Dal 14 gennaio al 15 ottobre: la sfida transnazionale del laboratorio tunisino
Due immagini colpiscono subito all’arrivo nel centro di Tunisi. La prima è il brulichio di persone che vanno avanti e indietro per Avenue Bourguiba, popolano i caffè, entrano ed escono dai negozi, mentre poco più in là un enorme cantiere lavora giorno e notte alla costruzione di un nuovo centro commerciale e direzionale. La seconda sono le decine e decine di feriti e mutilati che si incontrano in alcuni degli hotel internazionali: sono uomini e donne, di tutte le età. Portano magliette, cappellini, braccialetti e sciarpe con la bandiera libica, i più quella nuova adottata dagli oppositori a Gheddafi, alcuni quella dei lealisti all’ormai deposto regime. Attraverso quei corpi e nelle mutilazioni che li segnano la guerra si fa ai nostri occhi carne e sangue, brutalmente concreta. Le due immagini, ne loro drammatico contrasto, sembrano parlarci della stessa cosa: normalizzazione e guerra. Perché la guerra condotta in Libia è stata fatta, innanzitutto, contro i movimenti rivoluzionari. Una guerra per la normalizzazione.
I media raccontano di una Tunisia che si prepara alle elezioni per l’assemblea costituente del 23 ottobre. Da domenica 2, giorno di presentazione delle liste, gli spazi vuoti e numerati sui muri iniziano a essere occupati dalle facce dei candidati. Eppure, girando nelle vie centrali della metropoli tunisina l’impressione è che l’attenzione per le elezioni sia inversamente proporzionale al numero dei partiti che si presentano, un’ottantina, e degli oltre diecimila candidati che si contenderanno i 218 seggi previsti. Insomma, la democrazia rappresentativa nasce già nel segno della sua crisi. In varie cronache dei giornali italiani si legge che sarebbero gli islamisti a bloccare il processo, determinando la bassa iscrizione alle liste elettorali e il probabile diffuso astensionismo. Capita perfino di incocciare in quotidiani di sinistra in cui si sostiene la tesi del governo Essebsi, cioè l’attribuzione degli scontri di piazza alla macchinazione islamica, finendo dunque per sostenerne gli appelli all’ordine. Non si vuole così vedere che lo scollamento irreversibile tra la rappresentanza politica e la composizione sociale non è un fatto che riguarda il futuro dei paesi che si sono liberati dei regimi autoritari, ma al contrario permea il loro presente. Anzi, è proprio questo scollamento il motore della liberazione e della radicale possibilità di un processo costituente. La transizione democratica, allora, qui assume immediatamente il volto aggressivo del filo spinato che circonda ministeri e ambasciate, le piazze e la casbah. D’altro canto, con buona pace della sinistra complottista, i sondaggi danno in testa il partito islamista Ennahda, il cui programma non è certo basato sulla sharia bensì sul controllo di una transizione liberaldemocratica ordinata. É un partito dell’ordine e della pacificazione sociale, pragmatico e interclassista: esalta la rivoluzione parlandone al passato, allo scopo di bloccare una sua continuazione nel presente. Se un paragone può essere lecito, ricorda da vicino la Democrazia Cristiana della cosiddetta prima repubblica italiana. E proprio come la DC, in questo caso con buona pace delle ventennali retoriche sugli scontri di civiltà, si candida a essere il migliore e più affidabile alleato degli Stati Uniti.
Del resto, che la religione in Tunisia non sia l’aspetto dirimente del contesto sociale e politico lo si afferra semplicemente passeggiando per le vie della capitale. La libertà nelle forme di vita non data 14 gennaio, ma viene da prima: il regime di Ben Ali poteva cercare di controllarla, ma certo non di cancellarla o ridurla al silenzio. Il protagonismo femminile e i blogger ne costituiscono i più nitidi esempi. Così – ed è questa l’altra faccia del filo spinato e di Ennahda – si è proposto di dare il premio nobel per la pace a una blogger tunisina: ridurre a icona la rivoluzione per bloccarne la forza. E poi vi è la socialità nei bar lungo Avenue Bourguiba, fatto storico di lungo corso: ogni gruppo sociale ha i propri luoghi di aggregazione (gli studenti, gli insegnanti, gli attivisti, i lavoratori della cultura e dell’arte, e ovviamente anche i poliziotti). Questi spazi tradizionali, che oggi appaiono come i luoghi di una vita tornata in modo più o meno coatto alla normalità (fosse anche una normalità fatta di micro-resistenza e silenziosa sottrazione al lavoro salariato, come molti tunisini fanno notare alternando biasimo e orgoglio), sono divenuti nelle giornate di dicembre e gennaio spazi organizzativi di una socialità sovversiva. Mai esenti dall’infiltrazione e soprattutto dal sospetto, continuamente palpabile per le vie di Tunisi. Questo è probabilmente uno dei lasciti più perversi del regime di Ben Ali, la cui struttura capillare di controllo e informatori ha generato una diffusa produzione paranoica, destinata a sopravvivere all’alquanto parziale smantellamento della polizia politica.
