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Diario della crisi – Lotta di classe in America

In questa nuova puntata del Diario della crisi, rubrica pubblicata su Effimera, Machina ed El Salto, Christian Marazzi analizza l’ondata di scioperi che nelle ultime settimana sta scuotendo gli Stati Uniti. È la somma, spiega Marazzi, di fattori contingenti e di lungo periodo: il Covid e il contesto economico post-pandemico, l’apparizione dei «lavoratori essenziali», il fenomeno delle grandi dimissioni hanno rafforzato il potere contrattuale degli operai e dunque le loro possibilità di conflitto. Le ragioni di lungo periodo risiedono invece nella crescente diseguaglianza degli ultimi quarant’anni. Queste lotte, che praticano nuove tattiche (ad esempio lo «stand up strike», cioè lo sciopero a singhiozzo), mostrano la crisi esistenziale del lavoro. Il rifiuto del modello di lavoro e l’urgenza di salvare l’ambiente stanno imprimendo dei cambiamenti profondi nella società, rivoluzionando la scala di valori di sistema.

da Machina

* * *

«La settimana scorsa (4 ottobre) hanno scioperato per tre giorni i 75.000 operatori sanitari della Kaiser Permanente, la più importante azienda privata senza scopo di lucro del settore. È stato il più grande sciopero sanitario della storia degli Stati Uniti. È l’ultimo di una serie impressionante di scioperi che stanno scuotendo il mondo del lavoro americano. Se le luci della scena erano state occupate dallo sciopero dell’industria cinematografica a stelle e strisce, nell’ombra altre centinaia di migliaia di lavoratori hanno incrociato le braccia negli ambiti più disparati. I baristi di Starbucks, il personale alberghiero della California, gli assistenti di volo, i portuali della West Coast, solo per citarne alcuni. L’altra novità è che i lavoratori vincono. Esemplare il caso dei 340.000 corrieri di Ups. Gli è bastato minacciare uno sciopero che sarebbe costato all’azienda sette miliardi di dollari e le loro rivendicazioni sono state accettate»[1]. E da mezzogiorno del 14 settembre sono in sciopero gli operai delle Big Three dell’industria automobilistica americana, Ford, General Motors e Stellantis[2].

L’ondata di scioperi negli Stati Uniti è la somma di fattori contingenti e di lungo periodo[3]. Il Covid, l’apparizione dei «lavoratori essenziali»[4], il rilancio economico post-pandemico impresso dalle misure statali miliardarie, il pieno impiego e il fenomeno delle grandi dimissioni sono fattori contingenti che hanno rafforzato il potere contrattuale degli operai. Non vanno inoltre dimenticate le prestazioni sociali poste in essere durante la pandemia da Trump e da Biden. Grazie a queste, molti working poor hanno ottenuto temporaneamente redditi superiori ai loro salari.

Le ragioni di lungo periodo risiedono invece nella crescente diseguaglianza degli ultimi quarant’anni. Tra il 1979 e 2022, il reddito dell’uno per cento più ricco degli Stati Uniti è cresciuto del 145%, mentre quello del novanta percento della popolazione solo del 16%. La combinazione dei fattori congiunturali e di lungo termine spiega l’esplosione della conflittualità sui posti di lavoro che sta rafforzando i sindacati americani[5]. C’è chi si inquieta, naturalmente. Ma l’economista Robert Reich li ha rassicurati, spiegando loro che furono gli scioperi degli anni Trenta-Quaranta a far nascere la classe media americana, fino ad allora quasi inesistente. La lotta della classe operaia dentro e contro il capitale del primo Novecento, generò dei progressi per l’intera società, realizzatisi materialmente nei «gloriosi trent’anni» del Dopoguerra. Negli ultimi tre decenni di neoliberismo, invece, la classe media, non solo americana, è andata prosciugandosi, scomparendo.

