma l’importante mobilitazione segna che nel tempo, protesta dopo protesta, funerale dopo funerale, manifestazione dopo manifestazione, la consapevolezza in questi anni è cresciuta. La consapevolezza che se si continua così i giovani neri non possono vivere. Ciò che è venuto in superficie è che per migliaia e migliaia di giovani non c’è vita possibile in questa America se questa situazione permane, perché ogni volta che esci dalla porta non sai cosa potrebbe succederti. La massa di uccisioni è così chiaramente parte di una più ampia politica contro la giovane popolazione nera, che le persone hanno capito che devono combattere per la loro vita. Penso che questo tipo di realizzazione, ossia che siamo di fronte a una questione di vita o di morte, è ciò che principalmente distingue gli eventi di questi mesi da Occupy. Ciò non significa non ci siano state alcune continuità. Penso che sia stato molto interessante vedere un alto numero di giovani bianchi nelle manifestazioni. La mobilitazione non era solo nera, e questo è un fatto nuovo. Nella mia esperienza è la prima volta che ciò accade. Ci sono stati molti casi di proteste per uccisioni poliziesche o simili, ma queste coinvolgevano esclusivamente persone nere. Oggi no, e questo è un importante passaggio.
Volevo porre un’altra questione. In un’intervista su Infoaut Felice Mometti diceva che queste giornate di mobilitazione sembrano porsi in rottura rispetto al ciclo di lotte degli anni Sessanta, nel senso che siamo di fronte a una composizione nuova, come in parte dicevate anche voi. Sembra che per questa composizione non siano più trasmissibili le idee sui diritti civili. Al contempo però sempre in questi giorni Angela Davis, nella sua critica a chi parla di un’era post-razziale con Obama, poneva la necessità di riprendere il filo con le lotte degli anni Sessanta, che invece per Mometti si era rotto anche nella narrazione di quelle lotte. Voi come vedete questa discussione?
SF: Da un certo punto di vista è chiaro che riprendere le lotte degli anni Sessanta significa in senso lato riprendere una lotta di massa, una lotta politica che mira a una grossa trasformazione sociale. Riprendere una lotta con la consapevolezza che la schiavitù non è finita. Allora in questo senso senz’altro quello che dice Angela Davis è chiaro. Queste mobilitazioni sono impregnate dalla consapevolezza che viviamo ancora in un sistema di Jim Crow e che dunque è importante riprendere una mobilitazione di massa. E’ altrettanto chiaro però che il rapporto tra i giovani che si mobilitano oggi e i vecchi rappresentanti dei movimenti per i diritti civili si è rotto. Non esiste. In varie occasioni, in varie riunioni, quando questi politici sono venuti a parlare, a incoraggiare alla calma, questi giovani hanno detto: “No grazie, basta. Noi siamo un’altra storia”. Questo non perché non si identifichino negli anni Sessanta, ma perché quel percorso si è esaurito. Va riaperto, ma non certo nelle modalità che si erano poste ad esempio nelle campagne per i diritti civili, perché oggi sulla carta quei diritti ci sono. Ma la guerra continua, e non riguarda solo la razza. Io credo che vedere queste sentenze, queste uccisioni come una questione di colore (che chiaramente è molto importante), non riesca a cogliere il vero significato.
E’ da metà degli anni Settanta che lo Stato americano sta facendo guerra ai giovani neri, a una popolazione che è vista come particolarmente combattiva, come pericolosa per lo status quo. Dagli anni Settanta si fa pagare ai giovani neri il crimine di essersi ribellati. Il crimine di, con le Pantere Nere, aver cercato di attuare strategie di autodifesa e mobilitazione dei quartieri. E’ da allora che ciò va avanti ed è stato costruito. Il processo di disarmo, addomesticamento e soggiogamento della popolazione nera, soprattutto dei giovani, anzitutto con il cambiamento delle leggi riguardo alla droga. Quelle che prima erano multe sono state trasformate in pene pesanti, di quattro-cinque anni, che hanno portato a un salto enorme nell’aumento della popolazione carceraria. Ciò continua ad andare avanti: oggi abbiamo più di due milioni di persone in carcere, di cui la maggior parte è afroamericana. Moltissimi di questi sono da anni in isolamento assoluto, parecchie delle Pantere Nere e dei prigionieri politici sono o sono stati per anni (anche dieci quindici) in totale isolamento. Queste forme di tortura e di barbarie indicano una volontà di annientamento molto molto forte. C’è un processo di criminalizzazione di massa, ed è un un fatto politico sempre più accentuato che va avanti da anni.
