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Arabia Saudita: tra dipendenza esterna e successione al trono

La nascita del regno saudita risale all’anno 1932. Lo stato saudita si regge su un accordo ultra-centenario tra la tribù degli Al-Saud e quella degli al-Wahhad, datato 1744. Secondo questo accordo ai primi sarebbe spettato il monopolio della politica, ai secondi quello in materia religiosa: questa alleanza regge ancora oggi, grazie al quale la legittimazione islamista garantita dai Wahhabiti1 al regno dei Saud fornisce un forte consenso inter-tribale e una coesione territoriale ai Guardiani della Mecca e Medina.

La special relationship con gli USA invece è retro-datata al 1945, anno dell’incontro tra il presidente Roosvelt e Abdelaziz al-Saud, sull’incrociatore USS Quincy lungo il canale di Suez.

La relazione con l’Occidente è però precedente, dato che il padre fondatore dell’Arabia moderna usò i suoi ottimi rapporti con l’Inghilterra coloniale per reprimere le rivolte degli Ikhwan, i guerrieri wahhabiti che minavano la stabilità del regno appena nato.

Si creava così fin da subito una dipendenza da un potere esterno, che avrebbe garantito la stabilità del regno. La convergenza di interessi tra sauditi e americani implicava, da parte saudita, la garanzia di un flusso ininterrotto di petrolio a determinati prezzi, e, in termini strategici, la nascita di un’asse panislamico che avrebbe contrastato la diffusione delle idee socialiste e panarabe in Medio Oriente; da parte americana si garantiva invece un incondizionato appoggio in termini di sicurezza, e la condivisione del know-how tecnico necessario per migliorare le estrazioni petrolifere e diversificare l’economia.

Nel modello della scuola strutturalista2 questo tipo di interazione rappresenta il tipo ideale dell’imperialismo strutturale.

La scuola strutturalista individua nelle relazioni economiche le chiavi di volta dell’ordine internazionale: questa scuola ha contribuito alla comprensione delle relazioni internazionali contemporanee attraverso una lettura delle dinamiche politico-economiche sull’asse Nord-Sud articolata a sua volta nella bipartizione centro-periferia, secondo la quale gli stati del Centro subordinano e sfruttano i paesi della Periferia.

E’ opinione di questi studiosi che il sistema si riproduce attraverso alleanze tra le élite del centro e le classi dominanti delle periferie, che dipenderebbero in maniera simbiotica dalla divisione del lavoro internazionale.

Seguendo questa lettura l’Arabia Saudita è diventata, grazie al possesso del 21% delle riserve mondiali, fornitrice di prodotti primari vitali per il centro capitalistico. Al tempo stesso la convergenza di valori tra le élite occidentali e quelle saudite (sovrapposizione di interessi economici, condivisione delle minacce e della percezione del mondo3) ha continuato a funzionare da forza che ha allineato la sua politica estera a quelle dell’occidente (alignment rather than balancing external threat4).

In secondo luogo, questo particolare tipo di economia ha contribuito, tramite la preponderante presenza dello stato, a creare uno squilibrio e un sottosviluppo dell’economia locale e del capitale umano5. Parziale e superficiale industrializzazione, industria petrolifera enclave senza connessioni, sindrome olandese, fuga di cervelli, boom edilizio, alta importazione tecnologia esterna sono solo alcuni dei fenomeni tipici dei rentier state e/o di stati neo-patrimonialistici, quali é l’Arabia Saudita.

Fondamentalmente, le rendite economiche esterne (ossia dipendenti dal mercato del petrolio e dalla drammatica fluttuazione del greggio) vengono usufruite da una ristretta élite che ne gestisce la distribuzione attraverso l’allocazione di prebende e favoritismi di tipo patronale alla popolazione.

In questo tipo di governance il consenso statuale e i processi di state-building sono stati gestiti (e lo vengono tuttora) in termini di integrazione e cooptazione di intere classi sociali che, in cambio di un welfare-state gratuito, assicurano il loro sostegno alla leadership. Il rapporto stato-cittadino é dunque lontano da un patto sociale dato da precise regole costituzionali, ma è basato su relazioni economiche a diversi gradi di privilegio, a secondo dell’accesso alle rent-allocation del governante, che garantisce l’esistenza di un welfare-state e incentivi statuali6.

