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Cosa vuole la piazza libanese? L’unità del popolo, le dimissioni del governo!

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Per la terza domenica di fila, le piazze del Libano si sono di nuovo riempite in quella che è stata chiamata la “giornata dell’unità”. Beirut, Tripoli, Saida, Tiro, Byblos…

Quando molti iniziavano a credere che la protesta fosse implosa – dopo le dimissioni di Hariri e le neanche troppo velate minacce di Nashrallah, leader di Hezbollah – la partecipazione è tornata massiccia e gioiosa come i primi giorni. Dopo l’ampio spazio che i media locali hanno dato alla manifestazione delle prime ore di domenica alle migliaia di persone che si erano unite per sostenere l’ancora in carica presidente ottuagenario Michel Aoun, decine, forse centinaia di migliaia di libanesi hanno rioccupato lo spazio pubblico per ribadire che , ‘kellon 3ayneh kellon,’ (“tutti significa tutti” [devono andare a casa]). Partita dal pomeriggio la nuova prova di forza si è intensificata sul far della sera, con blocchi che interrompevano la circolazione stradale a Jounyeh e Jal al-Dib sulla direttrice Beirut-Tripoli e nei pressi di Saida, verso Sud. Altri blocchi venivano segnalati sulla highway Beirut-Damasco e in alcuni punti della capitale, di fianco al Ring (importante snodo del traffico cittadino, sede di uno dei primi presidi della protesta), bloccando la tangenziale interna che collega Beirut est a Beirut ovest e di Hamra, non distante dalla American University.

La convocazione di ieri, partita ancora una volta dai social, rispondeva meno ai lealisti pro-Aoun che all’ultimatum di 72 ore posto dalla stessa piazza. Il primo ministro Said Hariri, dopo aver ceduto alle mobilitazioni e aver rassegnato le dimissioni, si è dato disponibile a formare un nuovo governo tecnico ma qui entra in gioco l’intricato rompicapo politico libanese, fatto di equilibri incrociati e dure polarizzazioni identitarie, vero obiettivo politico delle proteste.

{youtube}ASBIZGwdSWs{/youtube}

Che cosa vuole dunque questa strana piazza libanese, che si caratterizza più per la festa e il ballo che per lo scontro diretto con le forze dell’ordine (almeno per ora…)?

Se si guardano le richieste esplicite esse si riassumono in tratti tanto radicali quanto generici: fine della corruzione, tutti a casa e “governo tecnico”.

A ben guardare sono questi i contenuti di tutte i cicli-sequenze di lotte (chiamiamoli come volete) che dal 2011, con specifiche e situate differenze, interessano l’Europa e, con ben altra intensità, Nord Africa e Medioriente. Non sono forse queste le istanze che definiscono quel fenomeno bizzarro che i media definiscono come “populismo”? Critica generale della “casta” politica, protesta contro la corruzione che da essa promana, domanda di più democrazia e, somma (apparente) dell’impoliticità… governo tecnico. Sappiamo bene quanto ambigue possano essere istanze di questo tipo ma è altrettanto chiaro che la concretezza delle situazioni caratterizzano altrimenti tono e significato di queste domande. In un’Europa impaurita dalla propria provincializzazione ed invecchiamento la crisi sbocca non di rado in difesa del proprio privilegio residuo, nelle giovani piazze mediorientali e nordafricane l’apparente idealistica richiesta di “più democrazia” ha un senso ben altrimenti materiale.

Nella protesta libanese questi aspetti sono tutti presenti. Si respira un’aria che ricorda molto le primavere arabe del 2011 ma l’esito di quei processi e le conseguenze nefaste cui hanno portato (tra gli 800.000 e il milione e mezzo di sfollati siriani in un paese di meno di 4 milioni di abitanti) fungono da monito ad una popolazione che ha già alle proprie spalle, come esperienza storica che si è fatta carne di questo popolo, una guerra civile durata 15 anni.

Lo specifico libanese che si aggiunge a richieste e desideri che hanno variamente interessato le primavere arabe, è la messa in discussione dell’organizzazione confessionale del sistema politico libanese, che prevede cariche istituzionali assegnate su basi comunitarie fisse per cui il Presidente della Repubblica è da sempre, per costituzione, cristiano-maronita; il primo ministro sunnita, il presidente del Parlamento sciita. Questa organizzazione dello Stato (se di stato si può parlare) si riflette nella costituzione materiale di un paese in cui la collocazione relativa della forza-lavoro e la soddisfazione dei bisogni riproduttivi sono assicurati dalla comunità di appartenenza, con quote precise di assegnazione nel comparto pubblico e nel lavoro privato.

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Ora l’aspetto fondamentale di questa sollevazione è la messa in discussione di un sistema che regge dalla fine del mandato francese il precario equilibrio libanese. La critica di questo assetto investe in maniera profonda tutta la società. È alquanto significativo che i soggetti principali di questa piazza siano le giovani generazioni nate col finire della guerra o a guerra già finita, come a dire il Libano post-guerra civile, chi in ogni caso non ha vissuto direttamente i traumi di quel conflitto ma ne conserva il senso politico, sociale, esistenziale. Tra questi, fondamentale la presenza femminile (e non di rado esplicitamente femminista) che attraversa le piazze con una insistente presa di parola. Perché criticare la compartimentazione confessionale significa, ad un livello ben più profondo, mettere in discussione l’organizzazione patriarcale della società.