Con la cosiddetta crisi economica e il continuo aumento della disoccupazione dei giovani neri, che in certe aree raggiunge il 50%, aumenta la possibilità della protesta. Quindi c’è stata una escalation, e la polizia soprattutto nei quartieri neri usa la guerra alla droga e di conseguenza si trasforma in un esercito. In moltissimi quartieri, anche in quelli latini, la polizia è un esercito di occupazione che usa le stesse tattiche e le stesse armi che usa in Iraq e in Afghanistan. C’è anche da dire che dal 2001 la polizia si è sempre più militarizzata. La polizia negli Stati Uniti da molti molti anni viene addestrata dall’esercito, ha in dotazione le stesse armi, quindi praticamente molti quartieri vedono lo stesso livello di violenza di polizia che forse si vede nei quartieri di Kabul o in Iraq. Questo è il contesto. Allora la svolta mi pare sia la capacità dimostrata in queste settimane di un grosso coordinamento a livello nazionale, nella consapevolezza che questa situazione non è accidentale, che c’è una politica precisa. Allora certo, una nuova guerra, una lotta per trasformare e cambiare i rapporti di potere è necessaria.
GC: Per molti anni io e Silvia abbiamo lavorato sul tema della pena di morte negli Usa, e soprattutto a partire dagli anni Ottanta e Novanta tale pena è stata progressivamente abbandonata (o almeno fermata) da molti stati. Ma quello che vediamo oggi, con Mike Brown e le altre centinaia di uccisioni, è di fatto una pena di morte applicata nelle strade. Quindi l’immagine dei diritti civili viene in maniera crescente cancellata dalle strade americane. Stesso discorso per la tortura, che tecnicamente non esiste qui. Ma tantissimi prigionieri sono per anni e anni messi in isolamento, una forma di tortura vietata da molti tribunali del mondo. Dunque, quello che serve oggi non è tanto un movimento per i diritti civili come nel passato, quanto una capacità di contrastare le pratiche della polizia e dell’esercito. Non la struttura legale officiale. Per questo le recenti mobilitazioni, per quanto problematico ciò possa essere, mostrano che c’è una nuova figura sulla scena che mostra una differente immagine rispetto a quella fornita dalle dottrine ufficiali.
SF: Io vorrei aggiungere che nel passato più immediato questa militarizzazione della vita quotidiana ha avuto come target immediato la popolazione nera proletaria, però l’impatto colpisce tutti. Noi siamo ormai in uno stato in cui la polizia ha immunità completa. E’ vero che le uccisioni riguardano soprattutto giovani neri e latini, ma la polizia è ormai intoccabile e si comporta ormai come esercito di occupazione. Questa militarizzazione della polizia, che anche in paesi piccoli ha armi militari. Nei posti pubblici, come le stazioni, la polizia ha presidi militari.
Questa situazione di repressione crescente colpisce tutti, è un cambiamento generale nel rapporto tra stato e cittadini, tra stato e classe, che ormai ammette ben poca negoziazione. Questa è una cosa molto importante. Ciò distingue l’oggi dagli anni Cinquanta e Sessanta. E’ chiaro che la popolazione immigrata è anche nel mirino. Migliaia di persone nei centri di detenzione… Obama ha recentemente iniziato una campagna di deportazione dei bambini che stazionavano soli al confine col Messico, scappando da situazioni pazzesche, in gran parte create dagli Usa e dalle varie guerre da essi direttamente o indirettamente istituite e finanziate, in Nicaragua, in Salvador, Guatemala, Honduras ecc… Questo mi pare importante per capire perché adesso c’è stato per esempio un coinvolgimento di giovani bianchi nelle mobilitazioni.
GC: Tornando sulla composizione di questo movimento, va detto che quando si parla di movimenti che iniziano ad esplodere, ci sono variati elementi che lavorano assieme e che è necessario comprendere. Ma appunto, stiamo parlando di un qualcosa che è tutt’ora in corso.
