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Appunti dalle lotte di classe in Tunisia

Una sintesi di alcuni appunti scritti durante le grandi giornate di sciopero generale, di lotte e organizzazione in Tunisia. Ad oggi il movimento rivoluzionario tunisino continua a farsi strada mentre da poco è stato annunciato lo sciopero generale in tutto l’Egitto. Con questi primi paragrafi pubblicati con una certa urgenza si propone al dibattito un punto di vista con cui guardare al “Magreb in lotta” considerando le svolte, le innovazioni, e le rotture conquistate a caro prezzo dal movimento tunisino contro la crisi ed il regime…

Fulvio Massarelli

Dal diritto di fuga al diritto di resistenza.
Il corollario descrive il movimento della classe operaia che quando può e quando vuole lotta e organizza dispiegando conflitto nel territorio sociale d’origine, o al contrario sceglie la lotta organizzando il suo movimento dirigendosi altrove [Y.M. Boutang] , seguendo le rotte della migrazione, che nel caso nord africano sono immediatamente lotte contro la Fortezza Europa, contro le sue strategie di governo del movimento del lavoro vivo. I recenti eventi tunisini non devono trarci in inganno: non si tratta di nessuno scoppio improvviso, ma bensì di una variazione della direzione di una conflittualità permanente che fino a poco tempo fa preferiva darsi come migrazione, ed oggi, in Tunisia, ha scelto di incidere ed emerge (e con quale potenza! e con quale forza innovatrice!) nel proprio territorio. Insomma all’esercizio del diritto di fuga (che si paga anche al prezzo di annegamenti nel mar mediterraneo, di internamenti nei cie, e di sfruttamento nella produzione europea), è succeduta la prassi del diritto alla resistenza, agito ed organizzato in modo offensivo contro il regime di Cartagine, vassallo post-coloniale della sfera di influenza europea.

Una generazione contro il regime della crisi.
Il regime tunisino è una macchina clientelare organizzata per espropriare con violenza e brutalità la ricchezza prodotta dai propri lavoratori del braccio e del cervello attraverso un mercato che vede l’80% degli scambi intercorrere tra la Tunisia e i paesi dell’Unione Europea. E l’estrema povertà prodotta dal sistema di scambi commerciali con la UE è pari solo alla ricchezza di cui l’establishment tunisino ha potuto godere per decine di anni tramite uno stato di polizia libero di soffocare e reprimere ogni possibile insorgenza dei poveri, degli espropriati, dei rapinati. Questo orientamento delle politiche economiche del regime tunisino non è un’invenzione delle lobby al cui vertice è stato per più di 20 anni Ben Ali, ma risale alle scelte operate da Bourguiba subito dopo la crisi degli anni 70, che ha portato l’anziano despota ad abbandonare la direzione cooperativistica delle politiche dello sviluppo che avevano caratterizzato il socialismo desturiano del regime verso l’ingresso della Tunisia nell’emergente mercato neoliberista globale. La dipendenza economica dell’area nord africana all’Europa agganciava anche la Tunisia che oltre ad allestire un grande villaggio turistico nelle sue coste per cittadini europei non aveva più altri spazi di sviluppo. Non è un caso quindi che le prime giornate di rivolta si siano scatenate nella regione di Sidi Bouzid, e che la composizione tecnica e politica del movimento a venire era già pienamente matura mentre in quella città venivano presi d’assalto gli edifici delle istituzioni pubbliche e private.
Sidi Bouzid è uno dei primi poli agricoli della Tunisia, che da decenni ha subito l’espropriazione selvaggia della ricchezza prodotta senza avere mai un ritorno in termini di politiche di sviluppo e di investimenti nell’industria agroalimentare, eccezion fatta come per il resto del paese per l’istruzione pubblica. L’entrata in crisi del mercato euro-tunisino, la crisi del debito sovrano ha fratturato il comando esercitato dall’UE, e la classe operaia ne ha approfittato per colpire il nemico. Non più lotta contro il regime neoliberista della Fortezza Europa tramite la migrazione, ma lotta di classe contro il suo regime locale nello spazio globale della crisi. Il movimento di rivolta ha avuto il suo epicentro iniziale, e consolidato alcune tra le sue basi sociali e politiche più consistenti e determinate, in una regione (circoscritta tra Sidi Bouzid, Kesserine e Tahla) dove la crisi si è mostrata dai profili netti seguendo una proporzione per cui ad un alto livello di sviluppo della formazione ha fatto corrispondere solo politiche di gestione repressiva della povertà. Da questa contraddizione la soggettività sociale del proletariato giovanile ha saputo cogliere energia politica per divenire una generazione per-sè, operando una secessione radicale dal regime violento della miseria e della povertà, e in questo movimento di separazione, in questa affermazione di radicale alterità, ha organizzato la povertà e la miseria per ridare dignità al lavoro e al sapere, coinvolgendo la molteplicità delle lotte contro la crisi e contro il regime. E’ su questa tendenza della composizione di classe che fa leva il divenire rivoluzionario del movimento tunisino, e che la molteplicità delle insorgenze sociali e intransigenze politiche della classe e della società civile hanno trovato una formidabile convergenza.
Gli spazi dell’organizzazione del movimento si sono aperti proprio su queste caratteristiche  determinate della composizione sociale intrecciando la sede del sindacato al social network, all’assemblea di istituto e d’ateneo, facendoli divenire i luoghi della riappropriazione della politica, del dibattito e per l’azione diretta. Si tratta della trasformazione immediata dei comitati di solidarietà, diffusi ovunque dopo la rivolta di Sidi Bouzid del 17 dicembre, in vere e proprie assemblee costituenti territoriali, istituti dell’autonomia di classe il cui esercizio di resistenza offensiva, il cui antagonismo radicale è già immediatamente espressione di “altre” relazioni sociali, di un’altra giustizia e prassi della democrazia che viene.