Questa ondata di scioperi, che nel 2022 ha conosciuto un notevole incremento sia nel numero che nei partecipanti agli scioperi[6], può segnare l’inizio di una nuova epoca storica? Non è così scontato. Secondo Heidi Shierholz, presidente dell’Economic Policy Institute[7], oltre al ritorno del protagonismo della classe operaia, altri fattori sono necessari. Negli Stati Uniti del 1935, con Franklin D. Roosevelt alla presidenza, fu promulgato il Wagner Act, una legge che promuoveva la contrattazione collettiva e la libertà di associazione sindacale, con forti tutele contro le discriminazioni razziali, incoraggiando al contempo investimenti pubblici importanti. Oggi, con l’Inflation Reduction Act promosso dall’amministrazione Biden volto a definire la nuova politica industriale «verde» americana, si assiste a un ritorno alle politiche keynesiane d’intervento statale sperimentate durante la Grande Depressione. Però, secondo Heidi Shierholz, a far difetto rispetto agli anni Trenta del secolo scorso è il contesto legislativo sul lavoro negli Stati Uniti, uscito fortemente indebolito dal trentennio neoliberista. La Legge sul lavoro è oggi così debole che per la maggior parte delle imprese l’attività anti-sindacale (union-busting) rappresenta un mero costo, peraltro non molto elevato, della normale attività d’impresa. Gli ostacoli che gli operai devono superare per sindacalizzarsi e assicurarsi un primo contratto sono colossali. Nella versione finale dell’Inflation Reduction Act, che inizialmente, a livello della House of Representatives, doveva essere fortemente pro-union, il sostegno ai lavoratori «sindacalizzati» ha lasciato il posto a quella dei lavoratori «domestici». E questo non solo per volere del senatore del West Virginia Joe Manchin, rappresentante della destra democratica, ma anche su pressione delle multinazionali straniere che vogliono usare il Sud degli Stati Uniti – dove vogliono creare molti nuovi posti di lavoro per la produzione delle auto elettriche – come la loro propria Cina personale (grazie a standard del lavoro e ambientali che in questi Stati sono decisamente inferiori)[8]. Insomma, c’è bisogno di una spinta legislativa che possa garantire la continuità delle mobilitazioni operaie in corso.

Segnali in tal senso purtroppo non s’intravvedono, né coi Democratici e men che meno coi Repubblicani. Questo spiega la sceneggiata del presidente operaio Biden, andato nel Michigan il 26 settembre a picchettare con gli operai della United Auto Workers (primo presidente americano, a memoria degli storici) contro l’ex presidente populista Trump, che il giorno dopo, invitato dal management di una fabbrica di componenti dell’auto non-sindacalizzata (Drake Enterprises di Clinton Township), rivolgendosi agli operai ha detto che Biden «vuole solo prendersi i vostri posti di lavoro e darli alla Cina. L’unica cosa utile che dovrebbe fare è cancellare le regole a favore delle auto elettriche». Biden, infatti, da una parte sostiene le rivendicazioni del sindacato UAW, ma dall’altra è all’origine dell’Inflation Reduction Act, ossia della transizione verso la produzione delle auto elettriche, che secondo alcuni analisti potrebbe comportare la perdita di qualcosa come il 40% dei posti di lavoro del settore automotive, oltretutto, come detto, senza la garanzia legislativa che la creazione di nuovi posti di lavoro sia sotto tutela sindacale.

Il problema della transizione verde nell’industria automobilistica si pone anche a livello di concorrenza cinese, dalla tecnologia molto avanzata in questo campo. Riducendo ai minimi termini, si mettono in concorrenza gli operai americani o europei con quelli cinesi, favorendo infine il populismo di qualsiasi tipo esso sia. Alcuni economisti suggeriscono che convenga ragionare in termini di standard di qualità per contrastare la produzione di auto elettriche altamente dannosa per l’ambiente e i lavoratori, introducendo delle tariffe all’importazione mirate su questi nuovi standard[9]. Anche in questo caso si evidenzia la necessità di legare i processi di sindacalizzazione al processo legislativo per tutelare il mondo del lavoro e l’ambiente. Altrimenti, questa ondata di scioperi negli Stati Uniti rischia di durare il tempo di un’estate.

«Il gioco sta tutto qua, e potrebbe decidere il prossimo inquilino della Casa Bianca, perché nel 2020 Biden aveva ottenuto il 56% dei voti degli iscritti ai sindacati contro il 42% di Trump. Deve assolutamente conservare questi margini per essere rieletto, ma mentre l’AFL-CIO lo ha appoggiato, UAW ancora no»[10]. Insomma, per evitare di fare la fine dell’asino di Buridano, per dirla con Guido Moltedo, ha dovuto metterci la faccia, anche se sperava di risolvere la crisi con un negoziato dietro le quinte condotto dalla segretaria al Lavoro Gene Sperling, come aveva già fatto per ferrovieri e portuali. Il leader della UAW, Shawn Fain, ha però detto no: Hic Rodhus, hic salta, dimostraci ciò che affermi, qua e adesso.

