Israele: teatrini elettorali in un regime di apartheid coloniale
Il 17 Settembre Israele richiama parte della popolazione alle elezioni anticipate.
I palestinesi rimangono delegittimati e strangolati tra politiche razziste e sioniste.
Il 17 Settembre Israele richiama parte della popolazione alle elezioni anticipate. Una parte perché, all’interno di un regime di apartheid, votare è un diritto riservato a pochi. È importante fin dal principio sottolineare che 5 milioni di palestinesi che vivono in Cisgiordania, Gaza e Gerusalemme, e le cui vite sono direttamente controllate da Israele, non possono votare, mentre 600.000 coloni israeliani che risiedono illegalmente in Cisgiordania hanno il diritto di voto. In Palestina si crea quindi una situazione paradossale, in cui i palestinesi vivono attorniati da colonie illegali israeliane, i cui abitanti sono gli unici a poter decidere delle loro sorti. Nessuna autodeterminazione, nessuna libertà, nessuna risoluzione. Israele controlla l’economia, i confini, i movimenti, i servizi e le vite della popolazione palestinese. Non è un caso che in contemporanea allo svolgimento del teatrino elettorale e delle “consultazioni democratiche” le forze di occupazione Israeliana in pochi giorni abbiano: arrestato il ministro dell’Autorità Palestinese delegato agli affari per Gerusalemme; arrestato più di 100 palestinesi tra Tulkarem, Ramallah, Nablus, Issawiya e Silwan; ucciso una donna a sangue freddo al checkpoint di Qalandia.
All’intero del quadro elettorale è importante sottolineare che solamente la minoranza palestinese residente nei territori del ‘48 (Israele) ha avuto la possibilità di votare. Le opzioni della minoranza palestinese del ‘48 erano principalmente due: il boicottaggio delle elezioni e votare per la lista araba unita. Durante la campagna elettorale vi è stato un acceso dibattito tra chi esortava al boicottaggio delle elezioni e tra chi temeva che non votando si sarebbe aggravata la condizione dei palestinesi.
Esaminando i programmi dei leader sionisti, le loro campagne e le loro promesse non sembrano esserci differenze sostanziali sulle sorti della popolazione palestinese. Vi è chi inneggia all’annessione della Valle del Giordano, chi promette un’invasione della Striscia di Gaza e chi promette la costruzione di colonie.
I risultati delle elezioni erano prevedibili. Nessun partito ha ottenuto la maggioranza. La coalizione Blu-Bianco del generale Benny Gantz e il partito Likud del Primo Ministro Benjamin Netanyahu non riescono, con le loro coalizioni ad ottenere la maggioranza dei seggi. I due partiti ottengono rispettivamente 33 e 32 seggi in parlamento con percentuali praticamente fotocopia 25.9% e 25.1%. Il terzo partito dallo spoglio dei voti risulta essere “La Lista Araba Unita”, guidata da Ayman Odeh, una coalizione che riunisce i partiti palestinesi in Israele. La formazione araba ottiene 13 seggi con un 10%. Gli altri partiti che siederanno in parlamento sono 6 e sono tutti sionisti seppur con varie sfumature green, liberal e rosé. Ottengono percentuali ad una sola cifra e si dividono i restanti 42 seggi. La formazione del governo per il momento sembra una chimera, già le elezioni dello scorso aprile avevano consegnato allo stato coloniale di Israele un parlamento frammentato incapace di esprimere un governo. Queste elezioni sono la diretta conseguenza della spaccatura nella coalizione di destra. Avidgor Lieberman, leader del partito ultranazionalista Yisrael Beiteinu (Israele casa nostra) ha rotto la storica alleanza con la Likud di Benjamin Netanyahu. La posta in palio erano i rapporti di forza all’interno della coalizione di destra che governava Israele, i dissidi tra i partiti ultraortodossi e gli ultranazionalisti, guidati appunto da Lieberman.
La grande novità di questa tornata elettorale è la perdita della maggioranza relativa da parte della Likud, il partito dell’attuale e più longevo presidente di sempre in Israele, Benjamin Netanyahu. L’attuale presidente, probabilmente logorato da tanti anni al potere è finito sotto la lente della magistratura per diversi scandali tra cui un caso di corruzione. Il suo principale sfidante sull’onda dell’indignazione istituzionale ha sfruttato questo per legittimarsi in uno spazio politico centrista per il rispetto delle istituzioni, ma chi è Benny Gantz, il leader del partito bianco-blu?
