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Gli Stati Uniti verso le elezioni: guerre e guerra civile

Manca poco più di una settimana alle elezioni negli Stati Uniti e nonostante i pronostici regna l’incertezza.

Guerre e guerra civile, le istituzioni USA continuano ad essere intrappolate tra due fuochi che si alimentano a vicenda: da un lato il crepuscolo del gendarme del mondo (gli avversari vedono spazi di possibilità, gli alleati sono sempre meno subordinati e giocano partite proprie, Europa in crisi di nervi esclusa), dall’altro la polarizzazione interna che non cessa di manifestarsi, tra attentati, conflitti sociali e tentazioni secessioniste.

Riavvolgiamo rapidamente il nastro. La crisi del 2008, Obama, l’elezione di Trump, i fatti di Capitol Hill, il ritiro frettoloso dall’Afghanistan, la guerra russo-ucraina, l’esplosione dell’inflazione e il genocidio di Gaza: è questa la sequenza storica in cui si inseriscono le prossime elezioni statunitensi. Le contraddizioni si moltiplicano senza sosta in un turbinio di crisi che si influenzano a vicenda.

Il Partito Democratico prova a riproporre la ricetta dell’Hope obamiano con Kamala Harris, ma i tempi sono cambiati e ogni residua speranza di un futuro prospero al di fuori della polarizzazione è impalpabile. Il trumpismo, invece di cadere in disgrazia tra scandali giudiziari e violenze, non solo rappresenta ancora il sentire di una parte significativa degli USA, ma attira a sé parti significative dell’establishment a stelle e strisce.

La polarizzazione trasversale si è mostrata chiaramente dalle parti delle corporation dell’hi tech: mentre Bill Gates ha versato la cifra di 50 milioni di dollari alla campagna della Harris, Elon Musk ha creato un comitato elettorale a sostegno di Trump in cui sono confluiti oltre 75 milioni di dollari. La tendenza dei commentatori nostrani è quella di separare il Musk imprenditore da quello “politico” senza comprendere che le due cose stanno inevitabilmente insieme e che il proprietario di Tesla esattamente come gli altri magnati delle corporation dell’hi-tech di fatto ha un progetto di rimodellamento profondo della società. Jeff Bezos, altro competitor in questo quadro, si è appena tirato fuori dai giochi vietando al suo giornale il Washington Post di pubblicare il suo tradizionale editoriale di endorsment ai democratici per paura delle eventuali reazioni di Trump nel caso in cui dovesse vincere.

Un’analisi pubblicata dal gruppo di ricerca OpenSecrets, agli inizi di ottobre, ha rivelato che molti potenti mega-donatori stanno orientando le proprie scelte a favore di Donald Trump. In ogni caso ad oggi la campagna del 2024 si annuncia la più costosa della storia americana, segno che lo scontro intracapitalistico si sta facendo sempre più profondo.

A pesare sulla polarizzazione interna è anche la politica estera degli Stati Uniti. Normalmente questo aspetto viene considerato secondario, ma se nella vittoria di Trump nel 2016 un ruolo importante l’ha giocato la stanchezza dell’impegno bellico USA in Medio Oriente, oggi a pesare sono la guerra in Ucraina e il genocidio di Gaza.
L’impatto delle due proxy wars, di cui una almeno in parte “ob torto collo”, si evidenzia in epifenomeni tutt’altro che secondari. Uno dei tentativi di uccidere Trump ha coivolto un supporter della causa ucraina che, secondo quanto viene riportato dai giornali, avrebbe tentato di proporsi come reclutatore di combattenti internazionali per l’esercito ucraino. Dall’altro lato le mobilitazioni in solidarietà con il popolo palestinese stanno mettendo in seria difficoltà i democratici che continuano a rifornire di armi l’esercito israeliano contribuendo sostanzialmente allo sterminio in corso a Gaza ed ora nel sud del Libano. La significativa presenza di arabo-americani in alcuni stati chiave e una più generale disillusione nei confronti del presidente in carica e della sua vice per quanto riguarda la politica nei confronti dei palestinesi potrebbero rappresentare un fattore determinante in queste elezioni.

In generale la politica estera del governo Biden non favorisce i democratici. Il consenso verso il coinvolgimento degli USA nella guerra in Ucraina è da più di un anno che sta scemando e l’opinione degli americani nei confronti della strage di Gaza è ancora più netta: secondo un sondaggio Galup di marzo se inizialmente l’opinione pubblica americana sosteneva l’azione militare di Israele a Gaza, un sondaggio Gallup mostra che ora la disapprova con un rapporto di 55% a 36%. I democratici hanno espresso un giudizio nettamente negativo, con un margine di disapprovazione di ben 75 a 18. Un sondaggio della Quinnipiac University, invece, ha rilevato che gli americani sono contrari a maggiori aiuti militari per Israele, ben il 52% contro il 39%. E’ probabile che in questi mesi la forbice si sia ulteriormente ampliata.