Al sindacato la tattica…
Ben Ali ha tremato per il terremoto prodotto da questa alterità costituente e antagonista, composta da un piano immanente di organizzazione e lotta continua, che dalla rivendicazione di più eque politiche economiche è passata in una notte, con un grande balzo, a diffondersi per la Tunisia come un movimento di liberazione dal regime e dalla crisi capitalista. Questo repentino passaggio maturato dalla soggettività rivoluzionaria si è palesato nell’uso che ha fatto del sindacato, grazie alle capacità dei suoi quadri bassi e medi che hanno permesso al movimento di imporre la strategia e al sindacato di funzionare da tattica.
Sindacato come tattica e sciopero generale come sviluppo, continuità del movimento, è tutta qui la premessa della prima importante vittoria delle mobilitazioni a carattere insurrezionale che da gennaio hanno inciso radicalizzandosi e massificandosi, fino alla cacciata di Ben Ali. Il regime ha risposto con una repressione serrata raggiungendo il livello bellico dello stupro, dello stato d’assedio di intere città, e delle esecuzioni di piazza, ricevendo in risposta la continua conferma da parte sindacale degli scioperi programmati, dell’organizzazione tramite social network delle iniziative di lotta e della socializzazione dei discorsi e della controinformazione, della diffusione delle assemblee studentesche e dello stato di agitazione della società civile ormai connessa e saldata alla lotta di classe aperta dall’avanguardia sociale della formazione in lotta. Non più giovani poveri o proletariato giovanile, ma generazione per-sè orientata verso i propri fini e scopi di liberazione.
La lotta di classe facendo scatenare e manifestare pubblicamente la repressione serrata di cui era capace il regime di Ben Ali ha maturato il proprio divenire rivoluzionario. E le aperture alle rivendicazioni del movimento da parte del regime tramite i discorsi televisivi alla nazione del dittatore (l’ultimo addirittura in puro dialetto tunisino) sono stati letti dal movimento per quello che erano: le manifestazioni delle debolezza della controparte incalzata dall’accumulazione sociale di cooperazione e contro-potere.