In ogni caso, gli scioperi alla Ford, la General Motor e Stellantis, assumono una valenza particolare. Le rivendicazioni sindacali sono un aumento dei salari del 40% nei prossimi quattro anni e il passaggio alla settimana corta di quattro giorni. Nel 1926 fu la Ford a introdurre la settimana di cinque giorni, un modello che poi si estese all’intero mondo occidentale. Se gli operai americani dell’industria automobilistica dovessero vincere su questo fronte, il loro esempio potrebbe dare un forte impulso alla rivendicazione della settimana corta su scala internazionale.

Ci sono delle possibilità di riuscita? Vedremo. Al momento è interessante osservare la tattica di lotta adottata. Si tratta di uno sciopero a singhiozzo, chiamato «stand up strike», praticato per la prima volta negli stabilimenti della GM a Flint (Michigan) nel 1936. Scioperano alcuni settori mentre altri proseguono a lavorare, seppur con grande difficoltà (tipo serrate improvvise). È una tattica molto efficace poiché mette in crisi il modello produttivo dominante in un settore, come quello automobilistico, molto interconnesso e basato sul «just in time», rendendo impossibile programmare la produzione in assenza di certezza delle forniture nel breve termine. Permette anche di far durare più a lungo il fondo scioperi di 825 milioni di dollari della UAW, che copre in parte i salari degli operai in sciopero (500 dollari per 13.000 operai in sciopero nel corso di una settimana, piuttosto che per tutti i 146 mila membri della UAW negli stabilimenti di Detroit)[11].

La pandemia ha impresso una svolta di cui si cominciano a vedere gli effetti[12]. La lotta di classe in corso negli Stati Uniti svela il collasso del modello di organizzazione del lavoro postfordista consumatosi negli ultimi trent’anni, chiamato oggi a fare i conti con la crisi esistenziale del lavoro. Alla favola del dedicarsi totalmente al lavoro per avere un futuro radioso, ormai nessuno crede più. Se a questo aggiungiamo la disastrosa crisi climatica, il futuro appare a dir poco opaco. Il rifiuto del modello di lavoro e l’urgenza di salvare l’ambiente stanno imprimendo dei cambiamenti profondi nella società, rivoluzionando la scala di valori di sistema[13].

