Piazze per la Palestina: una speranza che può esistere, un punto segnato alla controparte
Il 5 ottobre a Roma è stata una giornata importante, la conferma di una speranza che può esistere, un punto segnato sulla controparte.
Dal Collettivo Universitario Autonomo – Torino
Possiamo dirci con onestà che il risultato di una piazza nazionale richiamata sulla scia del 7 ottobre non fosse scontato: abbiamo tutti avuto modo di farci tempestare di narrazioni faziose da parte della stampa, di subire i tentativi di intimidazione da parte della propaganda di governo che ha affermato solenne che quella manifestazione l’avrebbe impedita; se aggiungiamo a questo una lettura su cosa è stato il 7 ottobre 2023 tutta appiattita nella dicotomia di palestinesi come selvaggi terroristi o vittime indifese, ne escono premesse scoraggianti. Eppure 15 mila persone sono arrivate a Roma con l’intenzione di fare un corteo. Bisogna fin da subito interrogarsi su cosa rappresenti schierarsi con la Palestina nella ricorrenza del 7 ottobre: non è un passaggio a cui ci si può approcciare ideologicamente, né tanto meno dare per scontato. Evidentemente viene riconosciuto come legittimo da molte persone, particolarmente da molti giovani, un momento di rottura con un sistema di oppressione totale e soprattutto viene riconosciuto che esprimere un giudizio nel merito di queste forme di ribellione alla colonizzazione non sia qualcosa che ci spetta fare o che risulta utile. Sembra però esserci un passaggio ulteriore, che rende interessanti di fatto queste piazze, che è l’identificazione di tanti nella causa palestinese. Dimostra un’uscita da quell’approccio pietista e orientalista di chi intende l’internazionalismo come la solidarietà spicciola di carattere morale e più che altro afferente al piano della rappresentazione simbolica, per entrare nell’ottica di cosa bisogna fare e cosa la fase ci offre come occasione nel concreto, per riuscire a mettere in campo azioni di boicottaggio effettivo agli organi politici sostenitori di Israele e contemporaneamente individuare tracciati di lotta da percorrere che permettano anche di rompere la gabbia che soffoca le nostre di esistenze.
Gli anni che abbiamo alle spalle sono stati anni di depressione e impotenza per moltissimi, le condizioni della vita sono andate man mano a peggiorare sia in termini economici che di libertà socialmente intese, eppure per tanto tempo non si è riusciti a contrapporsi dal basso alle strette perpetrate dai vari governi che si sono susseguiti, nessuna propaganda di allarmismo proveniente dalla sinistra è riuscita a concretizzare una chiamata alla mobilitazione o a garantire la continuità di questa mobilitazione per iniziare a ragionare nei termini dell’esistenza di un movimento. Un anno fa, invece, milioni di persone in ogni angolo della terra hanno iniziato a dare vita a momenti di massa contro il genocidio, fino ad evolvere verso il boicottaggio diffuso alle infrastrutture che sostengono questo genocidio per arrivare all’affermazione politica che sosteniamo la resistenza del popolo oppresso dal colonialismo e colpito da tale genocidio. In controtendenza rispetto al passato le mobilitazioni sono andate crescendo invece che riassorbirsi fisiologicamente, la politica istituzionale non riesce ad incarnare nemmeno ipocritamente le istanze che provengono dalle piazze e dunque l’unica rappresentanza politica credibile rimane quella dal basso che richiede la partecipazione diretta alla politica. La Palestina, nel richiamarci ad un’azione concreta e diretta di sostegno alla sua causa, ci ha offerto l’occasione di riscoprire un “Noi” collettivo e globale, che può rompere la solitudine di un’esistenza completamente frammentata e povera da ogni punto di vista, trasmettendo in qualche modo il coraggio di lottare per i nostri bisogni, che non sono poi così diversi dai bisogni di quei “tutti” che insieme a noi si stanno mobilitando ovunque nel mondo. Riscoprire la lotta, poi, ha voluto dire riscoprire un altro modo di vivere, fuori dall’indifferenza e dalla passività, che abbiamo scoperto essere decisamente migliore di quello dominante. Dentro tutti i “contro” che abbiamo urlato ci sono tutti i “per” per cui lottiamo.