Comunque, è necessario sottolineare che questo tipo di movimento presenta molte sovrapposizioni con altre esperienze, come quella dei movimenti per la liberazione dei prigionieri politici, con le tante persone che hanno lavorato attorno al tema delle brutalità e delle uccisioni poliziesche, le lotte contro i confini, quelle contro la pena di morte… C’è dunque una confluenza di svariate lotte diverse. La domanda a proposito di Occupy è molto importante e necessita di essere pensata e approfondita. Io penso che anche Occupy sia stata un’esperienza nella quale bianchi e neri si sono trovati talvolta assieme a discutere di politica. Dunque molte connessioni che abbiamo visto oggi muoversi sul terreno sono state forgiate negli ultimi tre anni. Penso anche che questo non sia il tempo in cui debbano parlare gli storici, perché la storia sta venendo fatta proprio ora. Ad ogni modo posso dire che effettivamente si sono sviluppate delle connessioni, ma che con l’omicidio di Mike Brown è iniziata una nuova storia.
SF: George ha ragione. Anche secondo me la base della mobilitazione è avvenuta non in un vuoto. E’ avvenuta perchè da anni c’è un processo che prende molte forme, molti gruppi e organizzazioni, come, ad esempio, chi lotta contro le sentenze mandatorie, cioè il fatto che i giudici devono dare un certo numero di anni per certi tipi di crimini, che è stata una delle forme più grosse per alzare il numero delle sentenze e scalare il numero di chi è in prigione. O ancora contro il confinamento in celle di isolamento, contro la pena di morte, contro il sistema carcerario. Organizzazioni, come quelle che si chiamano “progetti innocenza”, per rivedere i casi di quelli che sono stati imprigionati con pochissime prove solo in base a quello che la polizia diceva. Quindi in questi anni si è formata tutta una rete a livello urbano di organizzazioni. Anche le famiglie di chi è in prigione sono molto organizzate e questa è stata la base portante, l’elemento organizzativo più importante dentro queste mobilitazioni. Poi si sono aggregati molti studenti. E’ molto interessante il fatto che gli studenti abbiano scelto di aspettara la sentenza, la sera di lunedì, nei campus nonostante il giorno dopo fosse il giorno del rientro a casa per Thanksgiving Day. Loro hanno scelto di restare la sera perchè altrimenti non avrebbero avuto la possibilità di dimostrare essendo consapevoli che i campus, le università, le scuole sarebbero state tra i principali centri di mobilitazione. E infatti così è stato e quindi gli studenti sono stati una componente importante. Poi ci sono state le organizzazioni e quel tessuto urbano che in questi anni si è mobilitato e ha lottato su questioni come la casa. Questo è stato il tesssuto sociale di queste mobilitazione.
Avete altre considerazioni da fare magari più in generale su quello che si sta muovendo nell’America di oggi, le prospettive sia da un punto di vista più generale dopo queste elezioni sia da un punto di vista di movimento?
SF: Sono anni che si parla di scollamento tra la grande massa del pubblico e le autorità, i politici. Io credo che queste elezioni siano state un’altra dimostrazione del fatto che ormai la gente si aspetta pochissimo dalle istituzioni. Io credo che quello che sia interessante in questo momento, quello che è importante, è che forse si comincia a vedere un distacco anche di grossi segmenti della popolazione nera dal presidente Obama. Perchè l’elezione di Obama ha avuto un effetto molto ipnotico, disarmante rispetto alle lotte in generale e in particolare alle lotte della popolazione nera. Ecco, io credo che il fattore Obama stia crollando, che da lui non ci si aspetti più nulla. Questa è importante come svolta. Come svolta io credo anche che la politica ormai è un livello che per molta gente fa parte della stratosfera e c’è uno scontro molto grosso che non so dove finirà. Perché se, ad esempio, Ferguson è una micro rappresentazione dell’America oggi, quello che è successo a Ferguson sembra sia di un’importanza enorme. Questo poliziotto che fredda questo ragazzino, senza nessuna provocazione, e lascia il suo corpo per quattro ore in strada, sotto al sole, sotto gli occhi di tutta la gente che nelle case vedeva questo corpo. Una cosa orrenda, che però ormai è tipica. Ti sparano, ti uccidono e non ti danno aiuto. Anche quando sei moribondo che potrebbero ancora salvarti, chiamare un’ambulanza, non ti danno aiuto. Questo si è verificato in vari casi. E poi, arriva il verdetto e invece di preoccuparsi che questo verdetto faccia giustizia, gran parte della popolazione bianca si arma.