Lungi dall’essere il diretto prosecutore di sistemi di potere e burocratici con tradizioni secolari7, ma una creazione artificiale e fragile, fissata su deboli processi di state-building, lo stato saudita, attraverso una serie di network burocratici di dimensioni elefantiache, si è abnormemente espanso in tutti i gangli della vita sociale-controllo totale dell’economia, della polizia, dell’esercito- producendo quella sorta di malattia che Ayubi chiama over-stating, che soffoca e reprime la nascita di movimenti sociali e società civile al di fuori dello stato8.

 

LO SHOCK PETROLIFERO DEL 1973: L’APPROFONDIRSI DELLA CONVERGENZA tra USA e Arabia Saudita

La convergenza di interessi tra Stati Uniti e Arabia Saudita é messa bene in luce dallo shock petrolifero del 1973, quando i paesi arabi decisero un embargo parziale verso l’Occidente per il suo sostegno ad Israele durante la guerra del Kippur.

L’amministrazione Nixon mise in atto una strategia di neutralizzazione dello strumento-embargo attraverso una ancora più stretta alleanza con Riad, in una special relationship economico-militare. Questa avrebbe portato l’Arabia Saudita a svolgere un ruolo di swing producer per calmierare i prezzi petroliferi e a impiegare la sua nuova influenza, derivante dalla sua immensa ricchezza, per moderare la politica araba, riciclando i suoi petrodollari utilizzando istituzioni finanziarie americane. Al tempo stesso gli Stati Uniti, in cambio, avrebbero offerto protezione militare e la tecnologia necessaria per sviluppare e diversificare l’economia saudita.

In tutto ciò gli Stati arabi furono indotti a credere che l’uso dell’arma petrolifera avrebbe alterato la politica americana nei confronti di Israele e ribaltato l’equilibrio di potenza del sistema medio-orientale: invece lo shock petrolifero non sembro minacciare direttamente gli Stati Uniti, anch’essi grandi produttori di petrolio, e parve infatti fallire nel suo intento politico di trovare una soluzione generale al conflitto arabo-israeliano.

Nixon e Kissinger integrarono l’Arabia Saudita (e gli stati del Golfo) come “trasmettitori di capitale metropolitano”9: la casa regnante avrebbe investito i surplus petroliferi in Occidente, in tal modo acquisendo un’interesse nella stabilità dello stesso. La strategia fu vincente. In primo luogo la famiglia Saud diventò parte di quella borghesia internazionale con interessi e asset da Wall Street alla City di Londra, re-investendo più dell’80% dei proventi petroliferi in queste istituzioni. Tali investimenti diedero alle élite saudite un diretto, e spesso personale, interesse nella stabilità dell’economia occidentale, fornendo così un incentivo alla moderazione dei prezzi petroliferi e, di contro, limitando gli investimenti nello stesso mondo arabo.

Inoltre l’economia petrolifera aumentò di molto la dipendenza in termini di sicurezza dell’Arabia Saudita dall’Occidente, e non il contrario. La combinazione di super-ricchezza, debolezza dello state-building e credenziali religioso-nazionaliste contestate, soprattutto dopo la Rivoluzione iraniana, ha ancor di più rivolto questo paese verso gli Stati Uniti. Gran parte delle eccedenze sono state così spese in costosi e sofisticati armamenti, pezzi di ricambio: tali acquisti, accompagnati da pianificazioni militari e industriali congiunte con gli Stati Uniti, hanno approfondito la dipendenza dal protettore esterno.

 

LA SUCCESSIONE AL TRONO: CONTINUITA’ NEL CAMBIAMENTO

La copertura mediatica della morte di Re Abdullah ha dimostrato l’importanza strategica che riveste l’Arabia Saudita, e la sua dinastia regnante, per l’intero Occidente.