Se Benjamin Netanyahu è assai noto alle cronache per le sue posizioni di aperta pulizia etnica dei palestinesi e per le sfrenate politiche neoliberiste che in questi anni hanno devastato la Palestina tutta, poco è noto del suo sfidante. Benny Gantz è un ex generale ed ex capo di stato maggiore dell’esercito di occupazione sionista. Benny Gantz è stato dipinto dai giornali nostrani come salvatore della democrazia Israeliana, rappresentante di una lista di centro-sinistra. Ma come spesso accade per i politici sionisti, progressisti e non, è un criminale di guerra che negli anni è stato al comando delle peggiori operazioni militari condotte contro il popolo palestinese. Nel 2006 ha partecipato all’operazione “Summer Rain” a Gaza e alla seconda guerra del Libano, tra il 2008 ed il 2009 ha condotto il massacro “Piombo fuso” a Gaza, nel 2012 ancora è al comando dell’operazione “Colonna protettiva” ed nel 2014 “Margine protettivo”. Un bel curriculum per un “medio-progressista” è notizia di questi giorni che l’ex generale e politico Israeliano stato citato alla corte dell’AIA per crimini di guerra legati all’operazione margine protettivo.
È impotante capire anche chi è l’altro attore protagonista di questa tornata elettorale. Avidgor Liberman, il leader di Yisrael Beiteinu, viene generalmente indicato dai giornali nostrani come il leader degli Israeliani russofoni. In realtà Lieberman è un colono che vive illegalmente in Cisgiordania e strenuo difensore degli Israeliani residenti in West Bank e delle politiche più oltranziste per l’espansione delle colonie e l’annessione dei territori palestinesi occupati con conseguente espulsione della popolazione palestinese. Lieberman disse in relazione alla marcia del ritorno dei palestinesi che si avvicinavano disarmati al confine tra Gaza e le terre del ‘48 che per un soldato sparare ad un manifestante disarmato era un modo per “alleviare lo stress”. Lieberman rappresenta in pieno il paradosso di Israele: un colono scappato dall’allora Unione Sovietica che rappresenta le comunità russofone Israeliane. Una comunità di coloni che si stabilisce in una terra lontana e pretende, con la violenza delle armi, di deportare o uccidere la popolazione indigena per rubarne la terra. Una perfetta rappresentazione della storia di Israele metonimia di uno stato coloniale. Questa formazione ultranazionalista che rappresenta coloni e russofoni ha preso poco meno del 7% e con 8 seggi si prepara a diventare l’ago della bilancia del prossimo parlamento.
In questo panorama sembrerebbe chiaro che la “Lista Araba Unita” di Ayman Odeh non ha nessuno spazio di manovra anche perché le principali richieste della lista sono la fine delle demolizioni di case palestinesi e l’abolizione della legge che designa ufficialmente Israele come stato ebraico. Eppure l’alleanza che era già nell’aria in campagna elettorale si è concretizzata, a parole, nella prima tornata di consultazioni. Infatti la Odeh si è detto disponibile ad un governo con a capo Benny Gantz. Una mossa incomprensibile se non fosse che Netanyahu ha alzato il tiro non di poco in campagna elettorale paventando annessioni, nuove colonie e l’invasione di Gaza, spingendo gli arabi a qualsiasi manovra pur di far cadere Netanyahu. Una strategia che nonostante tutto non sembra aver sortito alcun effetto, infatti per ora il premier incaricato di formare il governo è proprio Netanyahu. Ayman Odeh ha mostrato esclusivamente come in un sistema di apartheid e controllo demografico il voto a quei pochi palestinesi che ancora possono formalmente accedere a questo diritto non può essere considerato uno strumento di lotta. La formazione del governo resta in mano a Likud e Blu-Bianco. Due partiti senza i quali non è possibile formare un governo, due partiti che si sono scontrati sulla base della leadership e della lealtà alle istituzioni senza mai mettere in discussione le pratiche di genocidio ed apartheid coloniale. Il generale Gantz, che potrebbe mettere fine all’era di Netanyahu ha tutte le carte in regola per divenire il protettore della patria. Sarà in grado, magari con proposta di pace basata sulla soluzione a due stati, perpetuare politiche di genocidio alternando alte intensità di violenza a politiche di soft-power. La popolazione palestinese resta, sin dalla fondazione dello stato di Israele, strangolata e delegittimata all’interno dello scacchiere burocratico-elettorale. Queste elezioni dimostrano più che mai, con buona pace dei commentatori liberal internazionali, che l’unica soluzione in Palestina è la lotta. L’unica pratica che, storicamente, ha permesso ai popoli oppressi di liberarsi dal giogo coloniale.
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