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Elezioni tedesche – Un tranquillo day after

Alla fine, nonostante i rumors a ridosso delle urne, tutto come previsto: vince la Merkel; fuori liberali e pirati; calano Linke e Verdi con una Spd che guadagna qualcosa ma rimane anni luce distante dal principale competitor. Tutti i maggiori leader europei si complimentano con Angela, che ora può trattare da un punto di forza una coalizione con Spd o Verdi, avendo già al suo primo mandato nel 2005 sperimentato formule simili. D’altra parte questi ultimi partiti negli ultimi anni ne hanno sostanzialmente sostenuto le politiche.

E proprio per questo risultavano spuntati in campagna elettorale, non potendo proporre una critica reale ai centristi. I quali tra l’altro hanno mostrato una notevole capacità nel proporsi come “catch all party“: sussumendo istanze socialdemocratiche ed ambientaliste e arrivando a raffigurarsi come “partito della nazione”. Anche sul tema europeo, sostanzialmente assente nella campagna elettorale, il consenso pre-elezioni fra Cdu/Csu e Spd era pressoché totale e dunque è lecito aspettarsi una assoluta continuità. Oltretutto da una posizione ulteriormente consolidata: probabilmente per gli Usa una notizia non gradita, e certamente nessun Eurobond all’orizzonte… Ma è ancora prematuro soffermarci su valutazioni di ampia portata.

Guardiamo invece al fatto che Miss Austerity ha soluzioni per la Germania che vanno in direzione nettamente opposta a quanto predica per molti altri paesi. Non a caso un nuovo piano di sostegno pubblico alle famiglie ed il non aumento delle tasse sono state le sue parole d’ordine. Ce la farà Angela a rispettare le promesse? La stampa tedesca pare poco interessata per ora alle questioni più strettamente economiche (nonostante molti “esperti” segnalino l’impossibilità di una politica di spese pubbliche), concentrandosi enfaticamente sul figurare una Cancelliera “potente come non mai”, parlando di “Repubblica Merkel” o di “era del merkelismo“. Insomma, quella che i politologi teutonici hanno iniziato a chiamare Merkiavelli (con la solita lettura asfittica del povero Niccolò, ma tant’è…), impostasi come manager efficace del sistema-Germania ed al contempo affidabile mamma protettrice, pare avviarsi verso una nuova stagione di relativamente tranquilla capacità di governance. E’ tuttavia necessario sviluppare, per quanto sinteticamente, alcune riflessioni.

La prima è relativa allo statuto della crisi in Germania. Infatti la vera vittoria della Merkel va attribuita alla propria capacità di celare o scaricare le responsabilità rispetto ad un quadro che non può dirsi roseo: i salari hanno un trend di diminuzione costante; il divario fra ricchi e poveri si dilata sempre più (come dato basti considerare che la metà della popolazione detiene meno dell’1% della ricchezza); il ceto medio scivola verso il basso. Dunque le tendenze riscontrabili in grossa parte dei paesi europei non esentano la Germania. Sicuramente il grosso afflusso di migranti (duecentomila l’anno, che vanno anche a coprire un tasso di natalità tra i più bassi d’Europa) e la capacità del sistema produttivo “fordista” di garantire un generale accesso ai consumi, non sono sufficienti a spiegare il perché il dato della crisi non emerga nel dibattito pubblico tedesco.

Se indubbiamente il confronto con la condizione indubbiamente peggiore di altri contesti continentali può fungere da parziale spiegazione, una ipotesi si può formulare a partire dalla differente temporalità che le misure economiche di marca neoliberista hanno avuto. Non bisogna infatti dimenticare che la Germania, agli inizi dell’euro, era la “grande malata” d’Europa. Sembra paradossale. Invece le “ricette” che oggi Merkel propugna per i Piigs sono state in realtà sperimentate in primis proprio dai tedeschi: compressione dei salari in favore delle esportazioni; liberalizzazioni; tagli al welfare; aumento dell’età pensionabile; creazione di segmenti sociali a bassissimi salari. Si dovrebbe dedurre che l’austerità nel lungo periodo “funziona”? Tutt’altro.