In primo luogo per quel che riguarda la politica energetica e gli interessi in gioco.

Secondo molti analisti la caduta del prezzo del petrolio di oltre il 40% da giugno 2014 andrebbe letta come una mossa saudita che, di concerto con l’alleato americano, metterebbe in difficoltà paesi come l’Iran10, impegnato in delicatissimi negoziati con il P5+1, e la Russia11, impantanata in Ucraina e alle prese con una guerra speculativa al rublo. Contemporaneamente i sauditi sarebbero stati in grado di cogliere due piccioni con una fava: lo stesso crollo dei prezzi del brent infatti andrebbe a colpire la produzione di shale gas americano, che, con prezzi attuali, sarebbe totalmente fuori-mercato rispetto all’oro nero12. Detto ciò la questione è se Riad, al netto della strutturale domanda minore di energia mondiale (leggi stagnazione e rallentamento crescita Cina) e del boom dello shale oil americano, sarà in grado di mantenere incentivi alla spesa pubblica tipici di un rentier state e di non minare la stabilità interna13.

In secondo luogo l’Arabia Saudita continua a giocare un ruolo centrale nelle alleanze e nell’equilibrio di potenza regionale.

Nel contesto regionale, afflitto da conflitti e dalle primavere arabe, la predilezione saudita per lo status-quo, giocata fin d’ora da Abdullah, con una forte proiezione al di là del GCC14, sembra rivestire una funzione con cui gli Stati Uniti si trovano a fare i conti. Se le primavere arabe hanno spaventato la dinastia Saud almeno parzialmente (si sono avute rivolte nella parte orientale a maggioranza sciita), la politica estera saudita è stata estremamente aggressiva e double-face nei confronti del cambiamento.

Da una parte Riad ha sostenuto lo status-quo in Bahrain dove l’organo militare del GCC, il “Peninsula Shield Force”, è intervenuto a difesa della monarchia Al Khalifa: Riad è timoroso che la rivolta di una popolazione a maggioranza sciita, dove i sauditi vedono sempre lo zampino dell’Iran, si propagasse a macchia d’olio.

Lo stesso è accaduto in Egitto, dove Riad ha finanziato il colpo di Stato ai danni dei Fratelli Musulmani di Morsi, troppo indipendenti (e vicini all’Iran secondo alcuni15), colpevoli di mettere in questione la legittimità dell’Islam dei Guardiani della Mecca. Al tempo stesso ciò ha portato a galla una spaccatura, solo ultimamente riparata, tra Qatar e i paesi del GCC: Doha è stata accusata di finanziare la Fratellanza Musulmana e la sua uscita dalla clandestinità (sia in Egitto che in Tunisia e Libia), mettendo in tal modo in pericolo sia tradizionali alleati sauditi (vedi Mubarak), sia la stessa stabilità dei regimi del Golfo16.

La politica saudita non ha invece ottenuto i suoi frutti in Siria, almeno fino ad ora. Lo strappo con l’amministrazione Obama, restia ad un intervento contro il regime di Assad nell’estate del 2013, sembra aver in qualche modo incrinato i rapporti con l’Arabia Saudita.

Strappo che si è palesato nel rifiuto saudita del seggio temporaneo al Consiglio Di Sicurezza nell’ottobre 201317, così a dimostrare la contrarietà di Riad verso la politica medio-orientale di Obama, agli occhi sauditi troppo accondiscendente con l’Iran (con cui ha riaperto i negoziati sul nucleare) e con le “primavere arabe” (abbandono di Mubarak e appoggio di Washington ai Fratelli Musulmani).

Tuttavia è difficile che l’Arabia Saudita possa condurre una politica svincolata dagli obiettivi USA, nonostante queste lacerazioni18. È un dato di fatto però che, nella ricerca dell’egemonia regionale, Riad punti a diventare un peso massimo della geopolitica, attraverso, ad esempio, lo sviluppo delle armi nucleari: un reportage della BBC19 ha svelato come i sauditi stiano investendo fior di quattrini, in concerto col Pakistan, per l’acquisizione di un’arsenale nucleare. Ecco forse spiegato il grado di autonomia- comunque parziale-che i sauditi hanno intrapreso rispetto alla tradizionale convergenza verso gli Stati Uniti.