La vendita delle armi nei giorni precedenti al verdetto è cresciuta enormemente tra la popolazione bianca. Una grossa parte di questa popolazione bianca si è barricata in casa, ha messo le spranghe di ferro alle finestre, si è procurata viveri, munizioni, come se si preparasse per un uragano. Il governatore ha chiamato la guardia nazionale, ha dichiarato lo stato di emergenza. La risposta della stampa è stata parlare degli incendi ecc… Sulla questione dell’equità, della giustizia, secondo me si sta creando una situazione di grosso grosso scontro. Che è difficile capire in che modo potrà essere risolto. Ma c’è veramente una situazione di grosso conflitto sociale in questo momento. Io credo che Ferguson abbia dimostrato tutto questo. Che però è un conflitto sociale che, lo ripeto perchè penso sia importante, ha al centro la popolazione nera, però non solo. Perchè la situazione della popolazione migrante è altrettanto drammatica e altrettanto drammatiica è la situazione di una grossa parte di proletariato bianco, che ormai in questi anni ha subito un processo di impoverimento molto alto. Perdita della casa ecc… E siamo di fronte a una classe politica che ormai non promette più niente, che ormai non ha più nulla da dare e si arma. Ecco a me sembra che il fatto grosso sia questo: gli spazi di mediazione in questo momento si stanno restringendo enormemente, per tutti ma soprattutto per la popolazione nera. Ma si stanno restringendo per tutti e non c’è assolutamente una proposta, non è prevedibile un piano di riforme. Questa è la considerazione generale.
GC: Vorrei aggiungere giusto un punto, che forse è però quello centrale. Come ha detto Silvia, Ferguson è un luogo, ma al contempo è anche un universale degli Stati Uniti. Perché ciò che sta accadendo lì, questa sproporzione e questa relazione tra le forze di polizia e la comunità nera è un qualcosa che sta informando tutti gli Stati Uniti in generale. C’è una importante questione demografica che va afferrata rispetto al proletariato statunitense. E’ infatti estremamente chiaro che nel prossimo paio di decenni la popolazione bianca diventerà una minoranza nel paese. Questa transizione mette direttamente in discussione gli attuali assetti di potere, delinea un campo di lotta, e viene spesso definita anche come una crisi della rappresentanza. Questa crisi è stata espressa da Occupy tre anni fa, quando diceva che i governi sono espressione del ricco 1% e che la rappresentanza è morta negli States. Ferguson rappresenta l’altro lato di questa morte della rappresentanza. Questa è una storia molto profonda a mio avviso, che stiamo solo ora iniziando a comprendere e che sta iniziando a configurare una grossa trasformazione nei comportamenti e nelle pratiche. E si sta determinando anche un grosso cambiamento di senso comune.
SF: Vorrei anche dire che l’impatto sulla situazione in generale di questa continua escalation di warfare va tenuto sempre presente. Gli Stati Uniti sono organizzati attorno alla guerra. Guerra in Iraq, Afghanistan, ha basi militari per tutto il mondo, e poi lo Yemen, indirettamente in Siria ecc… Tutto questo ha un impatto sul comportamento della polizia. Se sei un immigrato o vivi in un quartiere povero loro possono venire, la domenica mattina, rompere la porta della tua casa, entrare ad armi spianate con il pretesto di essere alla ricerca di armi o di droga… C’è un continuo, in una società che è sempre più organizzata intrinsecamente attorno alla guerra, con specifiche tecniche che vengono applicate anche sul fronte interno. In molti hanno mostrato come la polizia tratti i giovani neri come enemy combatants [soldati nemici, ndt.]: you shot first and ask later [prima spari poi chiedi, ndt.], esattamente come apprendono quando sono nei quartieri iracheni. E fanno ciò con lo stesso livello di impunità, possono fare ciò che vogliono qui e lì. La linea tra polizia ed esercito è sempre più confusa: stesse tattiche, stessi addestramenti, stessi armamenti.
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