Infatti il non detto è che queste misure sono state finalizzate alla politica definita “beggar thy neighbour” (“frega il tuo vicino”): infatti negli anni pre-crisi i partner dell’Eurozona sono stati i veri obiettivi della concorrenza tedesca. Mentre crollavano consumi privati ed investimenti, la politica dei bassi salari ha consentito di triplicare il saldo rispetto, ad esempio, all’Italia. Qui si rinviene una delle cause del deficit dei “paesi periferici”: nell’aumento delle esportazioni tedesche grazie ad un rigore pagato dalle classi meno abbienti. L’altra considerazione è che le politiche rigoriste sono state spalmate su un arco temporale piuttosto ampio. Mentre negli ultimi anni le austerity politics sono state agite come strumenti di shock economy (anche in Inghilterra, non solo nel meridione), in Germania hanno avuto un andamento più estensivo che non ha indotto una “paura” della crisi nell’opinione pubblica.

Ultime riflessioni. Chi è stato il promotore di queste politiche di “austerity d’anticipo”? Ovviamente l’Spd targata Schröder. Tra le altre cose, l’ex cancelliere ancora si vanta per l’introduzione dei cosiddetti “mini-job“. Contratti ultra-flessibili (e ovviamente malpagati: generalmente 450 euro mensili per 20 ore settimanali con scarsissimi contributi) che hanno introdotto massicciamente la precarietà. Dietro la retorica che li presenta come vettori dell’abbattimento della disoccupazione e come creatori di posti di lavoro, lo stesso ministero del Lavoro ha dovuto ammettere che in realtà negli ultimi dieci anni si è di fatto operata una semplice divisione in forme diverse di quel che c’era prima, al netto di meno posti a tempo indeterminato (circa due milioni in meno). Attualmente sono oltre sette milioni i mini-jobs, il 70% dei quali non ha alcun reddito. Se a questi aggiungiamo il milione e mezzo di lavoratori che percepiscono meno di quattro euro l’ora, ci si rende conto di come sia strategico per la tenuta del sistema sociale il significativo sistema di agevolazioni (su affitto, trasporti, scuole ecc…) che lo Stato garantisce. Ma attenzione: non si parla certo di forme abbozzate di reddito sociale! Decisamente più consono guardarle come aiuti di Stato alle imprese per formare un mercato del lavoro precario, con un’ampia accettazione di posti di lavoro sottopagati ecc…

Ma dicevamo: Schröder. Ha inaugurato la simpatica usanza di usare la carriera politica come trampolino di lancio per il personale arricchimento (finendo a dirigere la Gazprom). Peer Steinbrueck, l’attuale candidato Spd, più modestamente lascia la politica in cerca di un ruolo da conferenziere ben pagato, sull’esempio di Blair e Clinton. Proprio collegandoci a questi due chiudiamo. E’ infatti sull’onda della seconda fase dell’ascesa neoliberista, quella che ai ghigni sprezzanti di Thatcher e Regan sostituiva i sorrisi luminosi dei due politici sopra nominati (i cui fasti tanto rincorre il nostrano Renzi…), che Schröder ha cavalcato il momento imponendo alla Spd una adesione totale alla dottrina neoliberista. E come per tutte le sinistre riformiste, questa adesione ha segnato e decretato la strategica subalternità che ora vivono in tutta Europa.

Il ruolo di apripista che le sinistre istituzionali hanno svolto per le politiche liberiste in Italia lo si è conosciuto bene, e anche la Germania da questo punto di vista è un modello comparabile. Dunque non risulta strano che i giovanotti dell’Spd esultassero in piazza di fronte alla possibilità di poter nuovamente accedere a qualche poltrona di governo…

Qui non si tratta certamente di lanciare disperati appelli a un ripensamento da parte delle sinistre riformiste europee, quanto di affinare ulteriormente le armi della critica e del metodo politico per cancellarle finalmente dall’orizzonte.

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