Non bisogna farsi trarre in inganno, se la guerra in Ucraina e il supporto seppure imbarazzato a quella israeliana rappresentano delle sfide geopolitiche per gli USA nel più ampio progetto di contenimento del vero competitor, cioè la Cina, la guerra ha avuto nella politica bideniana anche un importante ruolo interno nell’economia. La spesa militare si è assommata agli altri vari stimoli che l’amministrazione democratica ha messo in campo per risollevare l’economia postpandemica.

Direttamente collegata alla guerra, ma non solo, vi è la questione dell’inflazione, che, nonostante le misure messe in campo, come prevedeva Paul Mattick continua a non scendere, anzi a settembre ha registrato un +2,4% negli USA. Eppure apparentemente l’economia statunitense è in salute, tanto che giornalisti e commentatori liberal non smettono di lodare l’amministrazione Biden. Le aspettative per il Pil sono di una crescita superiore al 3% sia per quest’anno sia per il prossimo e la disoccupazione è solo al 4,3%. Nonostante ciò l’indice della fiducia dei consumatori è crollato ad ottobre a cifre simili a quelle del periodo pandemico: in molti settori economici gli stipendi e più in generale le entrate delle famiglie americane non sono riusciti a tenere il passo dell’inflazione. La spiegazione è semplice: nonostante la ricchezza prodotta stia complessivamente aumentando, la distribuzione di essa è sempre più diseguale. Gli Stati Uniti sono l’unica Nazione del G7 in cui l’indice Gini che misura la disparità nei redditi è superiore ai 40 punti, quando è sotto i 35 nelle nazioni Ue del G7 e anche inferiore ai 30 punti in Canada. Se si guarda alle più recenti statistiche relative alla diffusione della povertà nei paesi OCSE, quasi ovunque nel 2022 il tasso di povertà era superiore al 10%. Gli Stati Uniti, uno dei Paesi più ricchi del club OCSE, spiccavano con un tasso di povertà pari al 18%. Per 38 milioni di persone, cibo a sufficienza, acqua pulita, un’abitazione adeguata o vestiti puliti sono un lusso spesso inaccessibile.

Secondo una ricerca del Mit del 2023 il salario di sussistenza per una famiglia di quattro persone è di 24,16 dollari l’ora, mentre il salario minimo federale è fissato a 7,25 dollari. Ed anche i programmi di assistenza pubblica rilanciati dall’amministrazione Biden hanno sortito un effetto limitato: dice il sociologo Matthew Desmond “per ogni dollaro che viene speso per l’assistenza solo 22 centesimi finiscono nelle tasche di una famiglia povera. Perché gli Stati hanno molta discrezione e spesso tengono i soldi da parte per le emergenze. Inoltre solo un americano su cinque che ha diritto ai buoni pasto li riceve davvero e uno su sei non chiede crediti fiscali perché sono difficili da richiedere in una selva di burocrazia.”

E’ chiaro che la disaffezione, il risentimento per questa condizione di disuguaglianza peseranno nella dinamica elettorale. Il fatto che le politiche di Trump e Vance siano apertamente antioperaie conta relativamente poco, le promesse elettorali dei democratici non hanno sortito un vero effetto sulla vita delle persone e alcuni sondaggi elettorali sembrano certificarlo con una perdita di consenso da parte dei democratici persino tra i neri ed i Latinos.

Per quanto ormai normalizzata nel racconto mediatico la polarizzazione negli Stati Uniti è senza precedenti persino sul piano territoriale. Negli ultimi anni si parla apertamente di possibili secessioni da destra o da sinistra di alcuni Stati dell’Unione. Un esempio è quello della cosidetta Calexit, cioè dell’abbandono da parte della California liberale dell’Unione in caso di vittoria dei repubblicani alle elezioni. Nel senso opposto va invece il Texas, che ad inizio di quest’anno era stato protagonista del cosidetto Border Standoff cioè la situazione di tensione, tra l’agenzia federale CBP (Customs and Border Protection) e la Guardia Nazionale del Texas, su una porzione del confine col Messico rispetto alla questione dei migranti. Nello stato tradizionalmente repubblicano e amministrato dal governatore Abbott, fedelissimo di Trump, si è fatta spazio l’idea nell’opinione pubblica di una possibile secessione in caso di vittoria di Kamala Harris. Queste non sono semplici speculazioni, ma scenari che vengono discussi all’interno dei circoli politici democratici e repubblicani. Per quanto al momento risultino improbabili è evidente che siano la cifra di una profonda crisi degli assetti istituzionali statunitensi.

Dunque a prescindere da chi vincerà queste elezioni i nodi irrisolti dell’impero rimangono tutti in gioco e per certi versi si moltiplicano, nonostante la supremazia tecnologica e militare. Ciò che è abbastanza pacifico è che sia Trump che Harris abbracceranno politiche protezioniste nell’intento di portare avanti la guerra commerciale con la Cina, con l’Europa che ancora una volta farà da vaso di coccio. E se Trump con tutta probabilità cercherà di risolvere velocemente la guerra con la Russia è quasi certo che d’altro canto darà carta bianca ad Israele nel suo tentativo di ridisegnare il Medio Oriente.

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