Con l’elezione a re di Salman bin-Abdulaziz al Saud il regno saudita sembra aver voluto dare un segno di continuità con la precedente gestione del potere20.

Il suddetto re appartiene ai cosiddetti Sudairi Seven, ovvero è uno dei (7) figli della moglie favorita del fondatore della dinastia, Hassa bint Ahmed al Sudairi. Prima della morte Abdullah ha designato anche il successore di Salman nella persona di Muqrin bin Abdulaziz, il più giovane dei Sudairi e fratello di Salman. Già da tempo i due fratelli di Abdullah facevano le veci di quest’ultimo.

Secondo Lina Khatib, analista del Carnegie Endowment for Peace, é da considerare centrale la figura di Mohammed Bin Nayef, ministro dell’interno dal 2012, e secondo nella linea di successione Salman. Egli rappresenta il primo erede al trono della terza generazione dei Saud, ossia dei nipoti del fondatore del regno Abdulaziz.

Innanzitutto è colui che oggi controllo il file sulla Siria della casa saudita, dopo che Abdullah l’ha tolto dalle mani di Bandar Bin Sultan (ex ambasciatore saudita negli USA e amico personale della famiglia Bush) nel 201421, che aveva concentrato tutti i suoi sforzi sul sostegno a forze jihadiste per rimuovere Assad dal potere. Strategia fin d’ora fallimentare. Bin Nayef invece ha spostato il focus sul sostegno alla Southern Front Coalition del Free Syrian Army, di stampo islamico moderato.

Bin Nayef inoltre è ben noto per il suo pugno duro con le formazioni jihadiste, essendo il leader del contro-terrorismo e il responsabile del programma di riabilitazione per i “jihadisti di ritorno” (è stato vittima di ben 4 attentati alla sua persona). Al tempo stesso alcuni analisti hanno sottolineato il suo ruolo di ministro degli Interni nel reprimere i movimenti liberali di dissenso negli anni passati, vedi rivolte nella regione sciita dell’al-Hasa (e conseguente sentenza di condanna a morte del prominente chierico sciita Sheik Nimr al-Nimr).

I suoi buoni uffici negli USA e in UK (ha un passato di studio presso l’FBI e Scotland Yard) hanno permesso di rinsaldare i rapporti con le due potenze, permettendo all’Arabia Saudita di diventare un membro di punta della coalizione anti-ISIS. Inoltre é considerato un politico pragmatico: nonostante l’avversione per l’Iran, Bin Nayef é conscio che l’influenza iraniana può essere affrontata anche con timide aperture. Per questo il regno saudita ha agito pragmaticamente in Iraq, accettando il candidato benedetto dall’Iran al-Abadi, e in Yemen, dove, malgrado la condanna ufficiale del colpo di stato degli alleati iraniani Houthi, tiene i canali di comunicazione aperti con Teheran. E pare fare lo stesso in Libano, dove lo stallo nell’elezione del Presidente della Repubblica, è un sottoprodotto delle tensioni Iran-Arabia Saudita.

Con la salute cagionevole del nuovo re e la presunta neutralità dell’erede al trono Muqrin, sembra chiaro che il peso politico maggiore sarà giocato da Bin Nayef, che determinerà, nel bene e nel male, la politica saudita in Medio Oriente per i prossimi decenni.

Il nuovo re dunque, affetto da demenza senile e salute cagionevole (79enne), si troverà ad affrontare sfide interne ed esterne non da poco.

Internamente le timide riforme di Abdullah, vedi apertura ad elezioni amministrative e inserimento di una quota rosa nel consiglio della Shura, dovranno essere seguite da una continua politica di incentivi e programmazione sociale.