Normalizzazione vuol dire allora continuità con il passato? Decisamente no. E non solo perché Ben Ali e la sua potente famiglia, i Trabelsi, sono stati cacciati. Il punto è che nel processo – cominciato quantomeno con gli scioperi e le lotte del 2008 – che ha condotto al movimento insurrezionale (piaccia o non piaccia alla sinistra italiana ed europea, di questo si è trattato) si è prodotta una nuova soggettività, irriducibile non solo al silenzio, ma anche agli schemi della transizione pacifica alla liberaldemocrazia. Negli ultimi mesi, pur nelle difficoltà di una ripresa forte del movimento, si sta determinando un consolidamento e una sedimentazione organizzativa: le realtà collettive costituitesi in inverno si stanno rafforzando e costruendo rete, i militanti che negli ultimi anni hanno usato soprattutto il sindacato come palestra di formazione e spazio di agibilità politica, insieme a molti giovani che hanno partecipato alle giornate di gennaio e all’occupazione della casbah, stanno forzando l’Ugtt, l’Uget e altre istituzioni verso una trasformazione.
Il meeting transnazionale “Réseau de Luttes” (http://international.r02.org/), tenutosi dal 29 settembre al 2 ottobre in Tunisia, è specchio e verifica di questo processo. Non solo per la grande partecipazione alle assemblee e ai workshop, nell’ordine dei circa 400 attivisti, ma innanzitutto per il piano della discussione politica e la dinamica in cui si inscrive. Decisivo, infatti, è stato il metodo: fin dal meeting di Parigi del febbraio 2011, da cui è nata l’esperienza del Knowledge Liberation Front e insieme ai militanti tunisini è stata proposta la costruzione di un incontro transnazionale, si è scelto di scommettere sul processo e non sull’evento. Così, spentisi i riflettori dei media occidentali su quella che hanno arbitrariamente chiamato “rivoluzione dei gelsomini”, mentre i turisti di movimento se ne andavano insieme alle telecamere, il punto politico è ora più che mai il rafforzamento delle relazioni organizzative tra le due sponde del Mediterraneo. Lo stesso meeting è stato utilizzato, all’interno della Tunisia, per la creazione di reti tra le realtà metropolitane e quelle delle altre città e del sud, i cui primi frutti sono i workshop fatti a Sousse, Ragueb e Sidi Bouzid.
Questo processo è basato sulla composizione comune delle lotte nella crisi. Già ci siamo soffermati sul tema: i movimenti contro il capitalismo globale assumono oggi il volto dei giovani, altamente scolarizzati, produttori di saperi, precari o disoccupati. Una generazione in termini non anagrafici, ma materialistici: oggi dire giovani significa, innanzitutto, dire precari. Lo mette bene in evidenza La Presse de Tunisie, uno dei quotidiani più letti in Tunisia, con un ampio articolo sul meeting significativamente titolato “Internationalement jeunes”. O per dirla meglio, il dato demografico va letto dentro questa qualificazione storicamente determinata: da questo punto di vista, il fatto che più della metà della popolazione nel Maghreb sia composta di ragazzi e ragazze sotto i trent’anni aiuta a spiegare quello che è successo. Ma le quattro giornate di discussione hanno evidenziato anche l’emerge di temi comuni, di cui si possono trovare ampie tracce nei titoli dei diversi workshop. La discussione non sempre è lineare, la traduzione è un fatto non solo linguistico ma innanzitutto politico, ha a che fare con la costruzione collettiva di concetti e pratiche. Eppure, la sensazione è che ci si intenda con molta più immediatezza con i militanti tunisini e i giovani della “primavera araba” che con alcuni compagni europei, che sembrano vedere la crisi come qualcosa che li tocca solo indirettamente, nei termini della solidarietà internazionale. Come se la precarietà, la disoccupazione, l’impoverimento, il debito fossero questioni che riguardano solo i giovani tunisini o i “piigs” europei, e non invece un elemento generale. D’altro canto, proprio i militanti tunisini ci spiegano come il loro problema sia quello di rompere la retorica dell’eccezionalismo dei regimi arabi, cioè il discorso ufficiale di chi, cacciato il corrotto Ben Ali, vuole difendere e riprodurre il sistema di corruzione e tirannia di cui il suo regime era un’espressione. La famiglia Trabelsi non è perciò l’eccezione, ma una delle forme che la norma del capitalismo contemporaneo assume.