Note [1] Francesco Bonsaver, Lotta di classe americana (conversazione con C. Marazzi), «area Unia», 13 ottobre 2023. [2] Bruno Cartosio, Lo sciopero antico delle tute blu. In forme nuove, «il manifesto», 17 settembre 2023; Guido Moltedo, Il vecchio Joe e la sfida delle tute blu, «il manifesto», 19 settembre, 2023. [3] Paolo Mastrolilli, Il ritorno degli scioperi negli Usa può segnare il duello Biden-Trump, «la Repubblica A&F», 25 settembre 2023. [4] Secondo Dustin Guastella, direttore operativo e rappresentante sindacale della sezione Teamster 623 di Philadelphia, «quando siamo entrati in lockdown, le aziende e il governo hanno creato una nuova categoria di dipendenti, “il lavoratore essenziale”. Si trattava di lavoratori ritenuti così vitali per il funzionamento dell’economia da non poter essere licenziati o autorizzati a lavorare da casa. Si trattava di infermieri, medici e assistenti sanitari, ma anche operatori sanitari, addetti di Ups, operai di fabbrica, braccianti agricoli, addetti all’industria alimentare, ecc. L’impatto psicologico di essere etichettati come “essenziali” ha fatto presa. I media e molte aziende hanno allestito un grande spettacolo dimostrando che questi lavoratori erano degli “eroi”, con dimostrazioni dal vivo in cui le persone applaudivano letteralmente i lavoratori dalle loro case. Ma quando i lockdown sono stati revocati, questi “lavoratori essenziali” non hanno visto nessuna ricompensa paragonabile al rischio che si erano assunti. Alla Ups, ad esempio, i dirigenti aziendali non hanno offerto né bonus speciali, né indennità di rischio, né aumenti salariali in segno di apprezzamento per tutto il “lavoro essenziale”. Invece, le aziende sono tornate immediatamente allo status quo ante. Questo è stato uno schiaffo in faccia», intervista di Salvatore Cannavò, «il Fatto Quotidiano», 27 settembre 2023. [5] Benjamin Wallace-Wells, State of the Union, «New Yorker», 9 ottobre 2023. [6] La School of Industrial and Labor Relations della Cornell University (Ithaca, New York, ha iniziato nel 2021 una rilevazione autonoma di tutti gli scioperi, giudicando insufficienti i dati del Bureau of Labor Statistics. Quest’ultimo, infatti, raccoglie solo i numeri relativi ai grandi scioperi (almeno mille partecipanti, almeno otto ore di sciopero), in base a una decisione che risale ai tempi di Ronald Reagan, quarant’anni fa. In questo modo, un’enorme quantità di informazioni viene tagliata via: basti pensare che il 60% dei salariati del settore privato lavora in imprese con meno di mille addetti. Inoltre, è profondamente cambiata la struttura dei salariati statunitensi, che sempre meno si apprezza inquadrandola nelle rigide categorie tradizionali (agricoltura, industria, servizi, pubblico impiego). Vedi Piermaria Davoli, Ripresa degli scioperi in Usa, «lotta comunista», settembre 2023. Vedi anche Carmelo Caravella, Negli Usa i lavoratori esistono e scioperano, Centro per la riforma dello Stato (newsletter), 6 ottobre 2023. [7] Vedi In the US, workers’ rights are moving to centre stage, «Financial Times», 30 settembre/1 ottobre 2023. [8] Rana Foroohar, US autoworker strike could not be more critical, «Financial Times», 18 settembre 2023. [9] «A better idea would be for the US and Europe to come together and set joint labour and environmental standards on how EVs (Electric Vehicles) are made. This would help avoid a race to the bottom with either China, or each other, and put tariffs on vehicles that don’t adhere to them. Those standards should account for the total carbon load of production – I would want to know, for example, how much coal-powered electricity or forced labour is used to make all clean energy inputs, whether they come from China or elsewhere» (Foroohar, US autoworker, cit.). [10] Paolo Mastrolilli, Biden tra gli operai dell’auto in sciopero: «Le aziende vanno bene, alzino i salari», «la Repubblica», 27 settembre 2023. [11] Claire Bushey – Taylor Nicole Rogers, UAW strike tactics play on supply chain fears, «Financial Times», 21 settembre 2023. Vedi anche Peter Campbell, Claire Bushey, Dealers fear running out of cars as US strikes continue, «Financial Times», 28 settembre 2023. [12] «Covid, Great resignation e Quite quitting hanno evidenziato come l’approccio al lavoro stia cambiando: meno ore dedicate alla fatica, più alla vita. Inoltre, sullo sfondo c’è l’invasione di robot e intelligenza artificiale, che renderanno gli esseri umani sempre meno indispensabili. Quindi il futuro è accorciare le settimane, per lavorare tutti, senza rinunciare alla retribuzione, perché i sostituti meccanici non percepiscono stipendio. Il gruppo 4 Day Week ha condotto un esperimento a cui hanno partecipato 3 mila dipendenti di 61 aziende. Dopo, 56 aziende hanno deciso di continuare la settimana di quattro giorni, e la maggior parte dei lavoratori ha giurato che non torneranno indietro per nessuna ragione al mondo. Prepariamoci» (vedi Paolo Mastroilli, La settimana corta è più vicina, l’idea è lavorare tutti, ma meno, «la Repubblica A&F», 2 ottobre 2023). [13] È questo il significato più profondo del libro di Francesca Coin, Le grandi dimissioni. Il nuovo rifiuto del lavoro e il tempo di riprenderci la vita (Einaudi, Torino 2023). Si veda anche la bella recensione di Cristina Morini, Quel sistema tossico che innerva il lavoro consumandoci la vita, «il manifesto», 17 settembre 2023.

* * *

Christian Marazzi, dopo aver insegnato all’Università di Padova, alla State University di New York e alle Università di Losanna e di Ginevra, è diventato docente presso la Scuola universitaria della Svizzera italiana. È autore di numerose pubblicazioni in campo socio-economico e politico; in particolare di saggi sulle trasformazioni del modo di produzione postfordista e sui processi di finanziarizzazione, tra le quali segnaliamo: E il denaro va. Esodo e rivoluzione dei mercati finanziari (Bollati Boringhieri, 1998), Il posto dei calzini. La svolta linguistica dell’economia e i suoi effetti sulla politica (2° ed., Bollati Boringheri, 1999), Capitale e linguaggio. Dalla new economy all’economia di guerra (DeriveApprodi 2002), Finanza bruciata (Casagrande, 2009), Il comunismo del capitale. Finanziarizzazione, biopolitiche del lavoro e crisi globale (Ombre corte, 2010), Diario della crisi infinita (Ombre Corte, 2015) e Che cos’è il plusvalore? (Casagrande, 2016).

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