La frattura post-islamista
Nel pieno sviluppo, nella diffusione del movimento durante le giornate di Gennaio il regime ha tentato la carta della manipolazione narrando le rivolte come luogo di azione di gruppi legati all’islamismo radicale e facenti riferimento ad organizzazioni terroristiche come Al Quaeda Magreb o a misteriose potenze. In questo modo da una parte si voleva assicurare una copertura politica internazionale alla mattanza che proprio in quei giorni si faceva sempre più violenta, e dall’altra si giocava la possibilità della separazione di parte dei ceti laici e delle professioni che erano ormai attivi ed interni ai processi di dispiegamento del movimento sociale. Ad aiutare la propaganda del regime arriva con puntualità la massa di comunicati, dichiarazioni e video messaggi di solidarietà inviati dalle più differenti fazioni del fondamentalismo islamico. Davanti a questo evento il movimento ha semplicemente proseguito la sua agenda di lotta in parte ignorando e in parte respingendo al mittente le provocatorie ingerenze dell’islamismo internazionale e denunciando l’opera di criminalizzazione del regime. Il movimento tunisino si presenta con la sua carica innovatrice anche per configurare con radicalità una prima profonda frattura della retorica e del dispositivo di cattura del potere mediale  legato alla stagione della guerra infinita. Tra dicembre e gennaio nella piazza infuocata della Tunisia emerge una prima importante, decisiva manifestazione, in un paese arabo-musulmano, di un movimento di massa post-islamista e a-fondamentalista, in cui il corpo sperimenta le infinite capacità di cui è capace compresa la liberazione dal discorso religioso. Gli eventi tunisini pongono all’ordine del giorno una via d’uscita dalla narrazione della guerra “tra le civiltà” per una guerra nella civiltà, tra espropriatori ed espropriati.
Ci da ragione la manifesta assenza di organizzazioni islamiste nella rivolta. Annahda, la principale organizzazione islamista tunisina (che guarda a modello le politiche islamico-liberali del governo turco), sembra non aver scorto tra i rivoltosi tunisini la possibilità per realizzare la propria missione divina ed ha preferito starsene ben lontana dagli scioperi generali che hanno portato alla fuga del dittatore, salvo poi, una volta cacciato Ben Ali, con estremo opportunismo e interessata pragmaticità presentarsi davanti alle telecamere delle TV occidentali alla ricerca di visibilità. Ma questa è una caratteristica del ceto politico di tutte le opposizioni partitiche, comprese le fazioni laiche e socialiste, più o meno riconosciute dal vecchio regime (salvo rarissime eccezioni, come il Partito Comunista dei Lavoratori Tunisini) che hanno addirittura aspettato il 09/01/2011 per diramare un comunicato congiunto che richiedeva al dittatore l’immediato cessate il fuoco per poi “allestire un dibattito nazionale per risolvere i problemi e iniziare le riforme indispensabili”. Nelle giornate decisive dello scontro, i gruppuscoli e i partiti di tradizione socialista, laica, verde e comunista hanno mostrato la loro incapacità di comprendere e sostenere il movimento anche per inserirsi, seguendo i propri scopi, nel processo rivoluzionario. Infatti torneranno in scena solo dopo la fuga di Ben Ali, chiamati dal regime per tentare di costruire un così detto governo di transizione verso libere elezioni, evento delegittimato e contrastato dal movimento e dall’organizzazione sindacale che nell’arco di poche ore ha ritirato i proprio ministri dichiarando di non riconoscere il nuovo governo.

La transizione: l’esercito, la milizia e i gruppi di auto difesa territoriali.
Il 14 gennaio, è la data del grande sciopero generale dove si scatenano le forze accumulate in un mese di rivolta del movimento tunisino che dopo una giornata di scontri riesce a mettere in fuga il tiranno ed entra in scena l’esercito. I militari da Gennaio erano stati inviati in tutte le città del paese mantenendo pubblicamente una sorta di posizione neutrale tra polizia e manifestanti, riuscendo a guadagnarsi non poche simpatie di quest’ultimi e configurandosi come unica e ultima istituzione capace di funzionare da collante terminale tra la popolazione e lo stato. E’ quindi l’esercito basato sull’obbligo di leva a prendere il controllo delle città e a difendere l’assetto istituzionale durante la transizione post-Ben Ali. Prende il posto del dittatore il ministro Ghannouchi, uomo forte del regime e indicato fin dal 2006 dall’ambasciata americana a Tunisi come possibile successore di Ben Ali, che dichiara pubblicamente di lavorare alla costruzione di un governo capace di allestire libere elezioni ed attuare provvedimenti per contenere l’avanzamento delle istanze di liberazione reclamate dal movimento. Si dispiega a partire da questa fase un attacco politico e poi militare dell’establishment tunisino contro il movimento. A costituire il governo vengono chiamate figure più o meno note dei partiti di opposizione e della società civile e si confermano ministri del passato governo di Ben Ali e diversi uomini del partito del regime (RCD), si annunciano amnistie e viene confermata la fine della censura della rete internet. Nell’arco di poche ore il sindacato (UGTT) ritira i propri uomini dal governo sfiduciandolo pubblicamente dando espressione organizzata alla volontà del movimento e riconfermandosi come strumento tattico dei processi rivoluzionari. Non a caso dopo la sfiducia al governo, il sindacato appoggia e promuove pubblicamente la costituzione dei gruppi di difesa territoriale che vengono organizzati a partire anche dai comitati di solidarietà diffusi in tutta la Tunisia e centri dell’elaborazione dell’iniziativa. Questi gruppi sono la risposta del movimento alle azioni della milizia armata,  composta da poliziotti, malavitosi, militanti dell’RCD fedelissimi a Ben Ali, che dopo la fuga del dittatore hanno iniziato ad agire come squadristi tentando di portare il terrore nei quartieri operai e nelle banlieue incendiando case e piccoli negozi, assaltando le sedi del sindacato e provocando sit in e cortei, sparando all’impazzata nei rioni, con l’obiettivo di colpire i territori abitati dall’avanguardia sociale del movimento. La costituzione dei gruppi di auto difesa territoriale sono divenuti quindi l’efficace strumento di difesa sociale e politica dai tentativi di neutralizzazione terroristica e repressione armata del movimento, garantendo la difesa dell’autonomia sociale conquistata con la lotta e organizzata dei comitati di solidarietà.