Insomma, diciamola così: nelle lotte globali c’è una musica comune, si sta costruendo uno spartito comune, manca ancora una canzone comune. Ovvero, un programma comune, per quanto i suoi elementi inizino già a essere collettivamente dispiegati e condivisi. I movimenti, dunque, hanno finalmente conquistato lo spazio transnazionale come luogo dell’azione politica e dei processi organizzativi. Ci sarebbero state, con la stessa forza, pratiche e capacità d’impatto, le acampadas spagnole o l’occupazione di Wall Street senza le insurrezioni in Tunisia e in Egitto, senza l’indicazione politica emersa dalle occupazioni della Casbah e di piazza Tahrir? Le lotte stanno producendo quello che in termini classici avremmo definito ciclo, e oggi – nella nuova temporalità dei conflitti e della crisi – possiamo chiamare spazio comune. Non è un caso che l’appello per il 15 ottobre sia stato rilanciato a partire dal meeting in Tunisia: non si tratta di una semplice estensione geografica, ma di una radicale messa in discussione dei confini. Una nuova Europa comincia dalle insurrezioni nel Maghreb, avevamo già detto a partire dal meeting di Parigi. Un elemento potente, infatti, attraversa e dà forma alle lotte: il piano costituente su cui immediatamente si pongono. Occupazione delle piazze, ad esempio, significa fare metropoli in comune (questo è lo sfondo della discussione nel workshop dal titolo apparentemente criptico di urbanesimo sovversivo); così come occupazione dell’università significa nuova organizzazione dei saperi, oltre la dialettica tra pubblico e privato; e così via. Costruire collettivamente nuove istituzioni: ecco la sfida.
Su questa base le lotte oggi hanno anche una percezione comune, già manifestatasi a partire dall’inverno in Tunisia e ora riassunta nello slogan che echeggia a New York “siamo il 99%”: la vocazione maggioritaria, appunto. Ma attenzione, qui bisogna intendersi. C’è, a sinistra e nei movimenti, un pericoloso vizio: recepire la vocazione maggioritaria delle lotte, che è un fatto, come sinonimo della necessità di essere moderati, che è un pregiudizio. In altri termini, gira l’idea che più si abbassa l’asticella delle pratiche e delle parole d’ordine, più si ottiene consenso. É, evidentemente, l’idea che ha guidato la sinistra al suo meritato e definitivo collasso. Il comune diventa allora difesa del pubblico, la lotta contro la Bce si traduce nel recupero del cadavere sovranista, il “que se vayan todos” si trasfigura nell’avvicendamento di governo, la proclamata fine della sinistra si sublima in una sorta di inedita e imprecisata terza via. Contrapporre le brutte rivolte alle belle occupazioni delle piazze, le insurrezioni alle rivendicate pratiche di democrazia radicale, cioè di una democrazia da reinventare e dunque non liberale, è nel migliore dei casi un ingenuo esercizio retorico. Perché, piaccia o non piaccia, nella crisi contemporanea rivolte e occupazioni, insurrezione e reinvenzione della democrazia sono un dato di fatto, che qualificano la produzione materiale di soggettività e che definiscono quella che – ancora una volta, piaccia o non piaccia – è una situazione rivoluzionaria. Per essere all’altezza dei tempi non basta disfarsi frettolosamente degli album di famiglia, ma bisogna creare una cassetta degli attrezzi comune attraverso cui ripensare i vecchi concetti e produrne di nuovi: a partire dal fatto che la radicalità è nella situazione e non nelle parole che la descrivono. Dal laboratorio tunisino, ancora una volta, abbiamo capito che essere minoritari oggi significa rimanere attaccati ai – questi sì – vecchi arnesi della rappresentanza e dello Stato-nazione, indesiderati residui di un passato che, tutti insieme, abbiamo contribuito a mettere in crisi.
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