Questo abbiamo provato e visto intorno a noi il 5 ottobre a Roma: 15 mila persone che hanno sentito l’esigenza di disobbedire ad un divieto per affermare da che parte sta la gente in disaccordo con lo Stato, dalla parte della Palestina. Accettare quel divieto ad esserci avrebbe significato creare un precedente pericoloso e le migliaia di persone presenti hanno deciso di assumersi la responsabilità che non fosse così. Sicuramente il dispositivo di polizia che ci siamo trovati davanti era imponente, come aspettato, e, in barba a chi sostiene la teoria degli infiltrati dicendo che prima “c’era una manifestazione pacifica e dopo è scoppiato il disastro”, a noi sembra che la tensione nella piazza fosse alta sin dal principio, ancor prima di arrivare se consideriamo tutti i fermi, le perquisizioni e i fogli di via preventivi attuati in tutta Roma dalla polizia. Allora i fatti sono fatti e ciò che è successo è che si è tenuto fede alla promessa fatta, ovvero che il movimento avrebbe disubbidito al divieto. Centinaia di giovani hanno preso parte agli scontri, anche qualcuno che non si aspettava che sarebbe successo. In generale la situazione di panico di cui si parla non ci sembra tanto veritiera: certamente se la polizia lancia i lacrimogeni o corre verso la folla sguainando il manganello il quadro non è propriamente tranquillo, ma ci è sembrato vi fosse la serenità di affrontare quel momento da parte di buona parte dei partecipanti, e soprattutto al termine della giornata la felicità e l’orgoglio erano alti. Avevamo appena sfidato l’arroganza del governo e dei suoi sgherri a Roma ed eravamo in tantissimi. Il bilancio ha superato le aspettative di tutti e per una volta siamo contenti di esserci sbagliati.
Delle parole di chi da decenni lavora politicamente solo nella direzione di ammorbidire le lotte e trovare forme di compromesso con la controparte non sappiamo che farcene; fortunatamente c’è un’onda che li sta superando e noi ne vogliamo fare parte. La piazza di Roma ci ha lasciato carichi per proseguire e questo si è dimostrato nel corteo che ieri ha riempito le strade di Torino, un corteo vivace, pronto a conquistarsi un’altra volta l’agibilità nelle strade, composito e ricco di determinazione. Un momento necessario che ha riconfermato la forza del movimento e segnato una vittoria. La polizia infatti anche questa volta ha tentato, attraverso il diniego della piazza mandato ad personam, di minare la possibilità di movimento, eppure c’eravamo ed eravamo in tanti: ad aprire il corteo partito da piazza Castello due pre concentramenti di studenti medi e universitari da centinaia di persone ciascuno, partiti rispettivamente da piazza Arbarello e dal Campus, con dietro migliaia di persone, famiglie, associazioni e realtà di movimento. Durante il concentramento la questura ha blindato tutte le strade attorno alla piazza ma una volta dichiarato l’intento di partire e mettendoci in movimento, gli schieramenti della celere hanno dovuto spostarsi perchè sarebbe stata per loro l’ennesima figuraccia fatta sotto gli occhi di tutti e che non avrebbe di certo trovato altre giustificazioni credibili. Arrivati in Piazza Vittorio è sorto un grande falò nel quale è stata bruciata la bandiera israeliana sotto l’ovazione dell’intera piazza, momento seguito da discorsi di rivincita, danze e cori attorno al fuoco, c’era l’aria di quando si vince.
Dove guardare adesso? Con l’allargamento dei fronti di guerra anche sul Libano, la Siria, lo Yemen e il coinvolgimento dell’Iran bisogna interrogarsi immediatamente su come costituire un fronte contro l’avanzamento della guerra che abbia caratteri popolari e che possa coinvolgere su diversi livelli aggregati sociali che sinceramente temono le conseguenze di questa escalation e che sarebbero disposti a contrapporsi con determinazione allo scenario che sembra delinearsi.
La crescita esponenziale della violenza bellica avrebbe conseguenze disastrose per tutti, partendo dalle popolazioni già coinvolte nei costanti bombardamenti, fino a quelle governate da chi tali guerre le alimenta politicamente ed economicamente. Prima dell’attivazione per la Palestina le realtà di movimento non sono riuscite a trasmettere la necessità di questo livello della mobilitazione, le conseguenze dirette che la guerra ha sulle nostre vite e viceversa, invece adesso c’è l’occasione di arrivare a questo livello di complessità se continuiamo ad alimentare meccanismi di autonomia e conflittualità dentro e dal movimento, sostanziando ciò che già c’è e costruendo progressivamente quello che ci manca.
Foto di copertina daniele.calabretti_ph
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