La governance a sud, in crisi.
L’entrata in scena della milizia e un non più discreto “attivismo” dell’esercito seguono parallelamente alla ripresa dell’iniziativa delle potenze occidentali uscite dal trauma post-Ben Ali. L’Europa si ritrova privata di un importante partner economico nel contesto nordafricano e di un fidato alleato nelle politiche e nelle iniziative militari di contrasto alla migrazione e al radicalismo islamista. Senza il vassallo di Cartagine, l’Europa, in modo particolare la Francia e l’Italia, perdono l’ennesima quota stabile di influenza nell’area mediterranea incalzati da Sud, in Sudan, dall’offensiva anti-cinese della Casa Bianca,  e da Est da un regime egiziano ormai in aperta crisi grazie al progressivo costituirsi di un movimento sociale contro l’establishment capeggiata da Moubarak ed il caro vita.
All’Unione Europea resta l’Algeria legata dagli oleodotti che pompano petrolio e gas verso il vecchio continente, ma il cui contesto sociale non promette una duratura stabilità preoccupando non poco la Casa Bianca che all’indomani della cacciata di Ben Ali ha precipitato un inviato per discutere della situazione con i ministri algerini. Per l’Italia, ultimo paese occidentale a voltare le spalle a Ben Ali, Gheddafi è la carta nel mediterraneo per mantenere un ruolo (almeno) d’esistenza nello scenario internazionale e contare qualcosa, tentando l’affondo delle politiche verso la Libia. E’ anche per queste ragioni che l’Europa non ha mai sventolato la bandiera dei diritti umani e delle libertà civili in faccia a Ben Ali e al suo Stato di polizia, men che meno si è preoccupata di redarguire il vassallo di Cartagine mentre la sua polizia si prodigava a reprimere con efferata violenza le rivolte dei primi giorni di Gennaio. L’Unione Europea è terrorizzata che in questo momento possa aprirsi un fronte sud nell’area mediterranea, ora che è alle prese con la crisi del debito sovrano, non può che guardare con estremo timore ad un Magreb destabilizzato non dall’attivismo islamista radicale (ancora gestibile, non senza difficoltà, nel contesto della così detta “guerra al terrorismo”), ma da insorgenze sociali o come nel caso della Tunisia dall’apertura di spazi delle lotte di classe capaci di travolgere capi di stato e sconvolgere assetti istituzionali. Se la tendenza che si profila in termini di composizione di classe e soggettività emergenti è orientata verso un Magreb unito dalle lotte, il proletariato può approfittare della debolezza europea che non può fare a meno di ricorrere a Washington per cercare di contenere politicamente o schiacciare (in termini militari) l’organizzazione delle lotte di riapproprazione e conflitto nello spazio magrebino della crisi globale. Non sorprende quindi che il 20.01.2010 l’ambasciatore americano a Tunisi abbia diramato un comunicato ufficiale, in cui oltre a riprendere le dichiarazioni di Obama (che, giorni fa, salutava il rinnovamento democratico del popolo tunisino), appoggia direttamente il governo Ghannouchi e i suoi provvedimenti di “transizione”, consigliando ai tunisini di proseguire “con calma e in modo responsabile” con l’assicurazione che gli Stati Uniti “saranno con voi durante la vostra transizione verso una democrazia stabile e pacifica”. La Casa Bianca appoggiando il nuovo governo, che mai avrebbe voluto provocato da un sollevamento popolare, intima l’alto là al movimento tunisino preoccupata per una piazza che potrebbe sorprendere ancora, sostenuta dalla militanza globale di hacker capaci di garantire la comunicazione tra i rivoltosi, di difendere il flusso di informazioni tra la rivolta e il resto del mondo, e di operare attacchi informatici per mettere fuori uso la comunicazione ufficiale pur in un contesto non privo di criticità e momenti di iniziativa della controparte.