Il tratto iconografico distintivo delle manifestazioni è lo sventolio di bandiere nazionali e la totale assenza di vessilli comunitario-identitari. Diretta conseguenza di questo, il riconoscimento dell’esercito nazionale come propria estensione protettrice (non era già stato questo il caso egiziano?). Sui muri del centro, accanto a slogan e iconografie sovversive, si possono leggere scritte come “respect our army”. La piazza è, almeno nelle due grandi città, Beirut e Tripoli, fortemente a-confessionale, non nel senso di anti-religiosa ma post-comunitaria. Tutte le componenti della società libanese sono presenti in piazza. Se ‘kellon 3ayneh kellon,’ (“tutti vuol dire tutti”) ‘kelna 3ayneh kelna,’ (“tutti noi, vuol dire tutti noi”).

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Se non fosse troppo azzardato, verrebbe da dire che i fantasmi della guerra civile hanno infine prodotto il proprio popolo, un Libano prima solo somma instabile delle differenti comunità. Agisce in questo processo, in maniera più sotterranea ma altrettanto e forse più profondamente produttrice di soggettività, la globalizzazione capitalistica e neoliberale che distrugge le forme di vita tradizionali e produce individui soli, atomizzati che ritrovano lo spettro di una comunità possibile nello stare insieme che la lotta produce.

Due voci a caso che abbiamo incrociato possono essere in qualche modo esemplificative delle ansie, delle rassegnazioni e delle speranze di questa ennesima (ma quantomai nuova) “crisi” libanese. Un anziano tassista (qui un mestiere povero, i taxi assicurando la mobilità per buona parte della popolazione urbana), mite e bonario, ci dice che questa protesta ha portato solo problemi e due settimane senza lavoro, perché “tanto qui non cambia mai niente, via uno, ne arriva un altro, figlio o familiare… a me nessuno mi dà i 10 dollari che mi servono per campare, solo il mio lavoro… in Libano non cambia mai niente”. Di tutt’altro tenore la voce di una giovanissima madre musulmana, in piazza con la figlia: “vengo in piazza ogni giorno, dall’inizio della rivoluzione, e porto mia figlia. Veniamo perché lei non può andare all’Università, perché troppo costosa, e anche le cure non ce le possiamo permettere. Mio marito non può venire perché ha delle questioni con Hezbollah [il senso del rapporto non è chiaro] ma io continuerò a venire, tutti i giorni, perché così non può andare avanti… Cosa succederà? Chi può dirlo..”

Ora, il problema di fondo è che mettere in discussione l’impalcatura della società libanese vuol dire niente po’ po’ di meno che aprire il già noto, triste e insoddisfacente tran-tran del vivere quotidiano libanese, sul baratro di un a-venire tanto potenzialmente liberatorio quanto realisticamente cupo.

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La variabile più pesante, che pesa come un macigno sulla voglia di trasformazione delle piazze libanesi è oggi Hezbollah. Il Partito di Dio, che poteva ancora giocare un ruolo di fondamentale compagno di strada nelle proteste dei rifiuti del 2015, è oggi parte del sistema che ha molto da perdere da queste agitazioni. Unica milizia organizzata non disarmata, perno di equilibrio del governo in carica, attore regionale che si muove sullo scacchiere geopolitico mediorientale come entità statale, vero e proprio stato-nello-stato ed esercito-nell’-esercito, ha sulle prime finto di condividere le ragioni “buone” della protesta (critica della corruzione e del carovita) per poi rapidamente richiamare a casa i propri elettori e puntare il dito sul rischio di derive settarie e infiltrazioni-pressioni occidentali negli affari interni libanesi. Se la prima accusa è piuttosto surreale – ed il rischio di una polarizzazione in quel senso potrà solo essere il prodotto di un suo intervento contro la piazza – la seconda ha non pochi aspetti di verità, ma più nel senso di un cambiamento del vivere e del pensare cui accennavamo prima come prodotto inesorabile della modernità (capitalistica) che non come effettiva intromissione di americani/sauditi/europei, che al massimo potranno arrivare in seconda battuta (certo, condizionando non poco). Lo scorso martedì alcuni shabeb (giovani delle milizie) sono intervenuti per sgomberare alcuni presidi, smontando tende e cercando di cacciare i presidianti. Hezbollah ha dichiarato l’estraneità ai fatti, bollandola come responsabilità di provocatori ma nei sui discorsi il carismatico leader ha più volte fatto intendere che è meglio “non obbligarci ad intervenire”.

L’assenza di strutture organizzative forti e di obiettivi chiari sono la debolezza di questa (e simili) sollevazioni, sul medio-lungo periodo prevarranno sempre le dimensioni più strutturate ma questi contenuti e queste forme sono la cifra dell’epoca in cui viviamo, e si riproporranno senza sosta perché l’assenza di un’appartenenza specifica a un’identità assegnata sono tanto il prodotto negativo della post-modernità capitalista quanto l’irrealizzato cui tende ogni autentico processo di liberazione, dove le possibilità dell’individuo si realizzano in una collettività che non ha altre appartenenze che non siano il proprio agire creativo in comune.

Quali che siano gli sviluppi della thawra (rivoluzione), la giornata di oggi potrebbe rappresentare un passaggio decisivo: tutte le strade in entrata ed uscita di Beirut sulle principali arterie sono bloccate, scuole, uffici pubblici e banche chiuse. Un cielo terso e un sole limpido illuminano il 19° giorno di questa strana e bella sollevazione popolare contro “il sistema”.

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