La politica energetica, gestita dal tecnico Ali al-Naimi, e dal figlio di Salman, Abdulaziz bin Salman, continuerà probabilmente lungo la linea tracciata fin d’ora: nessuna riduzione della produzione all’orizzonte, pure a fronte della domanda minore. In valore assoluto i sauditi hanno molto da perdere, ma sono in condizioni, grazie alle immense riserve di dollari date dal petrolio (si parla di 750 miliardi di dollari di stock), di mantenere la stabilità sociale e i network patrimonialistici.

Inoltre il nuovo sovrano dovrà tenere insieme le correnti interni di Casa Saud, e bilanciare spinte centrifughe e lotte intestine non da poco (i Saud conterebbero qualcosa come 5000 principi…).

A livello esterno invece, se la relazione con gli Stati Uniti (e l’Occidente), anche nella “lotta al terrorismo”, non sembra in discussione, la politica estera aggressiva di sostegno a gruppi jihadisti potrebbe ritorcersi contro la stessa dinastia.

La necessità di legittimarsi internamente agli occhi dell’establishment religioso, il bisogno di dirottare centinaia di estremisti al di fuori dei confini e, al tempo stesso, l’urgenza di bilanciare l’arco sciita (Iran, Iraq, Siria) hanno determinato una politica estera aggressiva.

Contemporaneamente questo pattern di politica estera sembra sviluppare logiche proprie che rischiano di ritorcersi contro i suoi stessi padroni.

Emblematici sono gli attentati a Riad nel 2003 e Khobar 2004, ma anche e soprattutto il presunto coinvolgimento di banche, fondazioni e individui sauditi negli attacchi dell’11/9 alle Torri Gemelle22.

Fin d’ora le amministrazioni americane non hanno rivelato i contenuti di 28 pagine del “Joint Inquiry into Intelligence community activities before and after the terrorist attacks of September 11, 2001”, condotto da commissioni d’Intelligence di Senato e Camera, ma sembra presumibile che queste pagine, ancora classificate come riservate, rivelino in modo netto il coinvolgimento di alcuni circoli vicini ai regnanti sauditi nel finanziare ed addestrare i terroristi. Detto ciò l’amministrazione Obama non sembra intenzionata a pubblicarle, non certo per motivi di sicurezza nazionale, ma per non distruggere definitivamente i rapporti con un importante partner economico e militare.

In conclusione, la successione al trono saudita, nonostante le speculazioni sugli effetti della stessa, non cambierà di molto le linee di politica interna ed estera del regno. Nel breve periodo Riad continuerà a far valere il suo peso in alleanza con gli Stati Uniti, almeno fino a quando questi ultimi permetteranno all’Iran di reinserirsi, come attore legittimo, nell’equilibrio di potenza regionale, forse a conclusione dei negoziati sul nucleare a marzo 2015. Lì forse qualche cosa accadrà. E sarà sicuro qualcosa di grosso.

 

NOTE

1 Una variante del sunnismo hanbalita estremamente conservatore e oscurantista nell’interpretazione ortodossa del Sacro Corano

2 J. Galtung, “A structural theory of Imperialism”, Journal of peace research, 8, 2, 1971; I. Wallerstein, The modern world system, Academic Press, New York, 1974

3 B. Moon, “Consensus or compliance? Foreign-policy change and external dependence”, International Organization, 39,2, 1995

4 R. Hinnebusch, The International politics of the Middle East, Manchester University Press, Manchester, 2003

5 H. Beblawi and Giacomo Luciani, The Rentier State: Nation, State and the Integration of the Arab World, Croom Helm, London, 1987 2

6 R. Schwartz, “The political economy of state-formation in the Arab Middle East: Rentier states, economic reform, and democratization”, Review of International Political Economy, 15, 4, 2008

7 Come lo stato-nazione europeo, sviluppatosi attraverso matrimoni dinastici ed esercizio di egemonie culturali che ne hanno forgiato un’identità condivisa su un determinato territorio

8 N. Ayubi, Overstating the Arab State. Politics and society in the Middle East, I.B. Tauris, Londra, 1995

9 S. Bromley, Rethinking Middle East politics, Polity press, Oxford, 1994

14 L. Fawcett, International Relations of the Middle East, Oxford Uni. Press, Oxford, 2013

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