Una generazione in lotta si fa largo nel Mediterraneo.
L’esercizio del diritto di resistenza contro il regime della crisi in Tunisia va avanti rifiutando le tragicomiche pseudo conquiste offerte alla piazza dai partiti dell’opposizione che ancora restano nel governo Ghennouchi. Il movimento segue coerente i propri fini, i propri grandi scopi di liberazione e cacciato il tiranno, adesso lavora per liberarsi della tirannia.
La difesa delle proprie istituzioni costituenti e l’attacco al persistere del sistema di espropriazione violenta che aveva condannato alla povertà la maggioranza dei lavoratori  e dei disoccupati sono le tendenze su cui si concentra l’iniziativa, mostrando come sia già in atto un “altra” e contrapposta costituzione in-divenire. E’ l’approfondirsi e il consolidarsi dell’autonomia di classe sviluppata dalla formazione in lotta che ha saputo centralizzare la molteplicità delle lotte proletarie e della società civile, organizzandone la convergenza orientata contro il regime. In Tunisia non ci sono più “i giovani”, o meglio i giovani governati, ma c’è una generazione per-sé protagonista della sua possibile liberazione, capace di organizzare la povertà per restituire dignità al lavoro e al sapere, farne cooperazione immediatamente altra e antagonista alla crisi. Questa tendenza riconosce il volto di Mohamed in fiamme, il laureato in economia e disoccupato con in mano un pò di frutta e verdura per campare, nel volto di un qualsiasi ricercatore universitario alle prese tutte le sere con le consegne di pizze a domicilio, o nel volto di quel precario diplomato che lavora per l’ennesimo stage non retribuito. Questa tendenza rompe le frontiere della Fortezza Europa e del Magreb non solo sul piano dell’immaginazione proletaria ma anche nella materialità di una composizione di classe che può fare del mediterraneo, non più lo spazio della governance della migrazione, ma lo spazio delle lotte e dell’organizzazione. Le lotte di classe in Tunisia dicono anche questo e al di là del loro sviluppo prossimo hanno già realizzato una svolta a cui guardano i proletari di mezzo mondo. Al movimento la strategia, al sindacato la tattica e nello sciopero l’affermazione  di relazioni sociali altre e antagoniste al regime della crisi, è questa l’innovazione originale prodotta in pochi giorni da un proletariato costretto al silenzio e alla miseria da una vita. Ed oggi lo scontro è dato proprio su questo livello: tra l’incalzare della prassi costituente del movimento e il tentativo delle elites di neutralizzare, tramite repressione ed aperture (in perfetto stile Ben Ali!), le istanze trasformatrici affermate dalla piazza. Lo scontro è oggi tra una costituzione, quella del regime, che deve essere riformata per garantire l’establishment e gli interessi delle potenze occidentali, e un altra costituzione che viene e che si fonda continuamente tra le relazioni che il movimento produce e riproduce fuori e contro la valorizzazione statale dell’ormai vecchio regime che perdura. Il sindacato in questo contesto continua a funzionare da strumento tattico, e gran parte della società civile è in movimento nell’orbita delle lotte di classe della generazione per-sé, che può trascinare anche altre regioni tramite l’innovazione di un primo divenire rivoluzionario a-fondamentalista e post-islamista. L’effetto destabilizzante di questo evento, che anche altrove può divenire processo, per i regimi arabi e per le potenze occidentali non farà attendere la repressione del partito della reazione locale e globale. In ogni modo sia l’opzione militare che possibili recuperi dall’alto del processo rivoluzionario avranno a che fare con una generazione in lotta che al diritto di fuga ha preferito l’esercizio del diritto di resistenza facendo scoprire ai proletari del mondo intero la potenza offensiva della povertà quando si lascia la religione in cielo mentre in terra si lotta e organizza per riprendersi tutto, qui ed ora.

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